minima / Oltre i graffiti, il sangue
Avevano teorizzato con Marx alla mano, letto in originale, nella madrelingua, la «fine dello Stato», e in effetti uno Stato tedesco venne giù, abolito da un giorno all’altro, estinto con il suo apparato. Pensionati i generali, i capi della polizia, cacciati senza pensione ministri e deputati, smascherate le spie, liberati i prigionieri politici, mandato al macero il denaro… La fiaba marxiana si avverò vent’anni fa. Ma i suoi fedeli lettori non esultarono perché lo Stato abbattuto, l’unico nella storia occidentale, fu proprio quello dei loro sogni, che doveva approdare al comunismo. Bloccato nella fase intermedia.
Per difenderlo nel mezzo secolo della sua durata si ricorse alle armi come nessun altro Stato fece in Europa. Armi di dissuasione e armi che sparavano su cittadini inermi. Una storia terribile, senza eguali. È vero, negli anni del dopoguerra in Europa non si andava troppo per il sottile, a Parigi abbatterono nelle strade decine di algerini gettandone i cadaveri nella Senna (per gli islamici perseguitati si mossero allora solo i cattolici di Louis Massignon), in Gran Bretagna si combatteva una specie di guerra civile contro i cattolici dell’Irlanda del Nord, una vera e propria guerra civile si ebbe in Grecia sul finire dei Quaranta, con strascichi golpisti fino ai Settanta, in Polonia si scatenavano nuovi pogrom contro gli ebrei e stavolta con la benedizione degli «antifascisti» al potere, in Ungheria i carri armati sovietici schiacciarono una rivolta di «comunisti», a Praga i medesimi carri armati terrorizzarano gli apprendisti riformatori, spietatezze insomma che tolgono rilievo in confronto alla stagione del terrorismo italiano, però in nessun posto dell’Occidente si tenne una metropoli in gabbia, divisa per trent’anni con muri e filo spinato e torrette di guardia, da vero Lager, e cani addestrati e militi con i mitra spianati pronti a sparare. Che all’occorrenza spararono, freddando duecento concittadini sul punto di evadere da quella galera. Una volta, a un diciottenne centrato nell’atto di scavalcare, capitò di essere lasciato in quella scomoda posizione a dissanguarsi per parecchie ore fino alla morte. Non fu consentito ad alcun samaritano di prestare aiuto. Si era agli inizi, doveva servire da monito. Nessuna organizzazione di sinistra intitolò a quel giovane migrante un suo circolo. Si chiamava Peter Fechter. Lo ricorda una croce. Chissà se i giudici europei oseranno proibire quel simbolo anche lì.
Non erano bastate le armi per frenare la fuga popolare attraverso le frontiere, il governo «democratico» costruì un muro, centocinquanta chilometri di muro, assediò i berlinesi che non volevano credere nella religione comunista. A quei tempi le commissioni europee si preoccupavano poco delle discriminazioni religiose, si prodigavano invece, pieni di realismo e di buonsenso, perché si dialogasse con i signori che discriminavano e che apparivano assai crudeli. Né i movimenti giovanili, in anni tumultuosi in cui una manifestazione non si negava a nessuna causa, provarono ad abbattere sia pure simbolicamente quella oscena barriera nel cuore d’Europa (negli anni Ottanta si divertiranno a ricoprirne il lato occidentale con scritte e scarabocchi in forma punk, immagini di successo ancor oggi, che nascondono nei media la parete grigia vista dalle vittime). Neppure gli intellettuali firmatari sprecarono un loro autografo per la causa tedesca, anche perché un intervento pur generico poteva costare loro il mancato ingresso nella suggestiva Berlino Est, il viaggio in una metropolitana con stazioni per soli stranieri, il soggiorno di ospiti privilegiati all’inferno; un appello e una firma cioè poteva privarli del visto per la DDR e del biglietto per il teatro brechtiano che li confortava nei loro princìpi: il fascismo e il capitalismo messi in burletta sulla scena socialista, diavolo di un drammaturgo epico!
Vent’anni fa, il 9 novembre questa immondizia ebbe fine. La data andrebbe ricordata come il nostro 25 aprile, come quella dell’ingresso delle truppe alleate nei campi di sterminio nazisti, come il giorno della sconfitta della Germania hitleriana. Cioè con cerimonie solenni, ispirate alla gravità di una storia europea poco spensierata anche nel dopoguerra. Alla maniera di Rostropovich, un altro fuggiasco, che nella notte della liberazione suonò Bach tra le macerie della barriera comunista. Invece, chissà perché, per commemorare l’abbattimento del Berliner Mauer si ricorre all’ironia, come se fosse la festa di quei murales che le autorità cittadine hanno saggiamente lasciato decomporsi senza spendere un solo euro per il restauro. Inimmaginabile un «giorno della memoria» dello sterminio ebraico a colpi di segnacci spiritosi e di canzonette, di writers e di rock. E chi mai tenterebbe di spiegare Auschwitz ai ragazzi con giochi di simulazione sulla vita nei campi, con Lager elettronici a fini didattici? Ma per rammemorare gli uomini e le donne, i bambini (anche decenni) e i vecchi (anche ottantenni) uccisi dai poliziotti su quella «striscia della morte» (si veda la voce ‘Muro’ di Wikipedia per ripercorrerne le principali vicende), a Roma si prevedono canzonettisti sanremesi, installazioni, videoclip, murales, trenta performances, ‘eventi multimediali’ vari: il «contemporaneo» si impadronisce dell’occasione e sparge il suo spirito parodistico. Gli ex frequentatori del Berliner Ensemble adesso si dedicano a un genere di moda più faceta.
Nei giorni scorsi, a Roma, i funzionari comunali preposti alle cose della cultura hanno organizzato un convegno sui ‘muri’ in genere, sulle barriere politiche e psichiche. Il Muro comunista diventa così una muraglia metaforica. In altri ambiti si parlerebbe di banalizzazione dell’orrore. Gira gira, si tirerà fuori anche il muro israeliano per evitare gli attentati. Come se i cittadini tedeschi dell’Est fossero stati dei kamikaze, degli shaid pronti a esplodersi. Meglio spendere i soldi pubblici per diffondere nelle scuole un piccolo libro dal tono pariniano che Arbasino scrisse per il novembre dell’Ottantanove e a cui mise un titolo settecentesco: La caduta dei tiranni. Meglio una semplice informazione su quanto avvenne a Berlino: il Muro, prima di esser colorato dalle bombolette spray fu macchiato dal sangue.
Avevano teorizzato con Marx alla mano, letto in originale, nella madrelingua, la «fine dello Stato», e in effetti uno Stato tedesco venne giù, abolito da un giorno all’altro, estinto con il suo apparato. Pensionati i generali, i capi della polizia, cacciati senza pensione ministri e deputati, smascherate le spie, liberati i prigionieri politici, mandato al macero il denaro… La fiaba marxiana si avverò vent’anni fa. Ma i suoi fedeli lettori non esultarono perché lo Stato abbattuto, l’unico nella storia occidentale, fu proprio quello dei loro sogni, che doveva approdare al comunismo. Bloccato nella fase intermedia.
Per difenderlo nel mezzo secolo della sua durata si ricorse alle armi come nessun altro Stato fece in Europa. Armi di dissuasione e armi che sparavano su cittadini inermi. Una storia terribile, senza eguali. È vero, negli anni del dopoguerra in Europa non si andava troppo per il sottile, a Parigi abbatterono nelle strade decine di algerini gettandone i cadaveri nella Senna (per gli islamici perseguitati si mossero allora solo i cattolici di Louis Massignon), in Gran Bretagna si combatteva una specie di guerra civile contro i cattolici dell’Irlanda del Nord, una vera e propria guerra civile si ebbe in Grecia sul finire dei Quaranta, con strascichi golpisti fino ai Settanta, in Polonia si scatenavano nuovi pogrom contro gli ebrei e stavolta con la benedizione degli «antifascisti» al potere, in Ungheria i carri armati sovietici schiacciarono una rivolta di «comunisti», a Praga i medesimi carri armati terrorizzarano gli apprendisti riformatori, spietatezze insomma che tolgono rilievo in confronto alla stagione del terrorismo italiano, però in nessun posto dell’Occidente si tenne una metropoli in gabbia, divisa per trent’anni con muri e filo spinato e torrette di guardia, da vero Lager, e cani addestrati e militi con i mitra spianati pronti a sparare. Che all’occorrenza spararono, freddando duecento concittadini sul punto di evadere da quella galera. Una volta, a un diciottenne centrato nell’atto di scavalcare, capitò di essere lasciato in quella scomoda posizione a dissanguarsi per parecchie ore fino alla morte. Non fu consentito ad alcun samaritano di prestare aiuto. Si era agli inizi, doveva servire da monito. Nessuna organizzazione di sinistra intitolò a quel giovane migrante un suo circolo. Si chiamava Peter Fechter. Lo ricorda una croce. Chissà se i giudici europei oseranno proibire quel simbolo anche lì.
Non erano bastate le armi per frenare la fuga popolare attraverso le frontiere, il governo «democratico» costruì un muro, centocinquanta chilometri di muro, assediò i berlinesi che non volevano credere nella religione comunista. A quei tempi le commissioni europee si preoccupavano poco delle discriminazioni religiose, si prodigavano invece, pieni di realismo e di buonsenso, perché si dialogasse con i signori che discriminavano e che apparivano assai crudeli. Né i movimenti giovanili, in anni tumultuosi in cui una manifestazione non si negava a nessuna causa, provarono ad abbattere sia pure simbolicamente quella oscena barriera nel cuore d’Europa (negli anni Ottanta si divertiranno a ricoprirne il lato occidentale con scritte e scarabocchi in forma punk, immagini di successo ancor oggi, che nascondono nei media la parete grigia vista dalle vittime). Neppure gli intellettuali firmatari sprecarono un loro autografo per la causa tedesca, anche perché un intervento pur generico poteva costare loro il mancato ingresso nella suggestiva Berlino Est, il viaggio in una metropolitana con stazioni per soli stranieri, il soggiorno di ospiti privilegiati all’inferno; un appello e una firma cioè poteva privarli del visto per la DDR e del biglietto per il teatro brechtiano che li confortava nei loro princìpi: il fascismo e il capitalismo messi in burletta sulla scena socialista, diavolo di un drammaturgo epico!
Vent’anni fa, il 9 novembre questa immondizia ebbe fine. La data andrebbe ricordata come il nostro 25 aprile, come quella dell’ingresso delle truppe alleate nei campi di sterminio nazisti, come il giorno della sconfitta della Germania hitleriana. Cioè con cerimonie solenni, ispirate alla gravità di una storia europea poco spensierata anche nel dopoguerra. Alla maniera di Rostropovich, un altro fuggiasco, che nella notte della liberazione suonò Bach tra le macerie della barriera comunista. Invece, chissà perché, per commemorare l’abbattimento del Berliner Mauer si ricorre all’ironia, come se fosse la festa di quei murales che le autorità cittadine hanno saggiamente lasciato decomporsi senza spendere un solo euro per il restauro. Inimmaginabile un «giorno della memoria» dello sterminio ebraico a colpi di segnacci spiritosi e di canzonette, di writers e di rock. E chi mai tenterebbe di spiegare Auschwitz ai ragazzi con giochi di simulazione sulla vita nei campi, con Lager elettronici a fini didattici? Ma per rammemorare gli uomini e le donne, i bambini (anche decenni) e i vecchi (anche ottantenni) uccisi dai poliziotti su quella «striscia della morte» (si veda la voce ‘Muro’ di Wikipedia per ripercorrerne le principali vicende), a Roma si prevedono canzonettisti sanremesi, installazioni, videoclip, murales, trenta performances, ‘eventi multimediali’ vari: il «contemporaneo» si impadronisce dell’occasione e sparge il suo spirito parodistico. Gli ex frequentatori del Berliner Ensemble adesso si dedicano a un genere di moda più faceta.
Nei giorni scorsi, a Roma, i funzionari comunali preposti alle cose della cultura hanno organizzato un convegno sui ‘muri’ in genere, sulle barriere politiche e psichiche. Il Muro comunista diventa così una muraglia metaforica. In altri ambiti si parlerebbe di banalizzazione dell’orrore. Gira gira, si tirerà fuori anche il muro israeliano per evitare gli attentati. Come se i cittadini tedeschi dell’Est fossero stati dei kamikaze, degli shaid pronti a esplodersi. Meglio spendere i soldi pubblici per diffondere nelle scuole un piccolo libro dal tono pariniano che Arbasino scrisse per il novembre dell’Ottantanove e a cui mise un titolo settecentesco: La caduta dei tiranni. Meglio una semplice informazione su quanto avvenne a Berlino: il Muro, prima di esser colorato dalle bombolette spray fu macchiato dal sangue.
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