minima / La festicciola della libertà
Racconta Billy Wilder che quando uscì a Berlino il suo brillantissimo Uno, due, tre – un film sulla città divisa, tratto da una pièce di Ferenc Molnàr (quello dei Ragazzi della via Pàl) ma complicato strada facendo dalla costruzione del Muro, tirato su mentre la troupe stazionava lì nei pressi – «nessuno aveva voglia di ridere di una commedia sui rapporti tra Est e Ovest ambientata a Berlino, mentre altri berlinesi rischiavano la vita saltando dalle finestre oltre il muro, oppure cercando di attraversare i canali a nuoto sotto il fuoco delle mitragliatrici. Non che non si possa scherzare anche con l’orrore…». In pochi lo hanno menzionato in questi giorni, eppure è stato il film più feroce sul comunismo tedesco, preferendo evidentemente le ironie bonarie da diario adolescenziale, da murales appunto. E quei berlinesi che non avevano voglia di ridere con la satira di Wilder chissà quali epiteti avrebbero usato per la festicciola della libertà in salsa turistica, organizzata a Roma. Ieri dicevamo che altre cerimonie meritava la riconquistata libertà in Europa, concerti come quello diretto da Barneboim alla Porta di Brandeburgo, che metteva insieme Wagner e Schönberg, la preghiera di riconciliazione con le massime autorità tedesche in una chiesa berlinese, perfino la retorica dei capi di Stato di mezzo mondo. E naturalmente la festa popolare con tanto di fuochi d’artificio.
Anche da noi un concerto, un grande nome della musica, si poteva ottenere, non siamo ancora alla periferia del mondo. Invece, si passa per via Condotti sotto la pioggia e si scorge sul fondo, un obbrobrio grigiastro. Si affretta il passo per veder meglio quell’incubo che invade la mente e si scopre che sulla scalinata di Trinità dei Monti, proprio là dove il ripido pendio del Pincio si addolcisce nelle soluzioni scenografiche dell’ingegno barocco, qualche dissennato ha pensato bene di costruire un Berliner Mauer con tanto di coloracci acidi degli writers. Intorno, nelle misure delicatissime della singolare piazza, accanto alla Barcaccia berniniana, una specie di ‘festa dell’Unità’, con la solita plastica degli accampamenti, con la solita plastica delle sedie, con pile di amplificatori per diffondere rock davvero cheap sotto lo sguardo smarrito di branchi di giapponesi grondanti. Strapaese mixato con l’elettronica del «contemporaneo», il risultato è una discoteca burina. Collocare il tutto a piazza di Spagna suona come una bestemmia. Passi la scalea barocca sfruttata dalle case di moda per farne una passerella, ma un muro per fini pedagogici è una trovata bestiale (con le migliori intenzioni del mondo, s’intende: in modo che lo shock sia più truculento, secondo la vecchia storia avanguardistica dell’imbrattamento della Gioconda, della bellezza violentata, dei pugni nello stomaco; solo che a lungo andare vien voglia di rispondere pugno su pugno e dare così una bella lezione a questi picchiatori estetici). Esulando da Berlino, insopportabile è ormai la continua profanazione delle opere d’arte romane, l’Auditorium essendo il luogo ideale per simili imprese. O i nuovi spazi del Maxxi o del Macro. Se poi, nonostante i soldi pubblici spesi, queste architetture non fanno abbastanza sensazione, non sono riconoscibili, non si prestano a essere offese e umiliate da gesti blasfemi, neppure dai muretti berlinesi, peggio per loro e per chi le ha volute.
In questo ultimo anno più volte è venuto il sospetto che le nuove autorità cittadine non si rendano bene conto di operare nella città di Roma: la cultura dell’urbe non prevede le feste paesane, i nomi di chi si esibisce nei luoghi sacri della città devono essere di tutto rispetto, le archistar vanno tenute a bada ma i dilettanti allo sbaraglio sono ancor peggio. In tutta Europa le differenze destra/sinistra sull’arte, l’architettura e l’urbanistica appaiono sempre più sfuggenti ma a Roma, di fronte a tanto spirito gregario nei confronti della cultura dei predecessori, viene quasi da rimpiangere gli originali.
Racconta Billy Wilder che quando uscì a Berlino il suo brillantissimo Uno, due, tre – un film sulla città divisa, tratto da una pièce di Ferenc Molnàr (quello dei Ragazzi della via Pàl) ma complicato strada facendo dalla costruzione del Muro, tirato su mentre la troupe stazionava lì nei pressi – «nessuno aveva voglia di ridere di una commedia sui rapporti tra Est e Ovest ambientata a Berlino, mentre altri berlinesi rischiavano la vita saltando dalle finestre oltre il muro, oppure cercando di attraversare i canali a nuoto sotto il fuoco delle mitragliatrici. Non che non si possa scherzare anche con l’orrore…». In pochi lo hanno menzionato in questi giorni, eppure è stato il film più feroce sul comunismo tedesco, preferendo evidentemente le ironie bonarie da diario adolescenziale, da murales appunto. E quei berlinesi che non avevano voglia di ridere con la satira di Wilder chissà quali epiteti avrebbero usato per la festicciola della libertà in salsa turistica, organizzata a Roma. Ieri dicevamo che altre cerimonie meritava la riconquistata libertà in Europa, concerti come quello diretto da Barneboim alla Porta di Brandeburgo, che metteva insieme Wagner e Schönberg, la preghiera di riconciliazione con le massime autorità tedesche in una chiesa berlinese, perfino la retorica dei capi di Stato di mezzo mondo. E naturalmente la festa popolare con tanto di fuochi d’artificio.
Anche da noi un concerto, un grande nome della musica, si poteva ottenere, non siamo ancora alla periferia del mondo. Invece, si passa per via Condotti sotto la pioggia e si scorge sul fondo, un obbrobrio grigiastro. Si affretta il passo per veder meglio quell’incubo che invade la mente e si scopre che sulla scalinata di Trinità dei Monti, proprio là dove il ripido pendio del Pincio si addolcisce nelle soluzioni scenografiche dell’ingegno barocco, qualche dissennato ha pensato bene di costruire un Berliner Mauer con tanto di coloracci acidi degli writers. Intorno, nelle misure delicatissime della singolare piazza, accanto alla Barcaccia berniniana, una specie di ‘festa dell’Unità’, con la solita plastica degli accampamenti, con la solita plastica delle sedie, con pile di amplificatori per diffondere rock davvero cheap sotto lo sguardo smarrito di branchi di giapponesi grondanti. Strapaese mixato con l’elettronica del «contemporaneo», il risultato è una discoteca burina. Collocare il tutto a piazza di Spagna suona come una bestemmia. Passi la scalea barocca sfruttata dalle case di moda per farne una passerella, ma un muro per fini pedagogici è una trovata bestiale (con le migliori intenzioni del mondo, s’intende: in modo che lo shock sia più truculento, secondo la vecchia storia avanguardistica dell’imbrattamento della Gioconda, della bellezza violentata, dei pugni nello stomaco; solo che a lungo andare vien voglia di rispondere pugno su pugno e dare così una bella lezione a questi picchiatori estetici). Esulando da Berlino, insopportabile è ormai la continua profanazione delle opere d’arte romane, l’Auditorium essendo il luogo ideale per simili imprese. O i nuovi spazi del Maxxi o del Macro. Se poi, nonostante i soldi pubblici spesi, queste architetture non fanno abbastanza sensazione, non sono riconoscibili, non si prestano a essere offese e umiliate da gesti blasfemi, neppure dai muretti berlinesi, peggio per loro e per chi le ha volute.
In questo ultimo anno più volte è venuto il sospetto che le nuove autorità cittadine non si rendano bene conto di operare nella città di Roma: la cultura dell’urbe non prevede le feste paesane, i nomi di chi si esibisce nei luoghi sacri della città devono essere di tutto rispetto, le archistar vanno tenute a bada ma i dilettanti allo sbaraglio sono ancor peggio. In tutta Europa le differenze destra/sinistra sull’arte, l’architettura e l’urbanistica appaiono sempre più sfuggenti ma a Roma, di fronte a tanto spirito gregario nei confronti della cultura dei predecessori, viene quasi da rimpiangere gli originali.
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