~ UN CATAFALCO NERO E ARGENTO, UN PALCO PER LA VITTORIA PROVVISORIA DELLA MORTE, VIENE INNALZATO OGGI NELLA CHIESA DELLA TRINITÀ DEI PELLEGRINI, E LA COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI ASSUME TONI BAROCCHI. ~ MA PER TUTTO L’ANNO L’ANTICA LITURGIA CHE RIPRENDE VITA IN QUESTA CHIESA DI ROMA HA LE FORME SONTUOSE DI RUBENS, LE CADENZE DI PALESTRINA. ~
a D. P.
in memoriam
Nulla invecchia maggiormente delle opere estetiche moderniste. Basta guardare gli oggetti dell’avanguardia del dopoguerra, le piccole utopie ribelli seguite alle grandi ribellioni che produssero il disastro, i segni puerili della dissoluzione: che aria polverosa, d’altri tempi, di irrimediabile estraneità; realizzati negli anni della nostra infanzia, sono già bisognosi di perenni quanto ardui restauri; l’effimero, artificiosamente custodito oltre il suo giorno, si sbriciola, muore. E si metta a confronto simile paccottiglia ludica, e ormai assai malinconica, con le sculture dell’ellenismo o con la radiosa pittura del gotico senese: nonostante i molti secoli trascorsi, la vitalità dell’arte resiste. Chi invece fa del nuovo assoluto la sua bandiera crolla nel giro di una stagione, e appena passata la moda è dannato al marchio del «démodé». Anche la liturgia della messa uscita dal Vaticano II, volendo cancellare troppe pagine della tradizione, credendo di trovarsi all’incrocio decisivo della storia dell’umanità, finì per risentire terribilmente dell’arte e della cultura anni Sessanta, oggi in via di sparizione. Quei fragili esperimenti pretendevano, nei casi migliori, fare tabula rasa dei linguaggi che avevano reso possibili i grandi massacri, sperando con fede magica che la cancellazione delle parole portasse via anche gli incubi della storia. I corsi e ricorsi culturali potevano correggersi di generazione in generazione – in breve ci si accorse infatti della impossibilità di vivere nell’abrasione del passato e con un idioma inventato, del tutto artificiale –, mentre la messa novecentesca, troppo legata a tali mondani interessi, restò con le stigmate delle assemblee politiche e del teatro cosiddetto dell’assurdo (ossia di un mistero che non trova scioglimento, né parola finale di verità). L’influenza teatrale era evidente, a cominciare dalla scenografia spoglia; l’influenza politica trascinava al centro la plebs Dei, popolo non più genuflesso e orante ma assiso intorno al prete alla maniera delle assemblee operaie, dove alcuni fedeli andavano all’ambone come si sale alla tribuna per pronunciare un intervento. Del resto, ancora oggi, le nuove chiese sono l’ultima traccia dell’architettura industriale in via di sparizione, templi dell’ideologia pauperista quasi mai sfiorati dai vezzi e dai lussi del pur onnipotente post-moderno. La casa di Dio è diventata un fabbricone acromatico, uno spazio dell’angoscia sociale, in stretta continuità con le peggiori brutture del mondo. In quegli edifici che nulla mantenevano dunque della gaudiosa architettura cattolica, elastico divenne il cerimoniale, i silenzi si protraevano a piacere, sopraggiungevano contributi imprevisti dei presenti, canti aggiunti, preghiere inventate ex novo, si moltiplicavano insomma le varianti. Il tempo liturgico, che dovrebbe riflettere quello eterno, si trasformava in un fragile contenitore dove l’attualità poteva entrare a ogni istante con il suo strascico di miserie. Le asimmetrie dei candelieri, della croce, del tabernacolo, riecheggivano le tavole eleganti imbandite dalle dame alla moda in anni sghembi che introducevano la rivoluzione negli ambienti borghesi. Design di gusto adorniano, coltivato in quel Nord Europa già addestrato dalla severità protestante; architettura del Bauhaus che rinnegava l’arte per la comunicazione; rifiuto se non disgusto fisico per le forme mediterranee dove si ebbe la coltura del cattolicesimo («esiste un’affettività antiromana» sostenne Carl Schmitt con buon fiuto). In queste traversie estetiche fu approntata la liturgia del tardo Novecento. C’era però un grosso problema: le «arti» e i linguaggi nuovi sembravano indirizzati da un destino beffardo verso un unico approdo: l’ironia e la parodia. Poteva la cerimonia del divino ricorrere a simili forme espressive?
Con una punta di ingenuità, gli ideatori della nuova messa credettero nella trasparenza delle lingue volgari, come se bastasse ricorrere al «gergo della massaia al mercato», secondo la celebre indicazione del Lutero traduttore biblico, per rendere eloquente la parola divina. Né d’altra parte si vedevano schiere di geniali Lutero forgiare la parola moderna, anzi neanche mezzo luccicò, soltanto dei buoni studiosi che si arrovellavano ad aggiornare – termine fatale – l’arcaico lessico ebraico-aramaico-greco, non prevedendo la rapida usura che sarebbe sopraggiunta quando si fanno parlare i profeti come degli scrittori garbati piuttosto che con la sonorità dei poeti latini. Ma, al di là dei modelli letterari, la facile credenza nella parola trasparente portava alla conclusione che bastasse la traduzione per illuminare i fedeli: doveva essere alla portata di tutti quel succo difficile, che risultava incomprensibile anche ai sommi teologi e filosofi, in modo da ridurre il mistero alle semplificazioni del nostro tempo, al sapere democratico che mastica ogni cosa con noncuranza e guarda con timore e tremore soltanto alla scienza. Tale atteggiamento suscitava l’arguzia di un celeberrimo interprete, maestro nella resa in lingua italiana di alcuni capolavori ebraici e latini, Guido Ceronetti, che si chiedeva quanto la popolana, sempre tirata in ballo in simili controversie, capisse della risposta «e con il tuo spirito» rivolta al celebrante, la formula restando altrettanto ostica, in quanto ricchissima di significato, anche trasposta nel lessico quotidiano. Più in generale, Montaigne riteneva che le lingue moderne fossero troppo languide per trattare temi gravi, noi senza Dante, Montaigne, Lutero, Goethe, senza neppure i loro epigoni ottocenteschi, osammo ricostruire la lingua di Dio avendo nelle orecchie le dissonanti formule del Gruppe 47 o del nostrano Gruppo 63 se non il forzoso periodare e il fumosissimo lessico di saggi e articoli di una triste stagione, forse tra le più magre della storia letteraria europea.
L’uso del latino nei sacri riti non fu cancellato dal Concilio, come spesso viene creduto, si mise mano al novus ordo anzi quando i padri conciliari se ne erano tornati a casa. Procendendo da indicazioni generiche, si accantonò allora il «rito romano antico», per meglio dire lo si tolse proprio di mezzo, lo si proibì come un’eresia, senza sfumature, senza periodi di trapasso, senza il rispetto che il Concilio di Trento ebbe per i riti in vigore «da almeno duecento anni», senza aspettare che le generazioni di vecchi morissero con le formule di sempre. Furono privati delle loro preghiere i cristiani che ebbero la sventura di invecchiare in quel tempo. Erano abituati a distinguere il sacro dal profano, l’altare da tutto il resto, avevano nel cuore la segreta cortina che circonda il sancta sanctorum, la loggia degli angeli, dove accedevano reverenti solo privilegiati fedeli, di sesso maschile, in genere con apposite vesti; abbattute le balaustre, furono costretti a vedervi donne in pantaloni e uomini in magliettina che leggevano i sacri testi. Repressione dei sentimenti più semplici, delle passioni più tenere, educazione forzata, secondo l’uso rivoluzionario, che è l’opposto della carità cristiana, da parte di pretini saccenti. Piccole guerriglie iconoclaste sottrassero quadri di santi ai loro devoti, profanarono amate reliquie, vendettero agli antiquari sacre suppellettili, nascosero le antiche preghiere, sostituite con tante chiacchiere, riverbero della nevrosi assembleare, abolirono il canto gregoriano, la polifonia, il suono degli organi a canne, per strumenti elettronici chiesti in prestito al rock. I più incolti dei contadini avevano biascicato in chiesa il latino, mescolando sonorità, adattando ad sensum, spesso con strafalcioni, sempre rosicchiando le desinenze, proprio come avevano fatto gli antenati quando diedero vita alla lingua volgare. In nomine Domini, Dio parlava loro così, consolava così. I nostri padri e madri furono sepolti con parole corrive, sconsacrate, che sembravano non tenere a bada la morte, le forze dell’Inferno.
Per decenni, anche nell’urbe santa, il rito romano fu «imbavagliato» (Ceronetti). Più recentemente, i suoi fedeli erano costretti a radunarsi in una chiesina sconosciuta ai più, in una viuzza cieca, in una clandestinità da catacombe durante la persecuzione pagana. Ovviamente qui nessuno perseguitava nessuno, ci si limitava allo scherno per i nostalgici, gli ignoranti, i «fascisti» si disse pure. Un tedesco che si era distinto per intelligenza e sapere nel Concilio novecentesco, Joseph Ratzinger, si mostrerà colpito da tanta acrimonia: «Rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia». Già, perché il rito romano non risale al Concilio di Trento, come spesso si fa credere, condannandolo in questo modo al discredito che in certi ambienti clericali ancora avvolge la Controriforma, bensì al cristianesimo delle origini. Gregorio Magno lo codificò, gregoriano perciò dovrebbe esser chiamato prima che tridentino. San Pio V, nello spirito conciliare, con immenso scrupolo, anche filologico, redasse un messale che riordinava una tradizione più che millenaria.
Invano uno stuolo di letterati, artisti, musicisti, filosofi e cineasti chiese al papa di lasciare sopravvivere, magari in qualche tempio marginale, il segno della continuità con la Chiesa del genio cattolico. L’appello era promosso da Cristina Campo e firmato da Wynstan Hugh Auden, José Bergamìn, Robert Bresson, Benjamin Britten, Jorge Luis Borges, Cristina Campo, Pablo Casals, Elena Croce, Fedele D’Amico, Luigi Dallapiccola, Giorgio De Chirico, Tammaro De Marinis, Augusto Del Noce, Salvador De Madariaga, Carl Theodor Dreyer, Francesco Gabrieli, Julien Green, Jorge Guillén, Hélène Kazantzakis, Lanza Del Vasto, Gertrud von Le Fort, Gabriel Marcel, Jacques Maritain, François Mauriac, Eugenio Montale, Victoria Ocampo, Nino Perrotta, Goffredo Petrassi, Ildebrando Pizzetti, Salvatore Quasimodo, Elsa Respighi, Augusto Roncaglia, Wally Toscanini, Philip Toynbee, Evelyn Waugh, Marìa Zambrano, Elèmire Zolla. Quando mai si adunò un numero di tanti eletti personaggi d’ogni continente per una pubblica richiesta?
Un vero paradosso intanto si produceva: veniva riconosciuto il diritto all’esistenza in seno al cattolicesimo del rito ambrosiano, greco, armeno, melkita, copto, maronita, mozarabico (in un viaggio in Spagna, Giovanni Paolo II celebrò nel canone ‘visgotico’ come pure è chiamato) e vari altri, ma per il rito latino non c’era più posto. Tollerante e benigna verso gli arcaismi di tutte le culture, la Chiesa di Roma riservava per sé la modernità assoluta. Nonostante questa ‘clandestinità’ durata alcuni decenni, il rito romano rifulge ancor oggi, classico. A cominciare dalla sua lingua, il latino. Era parlato dai popoli che formavano l’Impero, era il simbolo dell’universalismo, l’esatto contrario del radicamento romantico del linguaggio nel suolo, resta la forma salda che cede meno di altre al corso dei tempi, «corazza d’oro della Chiesa» lo chiamò qualcuno.
Nella Roma rinascimentale, tra Campo de’ Fiori e il Tevere, un eroe della Controriforma, Filippo Neri, accoglieva e ospitava i derelitti nelle case private di suoi generosi amici, poi l’opera pia si trasformò in un immenso ospizio (ospedale, albergo, luogo di conforto) che da allora, per secoli, funzionò da dormitorio e mensa per le immense folle dei giubilei seicenteschi e per i viaggiatori di mezzo mondo che quotidianamente venivano a pregare sulla tomba di Pietro. La attigua chiesa della Trinità dei Pellegrini deve il nome a questa impresa di carità cristiana (nell’ospedale, il giovane Mameli, l’autore dell’inno d’Italia, venuto a combattere il papa tra i volontari della Repubblica romana, fu assistito nella sua agonia). In questa chiesa che si presenta con una facciata tardo-barocca disegnata da Francesco De Sanctis, l’autore della scalinata di Trinità dei Monti, si celebra tutti i giorni, finalmente alla luce del sole, la messa di «rito romano antico», naturalmente in latino. È un dono di Benedetto XVI alla sua diocesi. Lo sguardo profano lo considerà come il confinamento in una ‘riserva indiana’, quello metafisico vi intravede il polmone nascosto della Chiesa.
Ieri la festa d’Ognissanti era celebrata alla Trinità con un pontificale dalla maestosità rubensiana, oggi, nel giorno consacrato alla commemorazione dei defunti, una messa solenne esorcizza i trionfi della morte. I celebranti indossano i paramenti neri, al centro della chiesa, tra sei candelieri con i ceri accesi, si eleva un catafalco sormontato da un simbolico feretro. Il catafalco ormai è sconosciuto ai più. Un tempo, invece, soltanto le bare degli aristocratici, per estremo atto di umiltà dopo una vita sfarzosa, venivano deposte sulla nuda terra. Gli altri cristiani in morte erano innalzati: il corpo umano diventato cadavere saliva su questo barocco apparato, giustappunto un palco secondo una spiegazione etimologica, rivestito di drappi liturgici neri trapuntati d’oro o d’argento, circondato dai ceri. Riconsacrato ancora una volta, a segnare davanti alla comunità che lo accompagnava nell’ultimo viaggio il fatto, incontrovertibile per i cattolici, che mentre comincia il processo di decomposizione della carne si apre anche una glorificazione della medesima carne che troverà in Cielo il suo massimo splendore alla fine dei tempi. Nei funerali post-conciliari, il violetto sostituisce il troppo luttuoso nero, quasi si dovessero smorzare le tinte del dramma, la bara è abbandonata sul pavimento, lasciata sola fisicamente mentre le chiacchiere profane dei parenti e degli amici si mescolano alle parole liturgiche del sacerdote, in un rito che somiglia talvolta a quello civile tanto il sacro si ritira, appena rischiarato dal cero pasquale, in un timido accenno all’immortalità. Non c’è comunque il memento mori che discende da quel palco, il grande spettacolo della morte cristiana che grida il dolore di essere strappati a questo mondo e promette una vita ancor più bella nell’aldilà. Per un simile rituale cattolico, per le messe da requiem in rito romano, composero i massimi musicisti dell’Occidente, da Mozart a Verdi; a quei tempi i luterani provavano la mancanza di un culto che appariva insuperabile per alleviare il dolore umano e, nel tentativo di riecheggiarne i modi, Brahms scrisse Ein deutsche Requiem, un Requiem tedesco.
I gesti, gli inchini dell’antica liturgia: ogni atto conferma una gerarchia, nel rito romano. C’è un imperatore del mondo, dice la Chiesa delle origini, con una metafora certo appartenente a quell’epoca ma compresa o comunque intuita per secoli e a ogni latitudine. È arduo del resto immaginare un Dio presidente della repubblica, una partecipazione democratica della creatura alla volontà dell’Assoluto. La collaborazione di Adamo alla creazione divina, alla creazione della lingua umana (Genesi, 2,18-20), è una bellissima premessa alla nostra storia ma non ha nulla di ‘democratico’, e se proprio un riferimento storico va cercato, si potrebbe parlare di un investimento feudale. Sarà meglio evocare la lotta di Giacobbe, il tentativo di forzare il Creatore, una battaglia d’amore, un drammatico scontro padre e figlio su scala universale, conflitto riproposto da Cristo sulla croce. Un mistico scontro insomma piuttosto di una conta di voti, piuttosto di un’assemblea che dà mandato al suo Dio. Sarà pure un valoroso compito allora, nella confusione del moderno, stabilire una traduzione di quella traditio spesso oscura ai nostri occhi – e negli ultimi due secoli, con sofferenza e ingegno nobili figure del cattolicesimo si impegnarono in tal senso – ma ci deve essere un originale ben saldo e splendente, un testo netto e sempre rintracciabile da cui tradurre, per non esporci ai pericoli di ricollocare nelle origini l’idolatria del senso comune attuale. Inoltre, l’originale deve essere riconosciuto come un testo sacro, non soltanto storico, altrimenti si finisce in una letteraria querelle degli antichi e dei moderni.
C’è un apologo sorto nell’ebraismo chassidico, riportato da numerosi narratori jiddish, che potrebbe fungere da sentenza sulla soglia dell’opera non solo letteraria di Kafka, e che rischiara la parabola discendente della religione nello stentato compromesso con il moderno più devastante: «Quando il Baal-Schem si trovava di fronte a un compito difficile, andava in un certo luogo del bosco, accendeva un fuoco e meditava pregando, e sempre fu eseguito quel che egli aveva deciso. Una generazione dopo, quando il Magghid di Meseritz si trovò di fronte al medesimo compito, andò allo stesso posto del bosco e disse: “Accendere il fuoco noi non possiamo più, ma le preghiere possiamo ancora dirle”, e quel che desiderava divenne realtà. Ancora una generazione più tardi, Rabbi Moshé Leib di Sassov, di fronte a un analogo impegno, andò anche lui nel bosco e disse: “Non siamo più in grado di accendere il fuoco e non conosciamo più le meditazioni segrete che fan parte della preghiera, ma il posto del bosco dove tutto questo avvenne lo conosciamo, e questo dovrebbe bastare”. E infatti bastò. Ma quando un’altra generazione dopo, Rabbi Israel di Richine si trovò di fronte al medesimo dovere, si sedette sulla sua poltrona dorata nel suo castello e disse: “Il fuoco non siamo più in grado di accenderlo, le preghiere non sappiamo più dire e neppure conosciamo più il posto preciso, ma possiamo tuttavia raccontare il fatto come in realtà è avvenuto”…» (versione di Shmuel Yosef Agnon). Della tradizione non resterebbe che il racconto, la letteratura come religione dei nostri giorni, il rito sostituito dalle letture e dalle omelie. Il moderno, è vero, spezza la catena delle generazioni, rovescia la superiorità sapienziale dei vecchi sui giovani, del modello sulla copia, si inorgoglisce della sua potenza che svilisce la forza del passato, che rende incerte le antiche fedi e mette perciò a rischio l’ebraismo riformato come il protestantesimo; la tradizione cattolica, la continuità apostolica, prova a resistergli proprio in virtù del possesso del messale che conserva fedelmente i sacri testi e in virtù della pratica dei sacri riti che al messale del Vetus Ordo Missae si attengono.
Cristina Campo viene in soccorso di questo «Almanacco» per quanto lo riguarda più da vicino, la questione cioè dell’arte oggi, ricollegando il problema estetico con il discorso svolto fin qui: «L’odio moderno per i riti… Il rito per eccellenza questa esperienza di morte-rigenerazione. So di parlare di qualcosa che i più non sanno che cosa sia, che qualcuno appena ricorda, che sopravvive soltanto in pochissimi luoghi sconosciuti. Sono quelli, io credo, i veri modelli, gli archetipi della poesia, che è figlia della liturgia come Dante dimostra da un capo all’altro della Commedia». Infatti, una liturgia informe e un’eclisse dell’arte vanno di pari passo. Bernard Berenson sembrava offrire un appoggio alle parole della scrittrice, pur parlando della scultura tardo-romana: nelle periodiche crisi «l’artista rimane abbandonato a se stesso, senza un modello che gli sia di mèta: intaglia e gratta, spalma e imbratta, per un vago impulso che gli urge da dentro, ma senza ben sapere che cosa vuol fare e dove vuole arrivare. A caso, uno dei meno incapaci, dotato di naturale talento per il proprio mestiere, può produrre qualcosa che appaga la sua vanità. Comunica la propria soddisfazione agli amici letterari: costoro raramente non riescono a convincere colui che esercita un’arte manuale, che i suoi prodotti, scolpiti o dipinti, sono un esempio di meditata, deliberata, metafisicamente fondata, cosmicamente inestimabile – novità» (L’Arco di Costantino o della decadenza della forma, Electa 1951).
Se non vuole finire nel disorientamento tratteggiatto da Berenson, nella parodia del «cosmicamente fondato», l’artista, l’arte, ha bisogno della liturgia e prima ancora della teologia. Andò così fin dalle origini, dalla scultura greca che dalla concezione della divinità derivava la bellezza umana: l’unica forma dignitosa per gli dèi era quella umana, e la perfezione si impadroniva allora dell’antropomorfismo divino come del teomorfismo umano. Per la pittura medioevale, rinascimentale e barocca, è ancora più evidente che nella Commedia di Dante la dipendenza dalla liturgia.
Estraneo alla cultura greca, il danese Kierkegaard si sdegnava per la ricerca di una immagine di Dio, dovendo l’Assoluto restare soltanto un mistero. Questa però è la cupa religiosità luterana, il cattolicesimo sottolinea invece l’incarnazione, la ostensione di Dio, di cui l’arte vuole essere l’eco. Iconofilia è anche credere al volto visibile del Mistero. I piccoli Kierkegaard senza tormento del nostro tempo criticheranno come idolatrica l’antica liturgia, ripeteranno l’accusa di estetismo. Certo, si dovrebbe replicare, la liturgia si svolge in forme umane, esteriori, non è un delirio né una visione interiore, può essere accompagnata dal «Kitsch linguistico, musicale, pittorico…» di cui parla Martin Mosebach nel suo L’eresia dell’informe (edito in italiano da Cantagalli di Siena) – titolo che allude alle commistioni con i veleni estetici di oggi –, oppure essere sorretta dall’arte contrappuntistica di Palestrina e discepoli che mette in musica la parola divina. E si può avere come in questa chiesa romana, quale vigoroso sussidio per la vista, la pala d’altare di Guido Reni (del soave Guido, come fu sempre chiamato dai contemporanei pure abituati ai toni sublimi) o un inguacchio di un tardo transavanguardista, commissionato o meglio subìto in quel di San Giovanni Rotondo da frati incolti che orecchiano la voga.
È dunque la bellezza cattolica a fare scandalo tra i negatori della immagine fisica di Dio. La qualità della preghiera, del rito, che non cede alla credenza diffusa secondo cui l’espressività informe sarebbe più adatta all’incontro con il divino. La domenica, nella chiesa della Trinità, si può constatare la potenza nell’universo sacro dell’arte visiva e dell’arte musicale rigorosissimamente strutturate. Il cerimoniale rigido, che prevede genuflessioni e inchini, gesti e precedenze, ha la stessa disciplina ed esattezza di un’opera d’arte, disegna una forma che si fa speculare della corte celeste. Al momento in cui il Simbolo costantinopolitano, cantato polifonicamente, professa coralmente la fede nel visibilium et invisibilium, lo sguardo corre per l’abside, alla ricerca delle cose visibili che rinviano a quelle invisibili, ai segni che qui sono pitture come la Trinità di Guido Reni, la Trinità raffigurata nelle fattezze umane. Moltissime chiese romane, potrebbero esser definite «il santuario della bellezza del corpo umano», come dice George Weigl della Sistina. Questo è il sentire cattolico.
Credo, scandisce il coro, in «unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam» davvero fatta carne, in continuità fisica con gli apostoli attraverso la catena di papi, vescovi e sacerdoti che si snoda nei secoli. La promessa divina ad Abramo si svolge nel tempo mediante la continuità di sangue, la stirpe ebraica; quella cristiana va oltre la filiazione di sangue ma ricorre ugualmente a un contatto fisico, il battesimo, la consacrazione sacerdotale degli eredi di quel drappello apostolico con l’imposizione delle mani, con l’unzione.
«Et exspecto resurrectionem mortuorum» si canta con la massima solennità. Aspettano tutti la «vitam venturi sæculi», e nella speranza la cerimonia si illumina di Paradiso. Amen.
a D. P.
in memoriam
Nulla invecchia maggiormente delle opere estetiche moderniste. Basta guardare gli oggetti dell’avanguardia del dopoguerra, le piccole utopie ribelli seguite alle grandi ribellioni che produssero il disastro, i segni puerili della dissoluzione: che aria polverosa, d’altri tempi, di irrimediabile estraneità; realizzati negli anni della nostra infanzia, sono già bisognosi di perenni quanto ardui restauri; l’effimero, artificiosamente custodito oltre il suo giorno, si sbriciola, muore. E si metta a confronto simile paccottiglia ludica, e ormai assai malinconica, con le sculture dell’ellenismo o con la radiosa pittura del gotico senese: nonostante i molti secoli trascorsi, la vitalità dell’arte resiste. Chi invece fa del nuovo assoluto la sua bandiera crolla nel giro di una stagione, e appena passata la moda è dannato al marchio del «démodé». Anche la liturgia della messa uscita dal Vaticano II, volendo cancellare troppe pagine della tradizione, credendo di trovarsi all’incrocio decisivo della storia dell’umanità, finì per risentire terribilmente dell’arte e della cultura anni Sessanta, oggi in via di sparizione. Quei fragili esperimenti pretendevano, nei casi migliori, fare tabula rasa dei linguaggi che avevano reso possibili i grandi massacri, sperando con fede magica che la cancellazione delle parole portasse via anche gli incubi della storia. I corsi e ricorsi culturali potevano correggersi di generazione in generazione – in breve ci si accorse infatti della impossibilità di vivere nell’abrasione del passato e con un idioma inventato, del tutto artificiale –, mentre la messa novecentesca, troppo legata a tali mondani interessi, restò con le stigmate delle assemblee politiche e del teatro cosiddetto dell’assurdo (ossia di un mistero che non trova scioglimento, né parola finale di verità). L’influenza teatrale era evidente, a cominciare dalla scenografia spoglia; l’influenza politica trascinava al centro la plebs Dei, popolo non più genuflesso e orante ma assiso intorno al prete alla maniera delle assemblee operaie, dove alcuni fedeli andavano all’ambone come si sale alla tribuna per pronunciare un intervento. Del resto, ancora oggi, le nuove chiese sono l’ultima traccia dell’architettura industriale in via di sparizione, templi dell’ideologia pauperista quasi mai sfiorati dai vezzi e dai lussi del pur onnipotente post-moderno. La casa di Dio è diventata un fabbricone acromatico, uno spazio dell’angoscia sociale, in stretta continuità con le peggiori brutture del mondo. In quegli edifici che nulla mantenevano dunque della gaudiosa architettura cattolica, elastico divenne il cerimoniale, i silenzi si protraevano a piacere, sopraggiungevano contributi imprevisti dei presenti, canti aggiunti, preghiere inventate ex novo, si moltiplicavano insomma le varianti. Il tempo liturgico, che dovrebbe riflettere quello eterno, si trasformava in un fragile contenitore dove l’attualità poteva entrare a ogni istante con il suo strascico di miserie. Le asimmetrie dei candelieri, della croce, del tabernacolo, riecheggivano le tavole eleganti imbandite dalle dame alla moda in anni sghembi che introducevano la rivoluzione negli ambienti borghesi. Design di gusto adorniano, coltivato in quel Nord Europa già addestrato dalla severità protestante; architettura del Bauhaus che rinnegava l’arte per la comunicazione; rifiuto se non disgusto fisico per le forme mediterranee dove si ebbe la coltura del cattolicesimo («esiste un’affettività antiromana» sostenne Carl Schmitt con buon fiuto). In queste traversie estetiche fu approntata la liturgia del tardo Novecento. C’era però un grosso problema: le «arti» e i linguaggi nuovi sembravano indirizzati da un destino beffardo verso un unico approdo: l’ironia e la parodia. Poteva la cerimonia del divino ricorrere a simili forme espressive?
Con una punta di ingenuità, gli ideatori della nuova messa credettero nella trasparenza delle lingue volgari, come se bastasse ricorrere al «gergo della massaia al mercato», secondo la celebre indicazione del Lutero traduttore biblico, per rendere eloquente la parola divina. Né d’altra parte si vedevano schiere di geniali Lutero forgiare la parola moderna, anzi neanche mezzo luccicò, soltanto dei buoni studiosi che si arrovellavano ad aggiornare – termine fatale – l’arcaico lessico ebraico-aramaico-greco, non prevedendo la rapida usura che sarebbe sopraggiunta quando si fanno parlare i profeti come degli scrittori garbati piuttosto che con la sonorità dei poeti latini. Ma, al di là dei modelli letterari, la facile credenza nella parola trasparente portava alla conclusione che bastasse la traduzione per illuminare i fedeli: doveva essere alla portata di tutti quel succo difficile, che risultava incomprensibile anche ai sommi teologi e filosofi, in modo da ridurre il mistero alle semplificazioni del nostro tempo, al sapere democratico che mastica ogni cosa con noncuranza e guarda con timore e tremore soltanto alla scienza. Tale atteggiamento suscitava l’arguzia di un celeberrimo interprete, maestro nella resa in lingua italiana di alcuni capolavori ebraici e latini, Guido Ceronetti, che si chiedeva quanto la popolana, sempre tirata in ballo in simili controversie, capisse della risposta «e con il tuo spirito» rivolta al celebrante, la formula restando altrettanto ostica, in quanto ricchissima di significato, anche trasposta nel lessico quotidiano. Più in generale, Montaigne riteneva che le lingue moderne fossero troppo languide per trattare temi gravi, noi senza Dante, Montaigne, Lutero, Goethe, senza neppure i loro epigoni ottocenteschi, osammo ricostruire la lingua di Dio avendo nelle orecchie le dissonanti formule del Gruppe 47 o del nostrano Gruppo 63 se non il forzoso periodare e il fumosissimo lessico di saggi e articoli di una triste stagione, forse tra le più magre della storia letteraria europea.
L’uso del latino nei sacri riti non fu cancellato dal Concilio, come spesso viene creduto, si mise mano al novus ordo anzi quando i padri conciliari se ne erano tornati a casa. Procendendo da indicazioni generiche, si accantonò allora il «rito romano antico», per meglio dire lo si tolse proprio di mezzo, lo si proibì come un’eresia, senza sfumature, senza periodi di trapasso, senza il rispetto che il Concilio di Trento ebbe per i riti in vigore «da almeno duecento anni», senza aspettare che le generazioni di vecchi morissero con le formule di sempre. Furono privati delle loro preghiere i cristiani che ebbero la sventura di invecchiare in quel tempo. Erano abituati a distinguere il sacro dal profano, l’altare da tutto il resto, avevano nel cuore la segreta cortina che circonda il sancta sanctorum, la loggia degli angeli, dove accedevano reverenti solo privilegiati fedeli, di sesso maschile, in genere con apposite vesti; abbattute le balaustre, furono costretti a vedervi donne in pantaloni e uomini in magliettina che leggevano i sacri testi. Repressione dei sentimenti più semplici, delle passioni più tenere, educazione forzata, secondo l’uso rivoluzionario, che è l’opposto della carità cristiana, da parte di pretini saccenti. Piccole guerriglie iconoclaste sottrassero quadri di santi ai loro devoti, profanarono amate reliquie, vendettero agli antiquari sacre suppellettili, nascosero le antiche preghiere, sostituite con tante chiacchiere, riverbero della nevrosi assembleare, abolirono il canto gregoriano, la polifonia, il suono degli organi a canne, per strumenti elettronici chiesti in prestito al rock. I più incolti dei contadini avevano biascicato in chiesa il latino, mescolando sonorità, adattando ad sensum, spesso con strafalcioni, sempre rosicchiando le desinenze, proprio come avevano fatto gli antenati quando diedero vita alla lingua volgare. In nomine Domini, Dio parlava loro così, consolava così. I nostri padri e madri furono sepolti con parole corrive, sconsacrate, che sembravano non tenere a bada la morte, le forze dell’Inferno.
Per decenni, anche nell’urbe santa, il rito romano fu «imbavagliato» (Ceronetti). Più recentemente, i suoi fedeli erano costretti a radunarsi in una chiesina sconosciuta ai più, in una viuzza cieca, in una clandestinità da catacombe durante la persecuzione pagana. Ovviamente qui nessuno perseguitava nessuno, ci si limitava allo scherno per i nostalgici, gli ignoranti, i «fascisti» si disse pure. Un tedesco che si era distinto per intelligenza e sapere nel Concilio novecentesco, Joseph Ratzinger, si mostrerà colpito da tanta acrimonia: «Rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia». Già, perché il rito romano non risale al Concilio di Trento, come spesso si fa credere, condannandolo in questo modo al discredito che in certi ambienti clericali ancora avvolge la Controriforma, bensì al cristianesimo delle origini. Gregorio Magno lo codificò, gregoriano perciò dovrebbe esser chiamato prima che tridentino. San Pio V, nello spirito conciliare, con immenso scrupolo, anche filologico, redasse un messale che riordinava una tradizione più che millenaria.
Invano uno stuolo di letterati, artisti, musicisti, filosofi e cineasti chiese al papa di lasciare sopravvivere, magari in qualche tempio marginale, il segno della continuità con la Chiesa del genio cattolico. L’appello era promosso da Cristina Campo e firmato da Wynstan Hugh Auden, José Bergamìn, Robert Bresson, Benjamin Britten, Jorge Luis Borges, Cristina Campo, Pablo Casals, Elena Croce, Fedele D’Amico, Luigi Dallapiccola, Giorgio De Chirico, Tammaro De Marinis, Augusto Del Noce, Salvador De Madariaga, Carl Theodor Dreyer, Francesco Gabrieli, Julien Green, Jorge Guillén, Hélène Kazantzakis, Lanza Del Vasto, Gertrud von Le Fort, Gabriel Marcel, Jacques Maritain, François Mauriac, Eugenio Montale, Victoria Ocampo, Nino Perrotta, Goffredo Petrassi, Ildebrando Pizzetti, Salvatore Quasimodo, Elsa Respighi, Augusto Roncaglia, Wally Toscanini, Philip Toynbee, Evelyn Waugh, Marìa Zambrano, Elèmire Zolla. Quando mai si adunò un numero di tanti eletti personaggi d’ogni continente per una pubblica richiesta?
Un vero paradosso intanto si produceva: veniva riconosciuto il diritto all’esistenza in seno al cattolicesimo del rito ambrosiano, greco, armeno, melkita, copto, maronita, mozarabico (in un viaggio in Spagna, Giovanni Paolo II celebrò nel canone ‘visgotico’ come pure è chiamato) e vari altri, ma per il rito latino non c’era più posto. Tollerante e benigna verso gli arcaismi di tutte le culture, la Chiesa di Roma riservava per sé la modernità assoluta. Nonostante questa ‘clandestinità’ durata alcuni decenni, il rito romano rifulge ancor oggi, classico. A cominciare dalla sua lingua, il latino. Era parlato dai popoli che formavano l’Impero, era il simbolo dell’universalismo, l’esatto contrario del radicamento romantico del linguaggio nel suolo, resta la forma salda che cede meno di altre al corso dei tempi, «corazza d’oro della Chiesa» lo chiamò qualcuno.
Nella Roma rinascimentale, tra Campo de’ Fiori e il Tevere, un eroe della Controriforma, Filippo Neri, accoglieva e ospitava i derelitti nelle case private di suoi generosi amici, poi l’opera pia si trasformò in un immenso ospizio (ospedale, albergo, luogo di conforto) che da allora, per secoli, funzionò da dormitorio e mensa per le immense folle dei giubilei seicenteschi e per i viaggiatori di mezzo mondo che quotidianamente venivano a pregare sulla tomba di Pietro. La attigua chiesa della Trinità dei Pellegrini deve il nome a questa impresa di carità cristiana (nell’ospedale, il giovane Mameli, l’autore dell’inno d’Italia, venuto a combattere il papa tra i volontari della Repubblica romana, fu assistito nella sua agonia). In questa chiesa che si presenta con una facciata tardo-barocca disegnata da Francesco De Sanctis, l’autore della scalinata di Trinità dei Monti, si celebra tutti i giorni, finalmente alla luce del sole, la messa di «rito romano antico», naturalmente in latino. È un dono di Benedetto XVI alla sua diocesi. Lo sguardo profano lo considerà come il confinamento in una ‘riserva indiana’, quello metafisico vi intravede il polmone nascosto della Chiesa.
Ieri la festa d’Ognissanti era celebrata alla Trinità con un pontificale dalla maestosità rubensiana, oggi, nel giorno consacrato alla commemorazione dei defunti, una messa solenne esorcizza i trionfi della morte. I celebranti indossano i paramenti neri, al centro della chiesa, tra sei candelieri con i ceri accesi, si eleva un catafalco sormontato da un simbolico feretro. Il catafalco ormai è sconosciuto ai più. Un tempo, invece, soltanto le bare degli aristocratici, per estremo atto di umiltà dopo una vita sfarzosa, venivano deposte sulla nuda terra. Gli altri cristiani in morte erano innalzati: il corpo umano diventato cadavere saliva su questo barocco apparato, giustappunto un palco secondo una spiegazione etimologica, rivestito di drappi liturgici neri trapuntati d’oro o d’argento, circondato dai ceri. Riconsacrato ancora una volta, a segnare davanti alla comunità che lo accompagnava nell’ultimo viaggio il fatto, incontrovertibile per i cattolici, che mentre comincia il processo di decomposizione della carne si apre anche una glorificazione della medesima carne che troverà in Cielo il suo massimo splendore alla fine dei tempi. Nei funerali post-conciliari, il violetto sostituisce il troppo luttuoso nero, quasi si dovessero smorzare le tinte del dramma, la bara è abbandonata sul pavimento, lasciata sola fisicamente mentre le chiacchiere profane dei parenti e degli amici si mescolano alle parole liturgiche del sacerdote, in un rito che somiglia talvolta a quello civile tanto il sacro si ritira, appena rischiarato dal cero pasquale, in un timido accenno all’immortalità. Non c’è comunque il memento mori che discende da quel palco, il grande spettacolo della morte cristiana che grida il dolore di essere strappati a questo mondo e promette una vita ancor più bella nell’aldilà. Per un simile rituale cattolico, per le messe da requiem in rito romano, composero i massimi musicisti dell’Occidente, da Mozart a Verdi; a quei tempi i luterani provavano la mancanza di un culto che appariva insuperabile per alleviare il dolore umano e, nel tentativo di riecheggiarne i modi, Brahms scrisse Ein deutsche Requiem, un Requiem tedesco.
I gesti, gli inchini dell’antica liturgia: ogni atto conferma una gerarchia, nel rito romano. C’è un imperatore del mondo, dice la Chiesa delle origini, con una metafora certo appartenente a quell’epoca ma compresa o comunque intuita per secoli e a ogni latitudine. È arduo del resto immaginare un Dio presidente della repubblica, una partecipazione democratica della creatura alla volontà dell’Assoluto. La collaborazione di Adamo alla creazione divina, alla creazione della lingua umana (Genesi, 2,18-20), è una bellissima premessa alla nostra storia ma non ha nulla di ‘democratico’, e se proprio un riferimento storico va cercato, si potrebbe parlare di un investimento feudale. Sarà meglio evocare la lotta di Giacobbe, il tentativo di forzare il Creatore, una battaglia d’amore, un drammatico scontro padre e figlio su scala universale, conflitto riproposto da Cristo sulla croce. Un mistico scontro insomma piuttosto di una conta di voti, piuttosto di un’assemblea che dà mandato al suo Dio. Sarà pure un valoroso compito allora, nella confusione del moderno, stabilire una traduzione di quella traditio spesso oscura ai nostri occhi – e negli ultimi due secoli, con sofferenza e ingegno nobili figure del cattolicesimo si impegnarono in tal senso – ma ci deve essere un originale ben saldo e splendente, un testo netto e sempre rintracciabile da cui tradurre, per non esporci ai pericoli di ricollocare nelle origini l’idolatria del senso comune attuale. Inoltre, l’originale deve essere riconosciuto come un testo sacro, non soltanto storico, altrimenti si finisce in una letteraria querelle degli antichi e dei moderni.
C’è un apologo sorto nell’ebraismo chassidico, riportato da numerosi narratori jiddish, che potrebbe fungere da sentenza sulla soglia dell’opera non solo letteraria di Kafka, e che rischiara la parabola discendente della religione nello stentato compromesso con il moderno più devastante: «Quando il Baal-Schem si trovava di fronte a un compito difficile, andava in un certo luogo del bosco, accendeva un fuoco e meditava pregando, e sempre fu eseguito quel che egli aveva deciso. Una generazione dopo, quando il Magghid di Meseritz si trovò di fronte al medesimo compito, andò allo stesso posto del bosco e disse: “Accendere il fuoco noi non possiamo più, ma le preghiere possiamo ancora dirle”, e quel che desiderava divenne realtà. Ancora una generazione più tardi, Rabbi Moshé Leib di Sassov, di fronte a un analogo impegno, andò anche lui nel bosco e disse: “Non siamo più in grado di accendere il fuoco e non conosciamo più le meditazioni segrete che fan parte della preghiera, ma il posto del bosco dove tutto questo avvenne lo conosciamo, e questo dovrebbe bastare”. E infatti bastò. Ma quando un’altra generazione dopo, Rabbi Israel di Richine si trovò di fronte al medesimo dovere, si sedette sulla sua poltrona dorata nel suo castello e disse: “Il fuoco non siamo più in grado di accenderlo, le preghiere non sappiamo più dire e neppure conosciamo più il posto preciso, ma possiamo tuttavia raccontare il fatto come in realtà è avvenuto”…» (versione di Shmuel Yosef Agnon). Della tradizione non resterebbe che il racconto, la letteratura come religione dei nostri giorni, il rito sostituito dalle letture e dalle omelie. Il moderno, è vero, spezza la catena delle generazioni, rovescia la superiorità sapienziale dei vecchi sui giovani, del modello sulla copia, si inorgoglisce della sua potenza che svilisce la forza del passato, che rende incerte le antiche fedi e mette perciò a rischio l’ebraismo riformato come il protestantesimo; la tradizione cattolica, la continuità apostolica, prova a resistergli proprio in virtù del possesso del messale che conserva fedelmente i sacri testi e in virtù della pratica dei sacri riti che al messale del Vetus Ordo Missae si attengono.
Cristina Campo viene in soccorso di questo «Almanacco» per quanto lo riguarda più da vicino, la questione cioè dell’arte oggi, ricollegando il problema estetico con il discorso svolto fin qui: «L’odio moderno per i riti… Il rito per eccellenza questa esperienza di morte-rigenerazione. So di parlare di qualcosa che i più non sanno che cosa sia, che qualcuno appena ricorda, che sopravvive soltanto in pochissimi luoghi sconosciuti. Sono quelli, io credo, i veri modelli, gli archetipi della poesia, che è figlia della liturgia come Dante dimostra da un capo all’altro della Commedia». Infatti, una liturgia informe e un’eclisse dell’arte vanno di pari passo. Bernard Berenson sembrava offrire un appoggio alle parole della scrittrice, pur parlando della scultura tardo-romana: nelle periodiche crisi «l’artista rimane abbandonato a se stesso, senza un modello che gli sia di mèta: intaglia e gratta, spalma e imbratta, per un vago impulso che gli urge da dentro, ma senza ben sapere che cosa vuol fare e dove vuole arrivare. A caso, uno dei meno incapaci, dotato di naturale talento per il proprio mestiere, può produrre qualcosa che appaga la sua vanità. Comunica la propria soddisfazione agli amici letterari: costoro raramente non riescono a convincere colui che esercita un’arte manuale, che i suoi prodotti, scolpiti o dipinti, sono un esempio di meditata, deliberata, metafisicamente fondata, cosmicamente inestimabile – novità» (L’Arco di Costantino o della decadenza della forma, Electa 1951).
Se non vuole finire nel disorientamento tratteggiatto da Berenson, nella parodia del «cosmicamente fondato», l’artista, l’arte, ha bisogno della liturgia e prima ancora della teologia. Andò così fin dalle origini, dalla scultura greca che dalla concezione della divinità derivava la bellezza umana: l’unica forma dignitosa per gli dèi era quella umana, e la perfezione si impadroniva allora dell’antropomorfismo divino come del teomorfismo umano. Per la pittura medioevale, rinascimentale e barocca, è ancora più evidente che nella Commedia di Dante la dipendenza dalla liturgia.
Estraneo alla cultura greca, il danese Kierkegaard si sdegnava per la ricerca di una immagine di Dio, dovendo l’Assoluto restare soltanto un mistero. Questa però è la cupa religiosità luterana, il cattolicesimo sottolinea invece l’incarnazione, la ostensione di Dio, di cui l’arte vuole essere l’eco. Iconofilia è anche credere al volto visibile del Mistero. I piccoli Kierkegaard senza tormento del nostro tempo criticheranno come idolatrica l’antica liturgia, ripeteranno l’accusa di estetismo. Certo, si dovrebbe replicare, la liturgia si svolge in forme umane, esteriori, non è un delirio né una visione interiore, può essere accompagnata dal «Kitsch linguistico, musicale, pittorico…» di cui parla Martin Mosebach nel suo L’eresia dell’informe (edito in italiano da Cantagalli di Siena) – titolo che allude alle commistioni con i veleni estetici di oggi –, oppure essere sorretta dall’arte contrappuntistica di Palestrina e discepoli che mette in musica la parola divina. E si può avere come in questa chiesa romana, quale vigoroso sussidio per la vista, la pala d’altare di Guido Reni (del soave Guido, come fu sempre chiamato dai contemporanei pure abituati ai toni sublimi) o un inguacchio di un tardo transavanguardista, commissionato o meglio subìto in quel di San Giovanni Rotondo da frati incolti che orecchiano la voga.
È dunque la bellezza cattolica a fare scandalo tra i negatori della immagine fisica di Dio. La qualità della preghiera, del rito, che non cede alla credenza diffusa secondo cui l’espressività informe sarebbe più adatta all’incontro con il divino. La domenica, nella chiesa della Trinità, si può constatare la potenza nell’universo sacro dell’arte visiva e dell’arte musicale rigorosissimamente strutturate. Il cerimoniale rigido, che prevede genuflessioni e inchini, gesti e precedenze, ha la stessa disciplina ed esattezza di un’opera d’arte, disegna una forma che si fa speculare della corte celeste. Al momento in cui il Simbolo costantinopolitano, cantato polifonicamente, professa coralmente la fede nel visibilium et invisibilium, lo sguardo corre per l’abside, alla ricerca delle cose visibili che rinviano a quelle invisibili, ai segni che qui sono pitture come la Trinità di Guido Reni, la Trinità raffigurata nelle fattezze umane. Moltissime chiese romane, potrebbero esser definite «il santuario della bellezza del corpo umano», come dice George Weigl della Sistina. Questo è il sentire cattolico.
Credo, scandisce il coro, in «unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam» davvero fatta carne, in continuità fisica con gli apostoli attraverso la catena di papi, vescovi e sacerdoti che si snoda nei secoli. La promessa divina ad Abramo si svolge nel tempo mediante la continuità di sangue, la stirpe ebraica; quella cristiana va oltre la filiazione di sangue ma ricorre ugualmente a un contatto fisico, il battesimo, la consacrazione sacerdotale degli eredi di quel drappello apostolico con l’imposizione delle mani, con l’unzione.
«Et exspecto resurrectionem mortuorum» si canta con la massima solennità. Aspettano tutti la «vitam venturi sæculi», e nella speranza la cerimonia si illumina di Paradiso. Amen.
2 commenti:
A proposito di "aggiornamenti linguistici", mi piacerebbe conoscwere il Suo giudizio sulla nuova traduzione del Nuovo Testamento.
Grazie, e grazie soprattutto per la profondità e la ricchezza dei suoi interventi.
Massimo
Non è facile, caro Massimo, un giudizio sintetico su un simile lavoro. Sarei contento se qualche lettore dell'Almanacco aprisse la discussione con un intervento meditato.
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