~ PICCOLA ANTOLOGIA DI GIUDIZI SGHEMBI SUL MAESTRO LOMBARDO IN MOSTRA A ROMA NELLE SCUDERIE DEL QUIRINALE ~
I luoghi comuni che inebriano in particolare il giornale «La Repubblica», dove si legge ancora dei «contadini dai piedi sporchi mai prima entrati in una scena sacra», resistono a ogni domanda di buonsenso: i quattrocenteschi, pur così sobri, non dipinsero forse degli straccioni, miserabili di vario genere, vicino alla divinità più splendente? Basti pensare alle scene della Natività, anche in epoche precedenti, con i pastori accostati al Puer Deus. Indimenticabile l’affresco nella chiesa di S. Maria Maggiore a Spello dove Pinturicchio mette in scena contadini e pastori, irsuti e selvaggi, contrapposti anche fisicamente ai nobili sullo sfondo, rappresentazione antropologicamente magistrale delle differenze gerarchiche ben incise nei corpi. Fosse questa sociologica nota la meraviglia di Caravaggio! Sempre il medesimo giornale erudisce i suoi devoti lettori narrando del Merisi che avrebbe sperperato un patrimonio «con le donne e con le taverne», seguendo l’aneddotica dozzinale. Ma anche sulle gazzette dell’altra parte politica non si scherza. Scandalizzato dalle interpretazioni che vedono riflessa nella pittura caravaggesca la cultura controriformista, il neopagano libertino destrorso protesta: ma come, anche il Bacchino, così sensuale, è adesso una prefigurazione o un’eco di Gesù! Costui non sembra aver tratto alcun insegnamento dalla pittura italiana, dove eros e vangelo, eros e agape, vanno a braccetto. Peggio per chi vuole separarli a tutti i costi, ossessionandosi in purezze gnostiche e perversioni d’accatto (ovvero, proprio come hanno ridotto l’arte negli ultimi tempi).
Longhi parlava di «sfortuna» critica del pittore, dalla quale proprio lui lo avrebbe liberato dopo secoli di silenzio, e rammentava stizzito le omissioni, a suo parere, degli storici e dei critici, perfino dei colti viaggiatori in Italia, salvo naturalmente lodevoli eccezioni, talché al momento delle spoliazioni repubblicane e napoleoniche i rivoluzionari provarono a rubare dai nostri palazzi e chiese opere d’ogni epoca e d’ogni livello ma nessuno sembrava pensare a portarsi a Parigi un Caravaggio. Così diceva il fine storico dell’arte, fingendo di dimenticare il furto francese della Sepoltura di Cristo che fu un modello per J.-L. David (è inquietante che anche la Sepoltura di Raffaello fosse trasportata oltralpe come preda del vincitore ‘laico’: sarà un caso, ma negli anni violentissimi che dovevano cambiare i connotati alla civiltà occidentale, mettere in mostra senza alcuna pietas la morte di Gesù straordinariamente rappresentata poteva suonare come un’anticipazione del lugubre annuncio di Nietzsche sulla «morte di Dio»). Questo ‘complotto del silenzio’, dal punto di vista longhiano, era rotto qua e là da non poche menzioni di Michelangelo Merisi, soprattutto biografiche, onde riecheggiare la leggenda nera che lo vide irruente sulla scena romana pre-barocca. Converrebbe domandarsi piuttosto se le proporzioni non siano saltate del tutto nel nostro tempo, tentando disperatamente di considerare moderno l’artista della remota fine del XVI secolo, compagno d’epoca di Torquato Tasso e di Pierluigi da Palestrina. E così trattandolo, farne una bandiera addirittura modernista.
Del resto è comprensibile il fascino del realismo nell’epoca delle astrazioni, delle larve, degli spiritualismi adolescenziali, della paura della fisicità, del suo nascondimento, del tabù. Per legge del contrappasso, il peccato di cerebralismo viene scontato con il gusto romantico, con l’amore per il noir, il delitto, ecc. Il povero Caravaggio si trova nell’imbarazzante posizione del banditore dell’accoppiata pittoresca arte & delitto, di colui che è caro al pubblico imbelle del Terzo millennio anche per il congetturato accoppamento di un amico, asceso in tal modo nell’empireo dei cosiddetti trasgressori. Per facilitarne la ricezione ci si inventa un Seicento tutto dominato dal Lombardo, come piacque pensare nella metà del secolo scorso a un pugno di storici e critici, mettendo tra parentesi le parole chiare dei contemporanei, che sì, sono assai polemiche, segno evidente quindi di una irritante notorietà del Nostro, ma a quei tempi non era sufficiente la disputa con l’alone scandaloso a decretare un ruolo di primissimo piano, come talvolta si equivoca, confondendo alla maniera attuale tra chiasso, fama e ammirazione. A cominciare dal suo principale nemico, il Bellori, nessuno nega la discussione che si accese a Roma, ma ai più erano chiari anche alcuni limiti del giovane artista: «Molti nondimeno, invaghiti della sua maniera, l’abbracciavano volentieri, poiché senz’altro studio e fatica si facilitavano la via al copiar il naturale, seguitando li corpi vulgari e senza bellezza. Così sottoposta da Caravaggio la maestà dell’arte, ciascuno si prese licenza, e ne seguì il dispregio delle cose belle (…). All’hora cominciò l’imitazione delle cose vili, ricercandosi le sozzure e le deformità, come sogliono fare alcuni ansiosamente…» (Vite de’ pittori).
Se i romantici tedeschi fossero incappati nei suoi quadri, semmai se ne fossero accorti frequentando in tanti le chiese romane, come avrebbero risolto bene i loro problemi teorici! Ci pensarono invece i novecenteschi a celebrare la sua arte, scossi da quelle parole critiche belloriane: arte «senza bellezza», in cui appunto «ciascuno si prese licenza», con il conseguente «dispregio delle cose belle». È il motivo per cui Caravaggio attrae tutta la volgarità odierna (spettatori, critici, letterati che ne narrano beati la dissoluzione delle forme, e naturalmente tutti coloro che «senz’altro studio e fatica» arrivano direttamente alle installazioni, dimentichi del talento straordinario del loro delittuoso modello, dimentichi altresì dell’amore per la fisicità riconsacrata, che manca completamente ai suoi imitatori).
Longhi, da parte sua, in sintonia con il proprio schieramento ideologico, con un materialismo diciamo un po’ Ottocento, tendeva a dipingere un Caravaggio che toglieva l’aura del mito agli dèi pagani e il sacro alle figure cristiane, cosicché ne usciva fuori un prosatore assai greve – all’opposto del forbito incensatore – , prevalentemente un populista che s’inginocchiava soltanto davanti ai poveretti avvolti negli stracci, come nemmeno il Bellori avrebbe mai osato calunniarlo.
Fosse pure un assassino, resta pittore di temi sacri quant’altri mai, un artista che per «sprezzatura» àgita anche gesti insolenti e lessico plebeo di quando in quando pur di indagare il mistero del cristianesimo, del Dio che si fa uomo. Che ogni tanto tolga l’aureola in capo ai santi personaggi, come il suo esegeta novecentesco annotava con puntiglio, conta assai poco. C’è indubbiamente del puritanesimo lombardo in tutto ciò. E c’è un inquietante problema cui accennava Cristina Campo in poche righe incisive parlando d’altro ma riferendosi al tema complicato della Controriforma: «Secondo la critica recente (che il Barone Pastor aveva di molto preceduto) il segreto dell’arte della Controriforma fu un ritorno occulto alle insondabili cosmologie religiose del Medioevo, quali le aveva codificate l’opera maestosa di Durando di Mende. Lo strepitoso salto in alto, di salmone controcorrente, il passaggio realmente metafisico, da quantità a qualità che arrestò per un secolo la dirotta precipitazione del naturalismo rinascimentale, nacque dalla determinazione di orientare le forme del proprio tempo su sostanze simboliche che infinitamente le trascendevano. […] Lo stesso sfarzo capovolse di netto il proprio significato, di vagheggiamento e dominazione terrestre, in contemplazione delle vanità, ebbra offerta di cose destinate a perire» (Introduzione alle Poesie amorose di John Donne). Come la mettiamo allora con il naturalismo asceso a nuova luce (tecnica di illuminazione sarebbe meglio dire) e al contempo con quella contemplazione della vanità, preannuncio di morte (si pensi ai Bacchini più o meno malati) che in Caravaggio si presentano senza ancora quello sfarzo barocco, anzi con il pauperismo ostentato dei seguaci del cardinal Borromeo (che non a caso trovò un apologeta moderno nel ‘giansenista’, per niente barocco, Alessandro Manzoni)?
Ma qui non si pretendeva dire in due parole della pittura di un grande bensì introdurre una piccolissima antologia di giudizi sghembi nel corso dei secoli su un artista che scontato davvero non fu, nonostante gli sforzi dei nostri contemporanei per farne un compare dei tanti bari dell’arte odierna.
Quattro o cinque puntate senza alcuna pretesa di organicità. Appena degli spunti per riflettere sulle molte cose che si dicono in quest’anno che vede celebrare il quarto centenario della morte del pittore.
I voti
Per questa prima puntata si ricorre al pittore e critico Roger de Piles (1635-1709) che nella sua Balance des Peintres les plus connus dava i voti – «per divertirmi», scriveva – ai maggiori pittori della storia dell’arte, ammettendo la soggettività di simili giudizi, ma riflettendo come sempre succede in questi casi anche un gusto dell’epoca. Ebbene, ecco Caravaggio nell’elenco dei pittori notevoli, ma con una pagella assai particolare.
Da La Balance des Peintres di Roger de Piles, in Oeuvres Diverses de M. de Piles - Tome Second, Amsterdam 1767:
I princìpi
Ho diviso il mio voto in venti punti, il ventesimo è il più alto e l’attribuisco alla divina perfezione che noi non conosciamo in tutta la sua estensione. Il diciannove è il voto per il più alto grado di perfezione che conosciamo, al quale nessuno pertanto è ancora giunto. Il diciotto è per coloro che a nostro giudizio si sono più avvicinati alla perfezione. […] La composizione è il risultato di due aspetti: l’invenzione e la disposizione.
La bilancia
Composizione Disegno Colori Espressione
Andrea del Sarto 12 16 9 8
Federico Barocci 14 15 6 10
Jacopo Bassano 6 8 17 0
Giovanni Bellini 4 6 14 0
Sebastian Bourdon 10 8 8 4
Charles Le Brun 16 16 8 16
I Carracci 15 17 13 13
Cavalier d'Arpino 10 10 6 2
Correggio 13 13 15 12
Daniele da Volterra 12 15 5 8
A. van Diepenbeeck 11 10 14 6
Domenichino 15 17 9 17
Albrecht Dürer 8 10 10 8
Giorgione 8 9 18 4
Giov. da Udine 10 8 16 3
Giulio Romano 15 16 4 14
Guercino 18 10 10 4
Guido Reni n.c. 13 9 12
Holbein 9 10 16 3
J. Jordaens 10 8 16 6
Lucas Jordaens 13 12 9 6
Giovanni Lanfranco 14 13 10 5
Leonardo da Vinci 15 16 4 14
Lucas van Leyden 8 6 6 4
Michelangelo 8 17 4 8
M. da Caravaggio 6 6 16 0
Murillo 6 8 15 4
Otho Venius 13 14 10 10
Palma il Vecchio 5 6 16 0
Palma il Giovane 12 9 14 6
Parmigianino 10 15 6 6
G. Penni 0 15 8 0
Perin del Vaga 15 16 7 6
Sebastiano del Piombo 8 13 16 7
Primaticcio 15 14 7 10
Raffaello 17 18 12 18
Rembrandt 15 6 17 12
Rubens 18 13 17 17
F. Salviati 13 15 8 8
E. Le Sueur 15 15 4 15
Teniers 15 12 13 6
Pietro Testa 11 15 0 6
Tintoretto 15 14 16 4
Tiziano 12 15 18 6
Van Dyck 15 10 17 13
Vanius 15 15 12 13
Veronese 15 10 16 3
Taddeo Zuccari 13 14 10 9
Federico Zuccari 10 10 8 8
I luoghi comuni che inebriano in particolare il giornale «La Repubblica», dove si legge ancora dei «contadini dai piedi sporchi mai prima entrati in una scena sacra», resistono a ogni domanda di buonsenso: i quattrocenteschi, pur così sobri, non dipinsero forse degli straccioni, miserabili di vario genere, vicino alla divinità più splendente? Basti pensare alle scene della Natività, anche in epoche precedenti, con i pastori accostati al Puer Deus. Indimenticabile l’affresco nella chiesa di S. Maria Maggiore a Spello dove Pinturicchio mette in scena contadini e pastori, irsuti e selvaggi, contrapposti anche fisicamente ai nobili sullo sfondo, rappresentazione antropologicamente magistrale delle differenze gerarchiche ben incise nei corpi. Fosse questa sociologica nota la meraviglia di Caravaggio! Sempre il medesimo giornale erudisce i suoi devoti lettori narrando del Merisi che avrebbe sperperato un patrimonio «con le donne e con le taverne», seguendo l’aneddotica dozzinale. Ma anche sulle gazzette dell’altra parte politica non si scherza. Scandalizzato dalle interpretazioni che vedono riflessa nella pittura caravaggesca la cultura controriformista, il neopagano libertino destrorso protesta: ma come, anche il Bacchino, così sensuale, è adesso una prefigurazione o un’eco di Gesù! Costui non sembra aver tratto alcun insegnamento dalla pittura italiana, dove eros e vangelo, eros e agape, vanno a braccetto. Peggio per chi vuole separarli a tutti i costi, ossessionandosi in purezze gnostiche e perversioni d’accatto (ovvero, proprio come hanno ridotto l’arte negli ultimi tempi).
Longhi parlava di «sfortuna» critica del pittore, dalla quale proprio lui lo avrebbe liberato dopo secoli di silenzio, e rammentava stizzito le omissioni, a suo parere, degli storici e dei critici, perfino dei colti viaggiatori in Italia, salvo naturalmente lodevoli eccezioni, talché al momento delle spoliazioni repubblicane e napoleoniche i rivoluzionari provarono a rubare dai nostri palazzi e chiese opere d’ogni epoca e d’ogni livello ma nessuno sembrava pensare a portarsi a Parigi un Caravaggio. Così diceva il fine storico dell’arte, fingendo di dimenticare il furto francese della Sepoltura di Cristo che fu un modello per J.-L. David (è inquietante che anche la Sepoltura di Raffaello fosse trasportata oltralpe come preda del vincitore ‘laico’: sarà un caso, ma negli anni violentissimi che dovevano cambiare i connotati alla civiltà occidentale, mettere in mostra senza alcuna pietas la morte di Gesù straordinariamente rappresentata poteva suonare come un’anticipazione del lugubre annuncio di Nietzsche sulla «morte di Dio»). Questo ‘complotto del silenzio’, dal punto di vista longhiano, era rotto qua e là da non poche menzioni di Michelangelo Merisi, soprattutto biografiche, onde riecheggiare la leggenda nera che lo vide irruente sulla scena romana pre-barocca. Converrebbe domandarsi piuttosto se le proporzioni non siano saltate del tutto nel nostro tempo, tentando disperatamente di considerare moderno l’artista della remota fine del XVI secolo, compagno d’epoca di Torquato Tasso e di Pierluigi da Palestrina. E così trattandolo, farne una bandiera addirittura modernista.
Del resto è comprensibile il fascino del realismo nell’epoca delle astrazioni, delle larve, degli spiritualismi adolescenziali, della paura della fisicità, del suo nascondimento, del tabù. Per legge del contrappasso, il peccato di cerebralismo viene scontato con il gusto romantico, con l’amore per il noir, il delitto, ecc. Il povero Caravaggio si trova nell’imbarazzante posizione del banditore dell’accoppiata pittoresca arte & delitto, di colui che è caro al pubblico imbelle del Terzo millennio anche per il congetturato accoppamento di un amico, asceso in tal modo nell’empireo dei cosiddetti trasgressori. Per facilitarne la ricezione ci si inventa un Seicento tutto dominato dal Lombardo, come piacque pensare nella metà del secolo scorso a un pugno di storici e critici, mettendo tra parentesi le parole chiare dei contemporanei, che sì, sono assai polemiche, segno evidente quindi di una irritante notorietà del Nostro, ma a quei tempi non era sufficiente la disputa con l’alone scandaloso a decretare un ruolo di primissimo piano, come talvolta si equivoca, confondendo alla maniera attuale tra chiasso, fama e ammirazione. A cominciare dal suo principale nemico, il Bellori, nessuno nega la discussione che si accese a Roma, ma ai più erano chiari anche alcuni limiti del giovane artista: «Molti nondimeno, invaghiti della sua maniera, l’abbracciavano volentieri, poiché senz’altro studio e fatica si facilitavano la via al copiar il naturale, seguitando li corpi vulgari e senza bellezza. Così sottoposta da Caravaggio la maestà dell’arte, ciascuno si prese licenza, e ne seguì il dispregio delle cose belle (…). All’hora cominciò l’imitazione delle cose vili, ricercandosi le sozzure e le deformità, come sogliono fare alcuni ansiosamente…» (Vite de’ pittori).
Se i romantici tedeschi fossero incappati nei suoi quadri, semmai se ne fossero accorti frequentando in tanti le chiese romane, come avrebbero risolto bene i loro problemi teorici! Ci pensarono invece i novecenteschi a celebrare la sua arte, scossi da quelle parole critiche belloriane: arte «senza bellezza», in cui appunto «ciascuno si prese licenza», con il conseguente «dispregio delle cose belle». È il motivo per cui Caravaggio attrae tutta la volgarità odierna (spettatori, critici, letterati che ne narrano beati la dissoluzione delle forme, e naturalmente tutti coloro che «senz’altro studio e fatica» arrivano direttamente alle installazioni, dimentichi del talento straordinario del loro delittuoso modello, dimentichi altresì dell’amore per la fisicità riconsacrata, che manca completamente ai suoi imitatori).
Longhi, da parte sua, in sintonia con il proprio schieramento ideologico, con un materialismo diciamo un po’ Ottocento, tendeva a dipingere un Caravaggio che toglieva l’aura del mito agli dèi pagani e il sacro alle figure cristiane, cosicché ne usciva fuori un prosatore assai greve – all’opposto del forbito incensatore – , prevalentemente un populista che s’inginocchiava soltanto davanti ai poveretti avvolti negli stracci, come nemmeno il Bellori avrebbe mai osato calunniarlo.
Fosse pure un assassino, resta pittore di temi sacri quant’altri mai, un artista che per «sprezzatura» àgita anche gesti insolenti e lessico plebeo di quando in quando pur di indagare il mistero del cristianesimo, del Dio che si fa uomo. Che ogni tanto tolga l’aureola in capo ai santi personaggi, come il suo esegeta novecentesco annotava con puntiglio, conta assai poco. C’è indubbiamente del puritanesimo lombardo in tutto ciò. E c’è un inquietante problema cui accennava Cristina Campo in poche righe incisive parlando d’altro ma riferendosi al tema complicato della Controriforma: «Secondo la critica recente (che il Barone Pastor aveva di molto preceduto) il segreto dell’arte della Controriforma fu un ritorno occulto alle insondabili cosmologie religiose del Medioevo, quali le aveva codificate l’opera maestosa di Durando di Mende. Lo strepitoso salto in alto, di salmone controcorrente, il passaggio realmente metafisico, da quantità a qualità che arrestò per un secolo la dirotta precipitazione del naturalismo rinascimentale, nacque dalla determinazione di orientare le forme del proprio tempo su sostanze simboliche che infinitamente le trascendevano. […] Lo stesso sfarzo capovolse di netto il proprio significato, di vagheggiamento e dominazione terrestre, in contemplazione delle vanità, ebbra offerta di cose destinate a perire» (Introduzione alle Poesie amorose di John Donne). Come la mettiamo allora con il naturalismo asceso a nuova luce (tecnica di illuminazione sarebbe meglio dire) e al contempo con quella contemplazione della vanità, preannuncio di morte (si pensi ai Bacchini più o meno malati) che in Caravaggio si presentano senza ancora quello sfarzo barocco, anzi con il pauperismo ostentato dei seguaci del cardinal Borromeo (che non a caso trovò un apologeta moderno nel ‘giansenista’, per niente barocco, Alessandro Manzoni)?
Ma qui non si pretendeva dire in due parole della pittura di un grande bensì introdurre una piccolissima antologia di giudizi sghembi nel corso dei secoli su un artista che scontato davvero non fu, nonostante gli sforzi dei nostri contemporanei per farne un compare dei tanti bari dell’arte odierna.
Quattro o cinque puntate senza alcuna pretesa di organicità. Appena degli spunti per riflettere sulle molte cose che si dicono in quest’anno che vede celebrare il quarto centenario della morte del pittore.
I voti
Per questa prima puntata si ricorre al pittore e critico Roger de Piles (1635-1709) che nella sua Balance des Peintres les plus connus dava i voti – «per divertirmi», scriveva – ai maggiori pittori della storia dell’arte, ammettendo la soggettività di simili giudizi, ma riflettendo come sempre succede in questi casi anche un gusto dell’epoca. Ebbene, ecco Caravaggio nell’elenco dei pittori notevoli, ma con una pagella assai particolare.
Da La Balance des Peintres di Roger de Piles, in Oeuvres Diverses de M. de Piles - Tome Second, Amsterdam 1767:
I princìpi
Ho diviso il mio voto in venti punti, il ventesimo è il più alto e l’attribuisco alla divina perfezione che noi non conosciamo in tutta la sua estensione. Il diciannove è il voto per il più alto grado di perfezione che conosciamo, al quale nessuno pertanto è ancora giunto. Il diciotto è per coloro che a nostro giudizio si sono più avvicinati alla perfezione. […] La composizione è il risultato di due aspetti: l’invenzione e la disposizione.
La bilancia
Composizione Disegno Colori Espressione
Andrea del Sarto 12 16 9 8
Federico Barocci 14 15 6 10
Jacopo Bassano 6 8 17 0
Giovanni Bellini 4 6 14 0
Sebastian Bourdon 10 8 8 4
Charles Le Brun 16 16 8 16
I Carracci 15 17 13 13
Cavalier d'Arpino 10 10 6 2
Correggio 13 13 15 12
Daniele da Volterra 12 15 5 8
A. van Diepenbeeck 11 10 14 6
Domenichino 15 17 9 17
Albrecht Dürer 8 10 10 8
Giorgione 8 9 18 4
Giov. da Udine 10 8 16 3
Giulio Romano 15 16 4 14
Guercino 18 10 10 4
Guido Reni n.c. 13 9 12
Holbein 9 10 16 3
J. Jordaens 10 8 16 6
Lucas Jordaens 13 12 9 6
Giovanni Lanfranco 14 13 10 5
Leonardo da Vinci 15 16 4 14
Lucas van Leyden 8 6 6 4
Michelangelo 8 17 4 8
M. da Caravaggio 6 6 16 0
Murillo 6 8 15 4
Otho Venius 13 14 10 10
Palma il Vecchio 5 6 16 0
Palma il Giovane 12 9 14 6
Parmigianino 10 15 6 6
G. Penni 0 15 8 0
Perin del Vaga 15 16 7 6
Sebastiano del Piombo 8 13 16 7
Primaticcio 15 14 7 10
Raffaello 17 18 12 18
Rembrandt 15 6 17 12
Rubens 18 13 17 17
F. Salviati 13 15 8 8
E. Le Sueur 15 15 4 15
Teniers 15 12 13 6
Pietro Testa 11 15 0 6
Tintoretto 15 14 16 4
Tiziano 12 15 18 6
Van Dyck 15 10 17 13
Vanius 15 15 12 13
Veronese 15 10 16 3
Taddeo Zuccari 13 14 10 9
Federico Zuccari 10 10 8 8
(I. Continua)
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