~ LA FISCELLA AMBROSIANA: REALISMO ITALICO O IMMAGINE DELLA VANITAS? ~ DA SPENGLER A MATTEO MARANGONI, RIFLESSIONI SULLA RIFLESSIONE PITTORICA DEL MONDO ~
Capitàti casualmente durante la sistemazione delle tele caravaggesche alle Scuderie, senza ancora le luci sempre abbaglianti delle mostre, la prima impressione era di una immensa sagrestia di altri tempi, quelle che ci fu concesso di vedere per l’ultima volta nei Cinquanta, riempite di quadri oscuri, «Silentium» il motto a caratteri cubitali e gravi, luoghi impenetrabili ancor più di romite chiese alla modernità; o di corridoi in antichi conventi dove aleggiava una certa aria omofila, da universo celibatario: mai nudità femminili, comunque, soltanto temi sacri, biblici o liturgici, anni luce distanti dal paganesimo sottile del primo Rinascimento. Angeli casomai che giocano sull’ambiguità dei personaggi celesti – irriducibili alle umane categorie del maschile, femminile – e dei ragazzi del popolo che li interpretano in modo svagato nelle rappresentazioni da oratorio.
Giulio Mancini, il biografo seicentesco, insisteva sul fatto che il Caravaggio sulle sue tele riportava piuttosto la propria «immaginazione» che l’«osservazione della cosa». Neppure lui ‘realistico’ nonostante l’enfasi posta dai suoi storici e critici sulla somiglianza con la cosa raffigurata? Karel Van Mander, fiammingo coetaneo del pittore, attribuiva al Nostro questa dichiarazione: «La sua massima è che, se ciò che è stato dipinto e raffigurato non è tratto dal vero, non potrebbe essere altro che puerilità e bagatella». Magari voleva significare soltanto il rifiuto del capriccio e dell’ornamentale. Disdegno dell’art pour l’art diremmo oggi.
Di un particolare, millenario, realismo latino si parlava quando ancora le ‘scuole nazionali’ erano tenute in gran conto, di una vocazione che si affermava nella Roma imperiale come nel Cinquecento fiorentino. Qualcuno aggiungerebbe: nel cinema del dopoguerra e perfino nei racconti televisivi d’oggi, al punto che se gli anglosassoni astraggono molto onde narrare la vita dal punto di vista soltanto ‘poliziesco’ o nella solitudine estrema dell’investigatore, per antica tradizione l’italica cultura mostrerà sempre punti di vista che si intrecciano, famiglie numerose che fanno da contorno, affreschi tumultuosi, commistioni di comico e drammatico, innumerevoli sfaccettature del mondo. Soprattutto nell’arte italiana resiste l’idea che per rappresentare la bellezza non è necessario allontanarsi dal quotidiano e sprofondare nell’interiorità più sublime, basta saperla vedere proprio in quello che ci sta sotto gli occhi.
Interromperebbe comunque il Caravaggio la lunga serie di chi prende a modello altre pitture e a maestro altri pittori, in una sequenza interminabile di citazione e di rimandi che costituì il Manierismo. Ora non si capisce perché i teorici moderni e soprattutto postmoderni del citazionismo, nonché adoratori delle più intricate ‘maniere’, e non soltanto in pittura, esaltino poi la via presunta realistica di Michelangelo Merisi. Ma questo è un discorso secondario.
Spiegava tuttavia Gian Lorenzo Mellini tale contraddizione che investe la pittura caravaggesca e fa del suo autore un personaggio chiave: «Per Longhi Caravaggio, come per De Sanctis il blocco Alfieri-Parini-Foscolo (e soprattutto Manzoni, per via del sermo humilis), aveva una funzione catartica rispetto al buco nero del Manierismo e del Barocco, riflesso della medesima damnatio desanctisiana e poi crociana, della Riforma cattolica». In questo contesto Matteo Marangoni, che nel primo ventennio del secolo celebrava il Barocco in compagnia di pochissimi altri (soprattutto tedeschi della Scuola di Vienna e in Italia i bravi praticoni Giulio Magni e Armando Brasini, nonché il fugace Stanislao Franchetti), risultava una figura singolare, un maestro fuori degli schieramenti, che firmava libri preziosi dai titoli dimessi e scolastici quali Saper vedere e Come si guarda un quadro, per la generazione successiva degli storici dell’arte un mito che solo l’affermazione militante di Longhi riuscirà a scalzare dal podio. Da parte sua Marangoni si limitava a una bonaria impertinenza nei confronti del giovane antagonista còlto nell’immobile stupore vagamente bamboleggiante con il quale s’accostava ai più intricati nodi della sua disciplina, mancandogli la fluidità della mano di Degas, somigliando casomai all’artificioso Renoir – egli diceva secondo paragoni di moda a quel tempo. A Longhi comunque riusciva un’operazione singolare, baciata dal successo ancora ai giorni nostri, che Mellini riassume in tutti i suoi esiti: «Ma, insieme col Barocco, si affossava il Classicismo, l’Arcadia fino al Rococò, il Neoclassicismo e oltre, al fine di esaltare il cosiddetto Naturalismo, che poi era un pancaravaggìsmo a corso forzato che sarebbe sfociato in quello ottocentesco francese, massime – chissà perché – l’Impressionismo». Ideologia del secondo dopoguerra, diciamo pure la più elevata. Già nel fuoco della Prima guerra mondiale Spengler licenziava il suo Tramonto dell’Occidente parlando degli impressionismi che sostituivano i vecchi naturalismi, meglio, di cui erano la traduzione moderna: «imitazione degli stimoli dell’apparenza, dei fatti scientificamente accertabili nelle loro caratteristiche sensibili. […] Non si vuole ‘illudere’ ma evocare. L’Io sopraffà il ‘tu’». Nel medesimo anno 1917 Marangoni scriveva sulla «Rivista d’arte» il saggio sui pittori trascurati del Seicento.
Realismo, naturalismo, addirittura illusionismo. Il dibattito si complicava all’inizio del Novecento per via di quel fotografismo sul quale l’epoca si interrogava inquieta. Quale trompe-l’oeil poteva gareggiare con il risultato dello scatto meccanico? E non si era del resto tentato per circa un secolo di allontanarsi dalla minuziosa riproduzione, lasciando generosamente alla fotografia il gioco di duplicare il reale, ritenendo anzi che liberandosi da tale servigio la pittura potesse aspirare a più alti cieli? Si discusse allora nei cenacoli ristrettissimi degli storici dell’arte intorno a una vera e propria scoperta: il Cestino dell’Ambrosiana, sepolto dall’indifferenza per sì piccolo e scherzoso esercizio. Trattàvasi di natura morta, con il gusto lugubre che già il nome adombrava, un po’ come i fiori recisi da cui Mario Praz nella raccolta Fiori freschi fece risuonare tutta le declinazioni del cadaverico, tanfo compreso. Importazione dal mondo fiammingo? Certo, anche i nostri pittori sapevano rifinire frutti e fiori, ma li avevano collocati fino a quel tempo dentro scene più ampie, affollate di umani e delle loro storie. Si veda appunto la frutta dipinta sul tavolo della Cena di Emmaus come è simile alla Fiscella o al canestro che il Caravaggio collocò nelle mani di uno dei suoi Bacchi adolescenti. Oppure ci si ricordi della Venere e Satiro di Annibale Carracci, datato negli anni della cesta ambrosiana, dove l’animalesco personaggio agita una coppa con uva che, opportunamente isolata, sarebbe una perfetta ‘natura morta’, ma evidentemente il Bolognese non se la sentiva ancora di liberarsi dal racconto, ne faceva piuttosto un delicato elemento della fiaba. Così come si ebbe la fortuna di vedere in una mostra viennese di Dürer delle tavolette del maestro tedesco nel cui retro erano dipinte delle composizioni astratte, ben più geniali di quelle dei seguaci del Blaue Reiter, che restavano però fatto privatissimo, esperimento da tenere nascosto, essendo la missione del pittore quella di narrare storie attraverso le immagini, anzi secondo i precetti della Riforma tridentina «letteratura per illetterati». La questione era se e perché focalizzare questi oggetti e dedicar loro un quadro, una cornice. Come insomma potessero essere un’opera.
La modestia del quadretto ambrosiano, l’umiltà ostentata, la mancanza di splendore – forse a confronto con le opere coeve dei Fiamminghi – attribuita da Berenson al deperimento dei colori, la rinuncia alla prospettiva elaborata (per cui ancora Berenson parlava di «pittura cinese») erano d’altronde i motivi che lo faranno apprezzare tanto dai novecenteschi, segno primigenio della fine dell’arte magniloquente, riscoperto negli anni in cui si affermavano le piccole tele di Morandi, il trionfo di nature morte stortine. Ma siccome il Caravaggio nulla poteva sapere del masochismo culturale dei moderni, del loro culto della caducità senza redenzione cristiana, è certo che non a essi era rivolta la sua spenta e mesta natura morta, quanto ai suoi contemporanei cui doveva risuonare come una predica: immagine della Vanitas.
Da Matteo Marangoni, Valori mal noti e trascurati della pittura italiana del Seicento in alcuni pittori di nature morte, ora in Arte e Barocco, Vallecchi, Firenze 1953, pp. 6-16.
Capitàti casualmente durante la sistemazione delle tele caravaggesche alle Scuderie, senza ancora le luci sempre abbaglianti delle mostre, la prima impressione era di una immensa sagrestia di altri tempi, quelle che ci fu concesso di vedere per l’ultima volta nei Cinquanta, riempite di quadri oscuri, «Silentium» il motto a caratteri cubitali e gravi, luoghi impenetrabili ancor più di romite chiese alla modernità; o di corridoi in antichi conventi dove aleggiava una certa aria omofila, da universo celibatario: mai nudità femminili, comunque, soltanto temi sacri, biblici o liturgici, anni luce distanti dal paganesimo sottile del primo Rinascimento. Angeli casomai che giocano sull’ambiguità dei personaggi celesti – irriducibili alle umane categorie del maschile, femminile – e dei ragazzi del popolo che li interpretano in modo svagato nelle rappresentazioni da oratorio.
Giulio Mancini, il biografo seicentesco, insisteva sul fatto che il Caravaggio sulle sue tele riportava piuttosto la propria «immaginazione» che l’«osservazione della cosa». Neppure lui ‘realistico’ nonostante l’enfasi posta dai suoi storici e critici sulla somiglianza con la cosa raffigurata? Karel Van Mander, fiammingo coetaneo del pittore, attribuiva al Nostro questa dichiarazione: «La sua massima è che, se ciò che è stato dipinto e raffigurato non è tratto dal vero, non potrebbe essere altro che puerilità e bagatella». Magari voleva significare soltanto il rifiuto del capriccio e dell’ornamentale. Disdegno dell’art pour l’art diremmo oggi.
Di un particolare, millenario, realismo latino si parlava quando ancora le ‘scuole nazionali’ erano tenute in gran conto, di una vocazione che si affermava nella Roma imperiale come nel Cinquecento fiorentino. Qualcuno aggiungerebbe: nel cinema del dopoguerra e perfino nei racconti televisivi d’oggi, al punto che se gli anglosassoni astraggono molto onde narrare la vita dal punto di vista soltanto ‘poliziesco’ o nella solitudine estrema dell’investigatore, per antica tradizione l’italica cultura mostrerà sempre punti di vista che si intrecciano, famiglie numerose che fanno da contorno, affreschi tumultuosi, commistioni di comico e drammatico, innumerevoli sfaccettature del mondo. Soprattutto nell’arte italiana resiste l’idea che per rappresentare la bellezza non è necessario allontanarsi dal quotidiano e sprofondare nell’interiorità più sublime, basta saperla vedere proprio in quello che ci sta sotto gli occhi.
Interromperebbe comunque il Caravaggio la lunga serie di chi prende a modello altre pitture e a maestro altri pittori, in una sequenza interminabile di citazione e di rimandi che costituì il Manierismo. Ora non si capisce perché i teorici moderni e soprattutto postmoderni del citazionismo, nonché adoratori delle più intricate ‘maniere’, e non soltanto in pittura, esaltino poi la via presunta realistica di Michelangelo Merisi. Ma questo è un discorso secondario.
Spiegava tuttavia Gian Lorenzo Mellini tale contraddizione che investe la pittura caravaggesca e fa del suo autore un personaggio chiave: «Per Longhi Caravaggio, come per De Sanctis il blocco Alfieri-Parini-Foscolo (e soprattutto Manzoni, per via del sermo humilis), aveva una funzione catartica rispetto al buco nero del Manierismo e del Barocco, riflesso della medesima damnatio desanctisiana e poi crociana, della Riforma cattolica». In questo contesto Matteo Marangoni, che nel primo ventennio del secolo celebrava il Barocco in compagnia di pochissimi altri (soprattutto tedeschi della Scuola di Vienna e in Italia i bravi praticoni Giulio Magni e Armando Brasini, nonché il fugace Stanislao Franchetti), risultava una figura singolare, un maestro fuori degli schieramenti, che firmava libri preziosi dai titoli dimessi e scolastici quali Saper vedere e Come si guarda un quadro, per la generazione successiva degli storici dell’arte un mito che solo l’affermazione militante di Longhi riuscirà a scalzare dal podio. Da parte sua Marangoni si limitava a una bonaria impertinenza nei confronti del giovane antagonista còlto nell’immobile stupore vagamente bamboleggiante con il quale s’accostava ai più intricati nodi della sua disciplina, mancandogli la fluidità della mano di Degas, somigliando casomai all’artificioso Renoir – egli diceva secondo paragoni di moda a quel tempo. A Longhi comunque riusciva un’operazione singolare, baciata dal successo ancora ai giorni nostri, che Mellini riassume in tutti i suoi esiti: «Ma, insieme col Barocco, si affossava il Classicismo, l’Arcadia fino al Rococò, il Neoclassicismo e oltre, al fine di esaltare il cosiddetto Naturalismo, che poi era un pancaravaggìsmo a corso forzato che sarebbe sfociato in quello ottocentesco francese, massime – chissà perché – l’Impressionismo». Ideologia del secondo dopoguerra, diciamo pure la più elevata. Già nel fuoco della Prima guerra mondiale Spengler licenziava il suo Tramonto dell’Occidente parlando degli impressionismi che sostituivano i vecchi naturalismi, meglio, di cui erano la traduzione moderna: «imitazione degli stimoli dell’apparenza, dei fatti scientificamente accertabili nelle loro caratteristiche sensibili. […] Non si vuole ‘illudere’ ma evocare. L’Io sopraffà il ‘tu’». Nel medesimo anno 1917 Marangoni scriveva sulla «Rivista d’arte» il saggio sui pittori trascurati del Seicento.
Realismo, naturalismo, addirittura illusionismo. Il dibattito si complicava all’inizio del Novecento per via di quel fotografismo sul quale l’epoca si interrogava inquieta. Quale trompe-l’oeil poteva gareggiare con il risultato dello scatto meccanico? E non si era del resto tentato per circa un secolo di allontanarsi dalla minuziosa riproduzione, lasciando generosamente alla fotografia il gioco di duplicare il reale, ritenendo anzi che liberandosi da tale servigio la pittura potesse aspirare a più alti cieli? Si discusse allora nei cenacoli ristrettissimi degli storici dell’arte intorno a una vera e propria scoperta: il Cestino dell’Ambrosiana, sepolto dall’indifferenza per sì piccolo e scherzoso esercizio. Trattàvasi di natura morta, con il gusto lugubre che già il nome adombrava, un po’ come i fiori recisi da cui Mario Praz nella raccolta Fiori freschi fece risuonare tutta le declinazioni del cadaverico, tanfo compreso. Importazione dal mondo fiammingo? Certo, anche i nostri pittori sapevano rifinire frutti e fiori, ma li avevano collocati fino a quel tempo dentro scene più ampie, affollate di umani e delle loro storie. Si veda appunto la frutta dipinta sul tavolo della Cena di Emmaus come è simile alla Fiscella o al canestro che il Caravaggio collocò nelle mani di uno dei suoi Bacchi adolescenti. Oppure ci si ricordi della Venere e Satiro di Annibale Carracci, datato negli anni della cesta ambrosiana, dove l’animalesco personaggio agita una coppa con uva che, opportunamente isolata, sarebbe una perfetta ‘natura morta’, ma evidentemente il Bolognese non se la sentiva ancora di liberarsi dal racconto, ne faceva piuttosto un delicato elemento della fiaba. Così come si ebbe la fortuna di vedere in una mostra viennese di Dürer delle tavolette del maestro tedesco nel cui retro erano dipinte delle composizioni astratte, ben più geniali di quelle dei seguaci del Blaue Reiter, che restavano però fatto privatissimo, esperimento da tenere nascosto, essendo la missione del pittore quella di narrare storie attraverso le immagini, anzi secondo i precetti della Riforma tridentina «letteratura per illetterati». La questione era se e perché focalizzare questi oggetti e dedicar loro un quadro, una cornice. Come insomma potessero essere un’opera.
La modestia del quadretto ambrosiano, l’umiltà ostentata, la mancanza di splendore – forse a confronto con le opere coeve dei Fiamminghi – attribuita da Berenson al deperimento dei colori, la rinuncia alla prospettiva elaborata (per cui ancora Berenson parlava di «pittura cinese») erano d’altronde i motivi che lo faranno apprezzare tanto dai novecenteschi, segno primigenio della fine dell’arte magniloquente, riscoperto negli anni in cui si affermavano le piccole tele di Morandi, il trionfo di nature morte stortine. Ma siccome il Caravaggio nulla poteva sapere del masochismo culturale dei moderni, del loro culto della caducità senza redenzione cristiana, è certo che non a essi era rivolta la sua spenta e mesta natura morta, quanto ai suoi contemporanei cui doveva risuonare come una predica: immagine della Vanitas.
Da Matteo Marangoni, Valori mal noti e trascurati della pittura italiana del Seicento in alcuni pittori di nature morte, ora in Arte e Barocco, Vallecchi, Firenze 1953, pp. 6-16.
La solita distinzione arte naturalistica, realistica o, al contrario, idealistica, è quanto mai oziosa e falsa: l’arte non può essere realistica dal momento che è superamento della realtà empirica. Il considerarla poi tale in base al soggetto della sua interpretazione è addirittura ingenuo. Tale distinzione può invece essere fatta riguarda al mezzo d’espressione, alla tecnica pittorica, più ideale o più realista. Ora appunto, persino considerando da questo lato, la pittura del Caravaggio è, come vedremo, tutt’altro che realistica.
Caravaggio dunque, per ricordarlo alla buona in due parole, ricorre alla luce radente sui corpi non per un fatuo fine realistico, ma come mezzo per costruire stilisticamente le sue forme a semplici masse, dove le linee vitali delle cose affiorando nella luce ne costituiscono quasi gli spigoli. Questa coerenza stilistica, questo orrore dell’episodico e del temporaneo – lèggi realistico – appaiono potentemente in ogni opera caravaggesca. Basterebbe come il pittore sopprime sotto il gettito luminoso gli episodi anatomici inespressivi e la convinzione con cui li ricerca quando invece sieno parte vitale ed inespressiva della forma, quando insomma concorrano ad accrescerne il senso del volume o ritmico.
A confronto con Rembrandt
Se ora accostiamo il Carvaggio ai suoi derivati più o meno diretti, vediamo che quasi nessuno di essi ha capìto il profondo ammaestramento stilistico dell’arte caravaggesca, che allora – come oggi ancora a tanti – deve essere sembrato soltanto, per dirla coll’Orlando e col Ticozzi «un gran tingere di macchia e furbesco che non lascia trovare conto del buon contorno».
Quando si vede anche nel confronto con alcuni dei più illustri pittori spagnoli e olandesi che tanta parte della loro gloria debbono al Caravaggio il quale tuttavia sino ad ora almeno è stato, rispetto a quelli, tanto meno celebrato […].
Rembrandt, finalmente, mi sembra quasi l’antitesi del Caravaggio. La luce, che nel pittore italiano dà alle forme profili solidi e fermi, serve in Rembrandt a disfarle in contorni mobili, evanescenti, quasi irreali; nel Caravaggio la luce è il mezzo per trasfigurare la realtà nello stile, in Rembrandt essa è fine a se stessa, e le cose non sono là che per servirla; al Caravaggio basta di concretare una forma con sicuri intenti plastici in un ambiente ideale, subordinando il colore stesso all’ufficio di coadiutore plastico, Rembrandt non gode delle forme se non sieno prima immerse e trasfigurate nel bagno d’oro della sua atmosfera fantastica. Caravaggio tende a concretare le sue figurazioni nelle forme più semplici, Rembrandt ricerca le accidentalità più preziose della forma. Essi battono dunque due vie opposte: l’averli riavvicinati avrà servito solo a farci sentire quanto il pittore italiano è più vicino dell’altro al nostro senso plastico latino – lèggi classico, inteso nel più libero senso – amante di chiarezza, di semplicità, di sintesi; alieno dal fantastico e dall’irreale, dei quali non ha alcun bisogno per manifestare la bellezza latente nella materia […].
Le nature morte fiamminghe
I pittori di natura morta fiamminghi olandesi del Seicento – sino ad oggi così noti e ricercati che qualunque tela di questo genere si diceva senza distinzione fiamminga – debbono per lo più la loro grande popolarità, appunto, a doti specialmente decorative, unite a una tecnica precisa, finita ed elegante che si capisce come possa aver suscitato tanta ammirazione in un tempo in cui non esistevano mezzi fotomeccanici.
Troppo meccanicamente oggettivi per potersi permettere un vero accento lirico, e troppo superficiali per essere dei forti e sani realisti, questi pittori si mantengono, dal più, al meno, ad un livello di mezzo con una monotonia disperante che li denuncia a prima vista. Persino i più grandi di loro quando hanno dovuto dipingere della natura morta l’hanno intesa soltanto sotto un aspetto decorativo esagerandone le dimensioni come fa Rubens nella Cerere dell’Ermitage o nei Putti con frutta di Berlino, oppure Jordaens nella Fecondità di Bruxelles, e come fanno dietro di loro tutti gli altri, senza sapersi mai spogliare del marchio decorativo. In nessuno di questi pittori, per quanto mi ricordi, si riscontra per esempio il fatto, non raro invece in pittori italiani del Seicento, di una natura morta eseguita semplicemente per puro interesse pittorico e senza alcun interesse decorativo. […]
Un canestro su fondo grigio-avana
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Il Canestro dell’Ambrosiana, come già notò Lionello Venturi, ha importanza anche per la novità del soggetto che «consiste nel trovare interesse per un semplice canestro posto nel basso di un fondo grigio avana unito».
Tanto in questa come in tutte le altre nature morte caravaggesche sopra nominate, l’intenzione che mi sembra soverchiare tutte le altre è la consueta ricerca di forme semplici e chiare, la stessa volontà accentrante e solidificatrice.
Siamo in presenza di un artista eminentemente soggettivo, il quale, piuttosto che curarsi della qualità delle cose, tende a trasfigurarle plasticamente secondo imperiose leggi stilistiche. Nel Caravaggio il bisogno di definire stilisticamente la forma è tale che ha, rispetto al suo tempo, persino qualche cosa di arcaico: egli mostra la convinzione e la coerenza di un classico.
Il bisogno di unità di stile, l’orrore dell’indeciso, è tale in lui che anche gli oggetti di minima importanza sono trattati con la massima interezza stilistica. […]
Lo stesso idealismo caravaggesco riappare nel colore della frutta e delle foglie che si limita a pochi toni a zone uniformi e fredde accostate senza trapassi con impiego di ombre nerastre, senza traccia di sensualità.
Queste nature morte del Caravaggio paiono fatte apposta per smentire ancora una volta l’errato titolo di fondatore del Naturalismo che gli si affibbia.: ecco chicchi d’uva di iperbolica sfericità, ecco frutti di perfetta tornitura, foglie polite e metallicamente staglianti sul fondo, un mondo trasfigurato dallo stile imperioso dell’artista, un mondo di esseri che trascendono la caducità: altro che naturalismo!
(3. Continua)
Tanto in questa come in tutte le altre nature morte caravaggesche sopra nominate, l’intenzione che mi sembra soverchiare tutte le altre è la consueta ricerca di forme semplici e chiare, la stessa volontà accentrante e solidificatrice.
Siamo in presenza di un artista eminentemente soggettivo, il quale, piuttosto che curarsi della qualità delle cose, tende a trasfigurarle plasticamente secondo imperiose leggi stilistiche. Nel Caravaggio il bisogno di definire stilisticamente la forma è tale che ha, rispetto al suo tempo, persino qualche cosa di arcaico: egli mostra la convinzione e la coerenza di un classico.
Il bisogno di unità di stile, l’orrore dell’indeciso, è tale in lui che anche gli oggetti di minima importanza sono trattati con la massima interezza stilistica. […]
Lo stesso idealismo caravaggesco riappare nel colore della frutta e delle foglie che si limita a pochi toni a zone uniformi e fredde accostate senza trapassi con impiego di ombre nerastre, senza traccia di sensualità.
Queste nature morte del Caravaggio paiono fatte apposta per smentire ancora una volta l’errato titolo di fondatore del Naturalismo che gli si affibbia.: ecco chicchi d’uva di iperbolica sfericità, ecco frutti di perfetta tornitura, foglie polite e metallicamente staglianti sul fondo, un mondo trasfigurato dallo stile imperioso dell’artista, un mondo di esseri che trascendono la caducità: altro che naturalismo!
(3. Continua)
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