Ci scrivono:
«Più realista del re, più papista del papa, l’Almanacco si schiera dalla parte degli zuavi pontifici e considera il 20 settembre un giorno nefasto. Tutto nero in questi centoquaranta anni?Dopo il regno pontificio le déluge?A me sembra che il nichilismo si infili anche in simili atteggiamenti estremisti…».
L’«Almanacco» non si sogna neppure di sfiorare, almeno per ora, le questioni storiche su cui rifletterà la nazione nelle prossime ricorrenze a proposito degli ottantasette anni di regno e i sessantatré di repubblica (briciole temporali) che formano i fatidici centocinquanta dell’«Italia unita». Mostrava soltanto, in una parentesi di quel pezzullo del 20 settembre, un po’ di rimpianto per la Curia che amministrava una città vera, non il fortilizio virtuale del Vaticano: i volti dall’espressione tanto realista che ritroviamo nei dipinti sulla corte papale di altre epoche ci ricordano che il cristianesimo romano intreccia anima e corpo e che il governo dell’urbe, la veste mondana per i pastori delle anime, la cura secolare, faceva magari da zavorra onde non finire nell’etereo; l’angelicità coatta, imposta dalla storia, lascia perplessi, ma tant’è. L’«Almanacco» resta inoltre sorpreso dal fatto che, celebrandosi con trombe e tamburi ormai inconsueti un piccolo evento bellico, nessuno ricordi i vinti con la correttezza tollerante in voga. Senza più scrupoli, spazzati via dal tempo trascorso, si rende omaggio ai ragazzi di Salò, che pure combatterono a fianco dei nazisti e che a qualche ebreo nascosto e inerme dovettero apparire come messi dello sterminio, ma si avrebbe imbarazzo a ricordare i soldati del papa, truppe davvero multietniche che non intimorirono alcuno, che morirono in un gesto simbolico, a difesa del potere petrino, inattuale e perenne.
Tutto il resto del rammarico si riferiva al piano estetico. La lettera ci invita a non essere estremisti, e noi con molta moderazione siamo pronti ad ammettere che non tutto è penoso come la Via Nazionale, boulevard misero da cittadina balcanica e massima espressione urbanistica della capitale d’Italia, che non tutti i palazzi sono dimore per pescecani e piccolo borghesi fuoriusciti dal Pasticciaccio gaddiano, che insomma qualche villino liberty – sempre echi di culture internazionali – si salva, che l’Eur fa la sua figura, che la Via Cristoforo Colombo è seducente nella corsa verso il mare, ma si può intonare un solenne Te Deum per l’Eur o per la Garbatella? Si può fare festa perché la città regina, la capitale di Raffaello, Michelangelo, Bernini, Piranesi si è finalmente emancipata da una simile tradizione e ha dunque il Palazzetto dello Sport, Piazza Esedra, Corviale e altri esemplari post-papalini? Se lo spartiacque del 1870 segna un’epoca di vertiginosa decadenza, non ce ne faremo una malattia, d’accordo; bisogna pur vivere, si possono stoicamente trattenere le lacrime, ma addirittura giubilare è ridicolo.
Per capire che non si tratta di antimodernismo preconcetto basti pensare ad altre capitali, a quelle che devono essere riconoscenti ai secoli XIX e XX: Parigi è l’Ottocento, Madrid e Berlino il Novecento. Loro sì dovrebbero suonare le campane per i rispettivi «20 settembre». I massoni d’oltralpe fecero almeno le cose per bene. Togliendo a Parigi o a Berlino la parte moderna, che cosa resterebbe? Nulla: in termini di spazio e di anima. Qui da noi: tutto, almeno nel perimetro delle Mura aureliane; basterebbe cancellare quelle escrescenze che violentano le delicate misure e turbano la visione dall’attico del Vittoriano: il Palazzaccio, la Banca d’Italia, lo stesso monumentone abbacinante da cui si guarda. (Non è una proposta di restaurazione, di demolizioni, non fraintendete, appena un esercizio mentale quando si gode il paesaggio romano, grati al governo pontificio e ai successori di Cesare).
L’«Almanacco» non si sogna neppure di sfiorare, almeno per ora, le questioni storiche su cui rifletterà la nazione nelle prossime ricorrenze a proposito degli ottantasette anni di regno e i sessantatré di repubblica (briciole temporali) che formano i fatidici centocinquanta dell’«Italia unita». Mostrava soltanto, in una parentesi di quel pezzullo del 20 settembre, un po’ di rimpianto per la Curia che amministrava una città vera, non il fortilizio virtuale del Vaticano: i volti dall’espressione tanto realista che ritroviamo nei dipinti sulla corte papale di altre epoche ci ricordano che il cristianesimo romano intreccia anima e corpo e che il governo dell’urbe, la veste mondana per i pastori delle anime, la cura secolare, faceva magari da zavorra onde non finire nell’etereo; l’angelicità coatta, imposta dalla storia, lascia perplessi, ma tant’è. L’«Almanacco» resta inoltre sorpreso dal fatto che, celebrandosi con trombe e tamburi ormai inconsueti un piccolo evento bellico, nessuno ricordi i vinti con la correttezza tollerante in voga. Senza più scrupoli, spazzati via dal tempo trascorso, si rende omaggio ai ragazzi di Salò, che pure combatterono a fianco dei nazisti e che a qualche ebreo nascosto e inerme dovettero apparire come messi dello sterminio, ma si avrebbe imbarazzo a ricordare i soldati del papa, truppe davvero multietniche che non intimorirono alcuno, che morirono in un gesto simbolico, a difesa del potere petrino, inattuale e perenne.
Tutto il resto del rammarico si riferiva al piano estetico. La lettera ci invita a non essere estremisti, e noi con molta moderazione siamo pronti ad ammettere che non tutto è penoso come la Via Nazionale, boulevard misero da cittadina balcanica e massima espressione urbanistica della capitale d’Italia, che non tutti i palazzi sono dimore per pescecani e piccolo borghesi fuoriusciti dal Pasticciaccio gaddiano, che insomma qualche villino liberty – sempre echi di culture internazionali – si salva, che l’Eur fa la sua figura, che la Via Cristoforo Colombo è seducente nella corsa verso il mare, ma si può intonare un solenne Te Deum per l’Eur o per la Garbatella? Si può fare festa perché la città regina, la capitale di Raffaello, Michelangelo, Bernini, Piranesi si è finalmente emancipata da una simile tradizione e ha dunque il Palazzetto dello Sport, Piazza Esedra, Corviale e altri esemplari post-papalini? Se lo spartiacque del 1870 segna un’epoca di vertiginosa decadenza, non ce ne faremo una malattia, d’accordo; bisogna pur vivere, si possono stoicamente trattenere le lacrime, ma addirittura giubilare è ridicolo.
Per capire che non si tratta di antimodernismo preconcetto basti pensare ad altre capitali, a quelle che devono essere riconoscenti ai secoli XIX e XX: Parigi è l’Ottocento, Madrid e Berlino il Novecento. Loro sì dovrebbero suonare le campane per i rispettivi «20 settembre». I massoni d’oltralpe fecero almeno le cose per bene. Togliendo a Parigi o a Berlino la parte moderna, che cosa resterebbe? Nulla: in termini di spazio e di anima. Qui da noi: tutto, almeno nel perimetro delle Mura aureliane; basterebbe cancellare quelle escrescenze che violentano le delicate misure e turbano la visione dall’attico del Vittoriano: il Palazzaccio, la Banca d’Italia, lo stesso monumentone abbacinante da cui si guarda. (Non è una proposta di restaurazione, di demolizioni, non fraintendete, appena un esercizio mentale quando si gode il paesaggio romano, grati al governo pontificio e ai successori di Cesare).
1 commento:
Due o tre anni fa, sempre in occasione del Venti settembre, si accese una piccola polemica di fine estate nella quale i progressisti dell’area «Repubblica» definirono «mercenari» gli zuavi pontifici. Mancava loro infatti quel legame ‘suolo-sangue’ di nazistica memoria, che evidentemente eccita i cuori anche a sinistra. Le truppe papaline erano invece internazionali, volontari legati a un’idea universale. Il corpo degli zuavi risultava composto per metà da italiani (non soltanto romani o dello Stato della Chiesa) e per metà da volontari d’ogni parte del mondo. Più o meno, intorno al 1870, questi erano i numeri: la Francia vi figurava con 3000 uomini, il Belgio con 700, l’Olanda con 900, la Germania (prussiani e bavaresi) e l’Austria con 1200, la Svizzera con 1000, il Canada con 300; vi erano poi inglesi, russi, spagnoli, portoghesi, americani del nord; si aggiunsero infine le così dette rarità rappresentate da 3 turchi, 4 tunisini, 3 siriaci, un marocchino, 2 brasiliani, un peruviano, un messicano; l’estremo artico della terra v’era raffigurato da 2 svedesi del Capo nord e l’estremo sud da un nativo della Nuova Zelanda (tutti di fede cattolica).(fonte: Attilio Vigevano, La fine dell’esercito pontificio, ristampa anastatica, Albertelli Editore, Parma 1994,
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