~ PENSIERINI OSSESSIVI DEI NAZISTI A ROMA ~
Si moltiplicano le discutibilissime testimonianze per provare l’impossibile: e cioè che il pontefice romano Pio XII, il più grande nemico dei nazisti, come diceva Joseph Roth, trescasse con le camicie brune. È la risposta giornalistica a uno sceneggiato della televisione italiana che cercava di raccontare la Roma occupata dalle truppe tedesche e difesa soltanto dal papa, come ai tempi di Attila; insieme, ostaggio e defensor urbis. Piuttosto che replicare a simili insinuazioni volgarotte è meglio riportare testi più rispettabili, che rendono l’atmosfera plumbea dell’epoca. Naturalmente non stiamo stilando delle bibliografie storiche, ce ne sono volumi e non spetta a un blog o ai giornali aggiungere alcunché, piuttosto degli spunti, delle frasi sottolineate con la matita, per sfumare le idee fisse dei nostri giorni.
Si vorrebbe consigliare il diario di un nobile tedesco, Friedrich Reck-Malleczewen, il sorprendente Tagebuch eines Verzweifelten (di cui esiste una vecchia traduzione Rusconi, Il tempo dell’odio e il tempo della vergogna (1936-1944). Diario di un aristocratico tedesco antinazista, curata da Quirino Principe e Alfredo Cattabiani), giusto per capire da che parte fosse il cattolicesimo coerente, ma è rintracciabile solo in rare biblioteche. Abbiamo citato l’altro giorno qualche pagina di un acuto e raffinato diplomatico polacco inviato dal regime comunista nella Roma di papa Pacelli. Adesso vogliamo offrire una citazione dal Diario di un borghese di Ranuccio Bianchi Bandinelli, il celebre archeologo. Chiamato per la sua cultura e per la padronanza del tedesco (era figlio di una nobildonna slesiana) a fare da guida nei musei romani ad Adolf Hitler in visita in Italia, nel maggio 1938, il giovane Bianchi Bandinelli raccontò in un libro uscito nel dopoguerra le ore in cui fu «duce del Führer» e della sua corte. Dopo la visita a uno dei tanti musei, nell’atmosfera distesa di un rinfresco, il futuro intellettuale comunista annotò alcune battute che si scambiarono: piccoli segnali assai eloquenti delle turpitudini neopagane.
Scrive Bianchi Bandinelli: «Hitler aveva con sé un largo seguito. Soltanto Göring era rimasto a Berlino a guardar casa. C’erano Goebbels e Ribbentrop, Himmler e Hess; Fank, il Gruppenführer Wolf, Brückner, Amann, Keitel, il Gauleiter Bohle, Dietrich dell’ufficio stampa e Sepp Dietrich, comandante della Leibstandarte e capo SS. Dopo un poco feci gruppo con il dott. Karl Brandt, medico di Hitler, e con altri, tutti in divisa. Non ricordo se il dott. Brandt apparteneva alle formazioni SS; mi sembra di sì. Certo era il più fanatizzato giovane della nuova Germania, che avessi mai incontrato. Le cose che si sentivano raccontare, e alle quali si stentava sempre a prestar fede per intero, ritenendole almeno in parte motivi di propaganda avversaria, venivano dette da questo giovanotto con la maggiore tranquillità, che dimostrava una profonda consuetudine con quelle idee. Idee non erano, in fondo; molte erano semplicemente citazioni di Mein Kampf, il vangelo nazista; ma citazioni che, tradotte in realtà, grondavano sangue e lacrime: soppressione dei fanciulli deboli, soppressione dei malati di mente, dovere che dovrebbero sentire i grandi invalidi della passata guerra a sopprimere se stessi per contribuire ancora una volta alla ricostruzione della Germania, che ha scarsezza di viveri. E, soprattutto, abolizione del cristianesimo: “Il cristianesimo è stato la prima ondata bolscevica, con esito positivo per essa – negativo per la civiltà – che si sia riversata sull’Europa. Lo conferma l’arte: l’occhio si fa vago e incerto, le figure laide e grottesche come quelle di Munch e di Barlach oggi. La vecchia generazione non può capire; ma i giovani che vengono su, trovano naturale che il cristianesimo venga abolito. Non è più una questione che si ponga. Per lo spirito di carità c’è il WHW (Opera d’assistenza invernale), che supplisce”. Senza meraviglia ho letto recentemente nei giornali la notizia che il dott. Brandt era stato condannato a morte quale criminale di guerra per aver fatto esperimenti crudeli sugli uomini e sulle donne nei campi di concentramento: “responsabile di esperimenti su cavie umane” (giornali del 20 agosto 1947). Le identiche parole sul cristianesimo, prima ondata bolscevica sull’Europa, le avrei sentite, il giorno dipoi, pronunziate dallo stesso Hitler al Museo delle Terme di Diocleziano, dinanzi a un sarcofago paleocristiano che era esposto nel giardino. Egli ne paragonava lo stile artistico a quello “secessionistico ed espressionistico, che ho bandito dalla Germania”. Compresa l’improprietà del vocabolario, era la redazione autentica di uno dei versetti del vangelo nazista: “Il cristianesimo distrusse Roma, pur divenendo universale solo attraverso Roma”» (Dal diario di un borghese, Il Saggiatore, pp.177-179).
Si moltiplicano le discutibilissime testimonianze per provare l’impossibile: e cioè che il pontefice romano Pio XII, il più grande nemico dei nazisti, come diceva Joseph Roth, trescasse con le camicie brune. È la risposta giornalistica a uno sceneggiato della televisione italiana che cercava di raccontare la Roma occupata dalle truppe tedesche e difesa soltanto dal papa, come ai tempi di Attila; insieme, ostaggio e defensor urbis. Piuttosto che replicare a simili insinuazioni volgarotte è meglio riportare testi più rispettabili, che rendono l’atmosfera plumbea dell’epoca. Naturalmente non stiamo stilando delle bibliografie storiche, ce ne sono volumi e non spetta a un blog o ai giornali aggiungere alcunché, piuttosto degli spunti, delle frasi sottolineate con la matita, per sfumare le idee fisse dei nostri giorni.
Si vorrebbe consigliare il diario di un nobile tedesco, Friedrich Reck-Malleczewen, il sorprendente Tagebuch eines Verzweifelten (di cui esiste una vecchia traduzione Rusconi, Il tempo dell’odio e il tempo della vergogna (1936-1944). Diario di un aristocratico tedesco antinazista, curata da Quirino Principe e Alfredo Cattabiani), giusto per capire da che parte fosse il cattolicesimo coerente, ma è rintracciabile solo in rare biblioteche. Abbiamo citato l’altro giorno qualche pagina di un acuto e raffinato diplomatico polacco inviato dal regime comunista nella Roma di papa Pacelli. Adesso vogliamo offrire una citazione dal Diario di un borghese di Ranuccio Bianchi Bandinelli, il celebre archeologo. Chiamato per la sua cultura e per la padronanza del tedesco (era figlio di una nobildonna slesiana) a fare da guida nei musei romani ad Adolf Hitler in visita in Italia, nel maggio 1938, il giovane Bianchi Bandinelli raccontò in un libro uscito nel dopoguerra le ore in cui fu «duce del Führer» e della sua corte. Dopo la visita a uno dei tanti musei, nell’atmosfera distesa di un rinfresco, il futuro intellettuale comunista annotò alcune battute che si scambiarono: piccoli segnali assai eloquenti delle turpitudini neopagane.
Scrive Bianchi Bandinelli: «Hitler aveva con sé un largo seguito. Soltanto Göring era rimasto a Berlino a guardar casa. C’erano Goebbels e Ribbentrop, Himmler e Hess; Fank, il Gruppenführer Wolf, Brückner, Amann, Keitel, il Gauleiter Bohle, Dietrich dell’ufficio stampa e Sepp Dietrich, comandante della Leibstandarte e capo SS. Dopo un poco feci gruppo con il dott. Karl Brandt, medico di Hitler, e con altri, tutti in divisa. Non ricordo se il dott. Brandt apparteneva alle formazioni SS; mi sembra di sì. Certo era il più fanatizzato giovane della nuova Germania, che avessi mai incontrato. Le cose che si sentivano raccontare, e alle quali si stentava sempre a prestar fede per intero, ritenendole almeno in parte motivi di propaganda avversaria, venivano dette da questo giovanotto con la maggiore tranquillità, che dimostrava una profonda consuetudine con quelle idee. Idee non erano, in fondo; molte erano semplicemente citazioni di Mein Kampf, il vangelo nazista; ma citazioni che, tradotte in realtà, grondavano sangue e lacrime: soppressione dei fanciulli deboli, soppressione dei malati di mente, dovere che dovrebbero sentire i grandi invalidi della passata guerra a sopprimere se stessi per contribuire ancora una volta alla ricostruzione della Germania, che ha scarsezza di viveri. E, soprattutto, abolizione del cristianesimo: “Il cristianesimo è stato la prima ondata bolscevica, con esito positivo per essa – negativo per la civiltà – che si sia riversata sull’Europa. Lo conferma l’arte: l’occhio si fa vago e incerto, le figure laide e grottesche come quelle di Munch e di Barlach oggi. La vecchia generazione non può capire; ma i giovani che vengono su, trovano naturale che il cristianesimo venga abolito. Non è più una questione che si ponga. Per lo spirito di carità c’è il WHW (Opera d’assistenza invernale), che supplisce”. Senza meraviglia ho letto recentemente nei giornali la notizia che il dott. Brandt era stato condannato a morte quale criminale di guerra per aver fatto esperimenti crudeli sugli uomini e sulle donne nei campi di concentramento: “responsabile di esperimenti su cavie umane” (giornali del 20 agosto 1947). Le identiche parole sul cristianesimo, prima ondata bolscevica sull’Europa, le avrei sentite, il giorno dipoi, pronunziate dallo stesso Hitler al Museo delle Terme di Diocleziano, dinanzi a un sarcofago paleocristiano che era esposto nel giardino. Egli ne paragonava lo stile artistico a quello “secessionistico ed espressionistico, che ho bandito dalla Germania”. Compresa l’improprietà del vocabolario, era la redazione autentica di uno dei versetti del vangelo nazista: “Il cristianesimo distrusse Roma, pur divenendo universale solo attraverso Roma”» (Dal diario di un borghese, Il Saggiatore, pp.177-179).
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