lunedì 24 gennaio 2011

L'amore tridentino

~ UNA VECCHIA LETTERA SU ANNIBALE CARRACCI~

Una email del 2007, resoconto a una amica in Andalusia di una mostra senza gloria per un gloriosissimo artista, Annibale Carracci, rimasta nella memoria del computer, viene ritirata fuori per consolare gli sventurati che si sono recati a una mostra ben peggiore: «Palazzo Farnèse» (sic, col cognome francesizzato nell’alma città di Roma), invenzione del legato di Sarkozy per celebrare nella sua ambasciata la ‘douce France’ pure con papa Paolo III e i suoi nipoti. Non si tratta infatti di una normale visita del Palazzo – salvo il fine settimana restano chiuse al pubblico addirittura le stanze dei Fasti farnesiani – bensì, ricorrendo all'enfasi dell'evento, di un’occupazione di alcuni ambienti della dimora cardinalizia con enormi e sgraziati contenitori neri dove allestire le consuete vetrinette di monete, copie di quadri, calchi di statue, fotografie. Niente che valga un viaggio apposito, a parte l’opportunità di vedere la Galleria Carracci (con le finestre rinserrate in pieno giorno, con l’illuminazione artificiale) e altre poche (purtroppo) opere sparse di Annibale. La vecchia lettera può allora risultare più opportuna di una recensione: con il linguaggio diretto dello scambio epistolare si parla di quella famiglia di artisti che dette luce e colore alla Riforma cattolica.

25 gennaio 2007 -. Stasera son stato all’inaugurazione di una mostra onesta di Annibale Carracci in tournée a Roma proveniente da Bologna. Nel Chiostro del Bramante, disinfettato del sentore di plastica del polacco-americano pop precedente, ma con una diffusa puzza comunque nelle cellette che mal si prestano a spazio per esposizioni, dunque benché il naso offeso, l’occhio una volta tanto viene accarezzato. Nella prima sala, una sfilata di autoritratti. Quando la si fa lunga sull’introspezione dei protestanti nordici in generale e di Rembrandt in particolare, si dovrebbe esser subito smentiti da simili pregevoli opere. Ma certo, qui non si prova l’imbarazzo del racconto intimo, non si sentono i miasmi dell’interiorità, non si vede la smorfia di chi vuol mettere in scena l’anima. Semplicemente un bel giovanotto bolognese si specchia provando una posa seducente, elementare la psicologia, elaboratissima la superficie. Carracci si presentava baldanzoso con quell’accento emiliano che confonde nelle s e nelle c per cui alcuni trascrissero Annibale Carrazzi.

Fino alla morte prematura, neanche cinquantenne, causata da grossa depressione, si dipinse, sfiorando perfino le forme della decomposizione fisica. Nelle sale seguenti, ancora maggiore la cura nel riprendere i corpi nello spazio naturale, il magistrale senso di equilibrio che si riscontra per esempio nel Bevitore arrovesciato. Italiano a dispetto di tutti i manierismi di contemporanei suoi e naturalmente anche dei realismi ‘quattrocenteschi’ di quel Merisi tanto esaltato oggi. Faccio un inciso. Con le desolanti metafore di cui si pasce il giornalismo, tutti i divulgatori ripetono per illustrare l'esposizione: «l’altra metà del cielo del Seicento romano»; oppure ricorrendo alla frase ready made: «non solo Caravaggio fu il Seicento»; insomma, per parlare di Annibale alle porte della nostra Roma scordarella, citano il nome più di moda, l’eccitatore romantico dell’accoppiata pittoresca arte & delitto, colui che è caro al pubblico imbelle del Terzo millennio anche per avere probabilmente accoppato un amico ed essere asceso così nell’empireo dei ‘trasgressori’. In tal modo, l’erede più puro di Raffaello deve ricevere luce di riflesso dal pittore specializzato nel cliché delle ombre, da chi «non faceva mai uscire all’aperto del sole alcuna delle sue figure», come osservava Giovan Pietro Bellori. Si inventa, per facilitare la ricezione, un Seicento tutto dominato dal Lombardo, come piacque pensare nella metà del secolo scorso a un pugno di storici e critici. A tal punto simile ricostruzione diventa luogo comune nei suoi seguaci che il leggendario disegnatore bolognese deve essere rammentato per specchio merisiano, dal momento che la perfezione delle composizioni, l’invenzione eccelsa sviluppata nelle trionfali sale farnesiane, la colta e articolata disposizione, la filiazione dal classico, la sapienza nella fiaba mitologica nulla sembrano valere più agli occhi catarattici dei miei contemporanei.

Torniamo alla nostra storia, alla nostra mostra. Il maggiore dei Carracci giunse a Roma, scoprì Raffaello, e si cimentò con la sua gloria. Aveva visto i Veneti, conosceva bene i suoi compaesani, a cominciare dallo squisito Correggio, si dedicò a sintetizzare la grande arte della penisola. Riassumere Raffaello Michelangelo e Tiziano, e rilanciare: un progetto augusto. Ovvero, la Scuola italiana. Oggi, abbiamo l’Italia unita da una staterello ma non una scuola pittorica, forse neppure musicale, mentre già all’alba del Seicento la straordinaria eccellenza della pittura italiana, bene articolata in numerosissime sotto-schole, era chiara agli occhi di Annibale e del mondo.

Cattolico di Bologna, città della Controriforma, fu fedele alla idea di Bellezza. Poca gente alla mostra e distratta: nessun quadro li colpiva particolarmente né aneddoti picareschi. L’autore non era un superuomo, semplicemente un artista al servizio di un signore, artista in livrea come lo fu J. S. Bach o Hölderlin (geni che non ebbero bisogno delle piccole libertà e licenze in cui annegano le mezze tacche); non fu neppure sospetto di omosessualità.

A chi va in cerca di emozioni, come se fosse al cinema o allo stadio, Cesare Garboli docet: «Destituire il fatto d’arte di qualsiasi referente psicologico e esistenziale». Oggi invece ci si sguazza in quest’aria calda emotiva. C’è una ragione precisa e importante nell’esaltazione moderna dell’emotività. Nella scomoda mostra si afferra comunque bene la nobile impresa di Annibale nel formare un linguaggio aulico che oltrepassasse soggettività ed emozioni, anche dipingendo ritratti e autoritratti. Pose eroiche, paesaggi eroici. In quelle sue lunette Aldobrandini (celeberrima la Fuga in Egitto della Galleria Doria Pamphili) mise a punto il paesaggio romano del Seicento, fu maestro diretto di Domenichino e indiretto di Poussin e Lorrain. Ovvero aprì la via del ritorno al classico come quella del barocco per cui gli sono allievi altresì Pietro da Cortona, Rubens, Bernini e Borromini. Per la solennità che assume il paesaggio, Cesare Brandi parlava di «epica della pittura più che ecloga». Cosicché si può dire che stavamo ammirando quadri controriformisti...

I ‘classici’ non si erano mai permessi troppi eccessi di sperimentalismo, nell’arte meridionale non si concepivano quelle composizioni di fiori e frutta che poi presero il nome poco allegro di ‘nature morte’, invenzione audace dei nordici, e da noi del Caravaggio appunto. Ma nella tela stupenda dedicata a Venere e Satiro – con il tizianesco prato erboso e il dettaglio burlesco del piccolo Eros che spinge la lingua fuori per la libido di cotanto corpo che lo sovrasta – il semianimalesco personaggio agita una coppa con uva che, opportunamente isolata, sarebbe una perfetta ‘natura morta’, epperò il Bolognese non se la sente di liberarsi dal racconto, ne fa un elemento prezioso della fiaba. Così come mi capitò di vedere in una mostra viennese di Dürer delle tavolette del maestro tedesco nel cui retro erano dipinte delle vere e proprie composizioni astratte, più geniali di quelle dei seguaci del Blaue Reiter, che restavano tuttavia fatto privatissimo, esperimento da tenere nascosto, essendo la missione del pittore quella di narrare storie attraverso le immagini, anzi secondo i precetti della Riforma tridentina per il nostro Carracci, ‘letteratura per illetterati’. Il soggetto protestante in quel rappel à l’ordre cinquecentesco sembrava scomparire dalle nostre parti. Ma oggi siamo così luteranizzati da essere incapaci di apprezzare una simile arte gaudiosa.

I tedeschi insistono che il protestantesimo «uccise la leggenda e il miracolo insiti nell’arte medievale cattolica», e davvero provò a toglierle la migliore aura, ma poi il sagace naturalismo è ancora affar nostro, proprio di Annibale che a Palazzo Farnese lo libera da un secolo di manierismi, anche attigui in quelle stanze. E se in schematico gioco si volesse riassumere: Caravaggio provò a rappresentare con una singolare fedeltà il dolore e la bruttura umana, ma Annibale si dedicò a una più difficile impresa: rendere con esattezza su tela e soprattutto sui muri la gioia e la beltà, un anticipo di Paradiso, un insegnamento diretto, da sperimentare fisicamente, secondo i precetti tridentini. E senza eccessive chiacchiere e teorie, come recita quel detto attribuitogli: «i pittori avessero a parlare con le mani». L’arte non è un criptogramma, un rebus che ha bisogno di mozziconi di parole. Cominciarono alla fine del Settecento, nelle prime pagine dell’Emilia Galotti, quando Lessing arriva a sostenere, anche se nella forzatura di una battuta (e forse sulla falsariga di una polemica michelangiolesca): «Quanto va perduto nel tragitto che va dall’occhio al braccio e poi al pennello di un pittore! […] O non pensate, forse, principe, che Raffaello sarebbe stato il più grande genio pittorico vivente se per disgrazia fosse nato senza mani? Non lo credete?». L’estetologo illuminista si confonde con i successori romantici nel culto alemanno dell’interiorità. Adesso, tutti senza mani gli artisti. Il sogno dei tedeschi è realizzato. Raro il lavoro artigianale delle mani e ancor più raro quello per ottenere bellezza, ché talvolta ci si affatica nell’atelier per rievocazione del travaglio manuale ma senza mirare al risultato della perfezione estetica, in un’inutile elaborazione certosina fine a se stessa, celebrazione narcisistica del lavoro anacronistico.

Con la Riforma protestante scompariva progressivamente il livello oggettivo e ontologico, tutto si svolgeva sul piano morale, affettivo e sentimentale (mi sentivo peccatore, ora mi sento salvato); la ragione e la volontà restavano fuori dal convertito. La salvezza era ridotta a un’esperienza sostanzialmente individuale ed emozionale.

Intorno alla salvezza come procedimento ragionevole, sorretto dagli esempi degli antichi, imprestati dai miti fuori del tempo, e reso icastico dalla pittura che discendeva da Raffaello e dagli altri grandi, provò ad allestire un’architettura dipinta Annibale Carracci con i suoi sodali nella Galleria farnesiana. Salvezza cattolica che riassumeva il discorso platonico sull’amore, lo integrava con la poesia latina di Ovidio per poi tradurvi l’annuncio della resurrezione dei corpi, il vangelo della redenzione del mondo fisico. Soffitto come un cielo, che a sua volta si apre in guisa di rideau teatrale, dove l’amore sublime si incrocia con quello terreno e lo riscatta. Carnalità della religione romana, carnalità della pittura italiana, contra la spettralità delle anime vaganti di sapore nordico. Nonostante la presenza platonica, si osa non dar peso eccessivo a quei timori del filosofo greco sul mimetismo artistico che spinge gli umani a un’imitazione peccaminosa. Sembra cioè spirare nella sala del severo palazzo una brezza erotica a coinvolgere i presenti, sedotti da quelle figure. E forse è vero, in quale altro luogo le visioni degli dèi e delle dee trascinano così direttamente lo spettatore in una corrente impetuosa che conduce a un trionfo d’Amore? Immagini dell’amore tridentino che la pubblicistica post-risorgimentale osò ridurre a una fosca caricatura: epoca funerea e puritana, sostenevano, ascetica e inquisitoria. L’epoca di Annibale Carracci e di Pierluigi da Palestrina.

Se mai ti capitasse di visitarla, nei prossimi giorni, al tuo ritorno, tieni in mente anche un incipit di rara bravura dell’Italo Calvino spesso celebrato a sproposito; sembra alludere a quei paesaggi barocchi, a quelle città celesti che incombono nei saloni romani sulle nostre teste: «Se allora mi avessero domandato che forma ha il mondo avrei detto che è in pendenza, con dislivelli irregolari, con sporgenze e rientranze, per cui mi trovo sempre in qualche modo come su un balcone, affacciato a una balaustra, vedo ciò che il mondo contiene disporsi alla destra e alla sinistra a diverse distanze, su altri balconi o palchi di teatro soprastanti o sottotanti, d’un teatro il cui proscenio si apre sul vuoto…» (Dall’opaco).

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