~ RILEGGENDO EDGAR WIND SUI PERICOLI DELLA CULTURA. ~ PRIMA PUNTATA: L’ATROFIA CONTEMPORANEA ~
C’è un ministro della Repubblica che rischia d’essere cacciato dal governo con l’accusa di «aver speso poco» per la cultura. Un tanto al chilo: si è capito che le faccende sublimi, da Platone a Hofmannsthal, sarebbero per l’opinione pubblica corrente un fatto di soldi. Più si spende più cresce il livello culturale. Un assai volgare liberalismo si è impadronito anche dell’opposizione nominalmente di sinistra. Ma forse questa smania di investimenti muove soprattutto dalle preoccupazioni delle camorre che ruotano intorno al mercato dell’arte e dello spettacolo, dei miracolati dell’industria culturale di Stato, più semplicemente degli occupati in quel settore. Della povertà immaginativa non si fa mai cenno in simili discussioni sui bilanci dello spirito. Al bonario ministro dei ‘tagli’, a questo Scissorhands fiabesco, sicuramente poco adatto a lavorare nel ginepraio dei furbi, dedichiamo le nostre modeste riflessioni a puntate sui pericoli della cultura.
Nel 1963, alla radio della Bbc, trasmisero sei conferenze di Edgar Wind, storico dell’arte berlinese che insegnava a Oxford. Ventotto minuti ciascuna, molto sintetiche dunque pur affrontando i grandi temi del pensiero occidentale: aveva lavorato con le forbici anche lui. Raccolte sotto il titolo di Arte e anarchia le conversazioni divennero un libro, tradotto in italiano da Adelphi, che riassume con il tono delle lezioni britanniche e l’erudizione dei professori tedeschi le questioni che ritornano più insistentemente in questo «Almanacco». Cominciamo dalla prima: la paradossale perdita di peso della cultura nel momento in cui essa è più diffusa del pane, a tal punto che viene considerata innocua, anzi benefica, come un qualsiasi piatto di pasta, e invocata sulle barricate come un tempo la farina. Ci si è dimenticati nel frattempo del timore sacro che avvolgeva questa speciale attività umana, l’abbiamo svuotata del suo carattere oscuro e addirittura minaccioso, per ingenuità illuministica la spargiamo come fosse un disinfettante. Platone che se ne intendeva maggiormente dei gazzettieri che ci circondano sospettava di tutto quel che deriva dalla umana immaginazione spinta dai dèmoni. La sospettava e nello stesso tempo la considerava, al punto «da pensare che un uomo potesse venir mutato dalle cose che immaginava», ci ricorda Wind. E, come è noto anche a chi non ha letto Platone, riteneva che «l’arte mimetica fosse una pratica estremamente pericolosa, e propose alcune leggi curiose, in base alle quali l’imitazione mimica di personaggi stravaganti o malvagi veniva vietata». Così Wind evoca le forbici platoniche della censura, una parola che risulta impronunciabile nel nostro tempo. Ma lo squisito professore berlinese paragona la censura alla potatura – di nuovo le forbici, i tagli! – mettendo in evidenza la contraddittoria attività del censore (e del potatore): ridare vigore a quel che si taglia, rischiando peraltro di rovinar tutto se si intacca la radice. Però, senza potare, senza rinvigorire, senza censura alcuna – come se quello che dice l’arte fosse innocuo, inutile, infante – si avrà l’atrofia contemporanea, dove l’arte è uno smisurato parco giochi che invade vanamente ogni dove. Dei giudici americani, citati da Wind, che evidentemente negli anni Quaranta davano ancora peso all’arte, sentenziarono che «tanto più un libro è tedioso, tanto più la sua oscenità andrebbe scusata», mentre «quanto maggiore è l’arte tanto maggiore è la sua forza nociva». Oggi, ancor più che ai tempi di Wind – è già passato mezzo secolo dai Sessanta – l’arte è una specie di bollino che permette ogni libertà. Ma un mondo senza limiti, senza censure, perde in credibilità, è condannato a una eterna marginalizzazione. Al centro della scena regna infatti la scienza.
Prima di Wind, era chiaro già a Hegel. L’arte diventava nel linguaggio dei romantici un’esperienza «interessante», la nuova parola-chiave dell’epoca. Ora un oggetto «interessante» suscita una attenzione effimera, in breve perde di interesse, è legato alla medesima legge della moda. Hegel si accorse dunque che l’arte aveva perso «quello stretto legame che in passato aveva avuto con le energie centrali dell’uomo». Il filosofo dialettico scrisse: «Per noi l’arte non è più il modo supremo con cui la verità si crea un’esistenza…». La verità, incomprensibile ma venerata nel nostro mondo, è quella delle scienze. Gli artisti sono degli intrattenitori, magari un po’ sciamani per sostituire la liturgia abbandonata dalle chiese.
Resa eunuca, l’arte ha perduto la sua sinistra potenza, si presenta come un gingillo. Confusa con il «tempo libero» dei carcerati del lavoro, con il turismo, con la gita e le pastarelle domenicali, diviene una pappa, una melensa apertura a tutte le provocazioni, sorbite con rassegnazione, perché già si sa che il gioco consiste proprio nello spostare l’asticella sempre più su ma senza mai rischiare di cadere, l’arte è ormai senza rischio. Di atto gratuito in atto gratuito, si può arrivare, come nel romanzo di Gide, all’omicidio, ma senza timore né tremore: anch’esso reso ornamentale dal velo estetico.
Platone sarebbe stato d’accordo con i giudici americani: «le nature deboli sono difficilmente capaci di molto bene e di molto male». Il grande artista sconvolge l’ordine sociale e il cuore dell’uomo, è davvero pericoloso come il grande criminale; senza per questo sovrapporre le due figure. Invece nell’Ottocento tedesco si provò ad accostarli: l’artista rinascimentale e Cesare Borgia. Burckhardt parlò dello «Stato come opera d’arte», alla sua scuola Nietzsche, eccitato da tale sovrapposizione, arrivò a confondere Tiziano con Borgia. Ma Burckhardt era meno platonico di quanto sembri e gli capitò di pronunciare una frase agli antipodi di quella succitata sulle nature deboli. O meglio, Wind gliela aggiusta così, e sembra un’anticipazione di quanto detto da Hannah Arendt sui nazisti: la mediocrità «come la vera forza diabolica di questo mondo». Non ci si può bloccare in tale antitesi. Baudelaire, citatissimo in queste conferenze, sembra sciogliere il nodo: «la passione frenetica dell’arte è un cancro che divora il resto». Non si tratta cioè di una passione neutra, la frenesia artistica è già mossa dai dèmoni, i grandi artisti e i mediocri son guidati ugualmente da tale «divina pazzia». Non si scherza con la energia della immaginazione, non a caso le singole arti si chiamano discipline, serve una serie di tecniche e un addestramento onde tenere a bada la fiamma della fantasia. Ci si muove tra l’eccesso e l’atrofia, tra la possente forza barbarica e la forma civilizzatrice. Zolla, che Wind probabilmente non conosceva, compilerà in quegli stessi anni, una Storia del fantasticare in cui – come scrive Grazia Marchianò – «dopo aver esplorato a fondo la fantasticheria nella psiche e nell’esperienza comune, nella storia del costume e nelle letterature in Occidente, denunciava con vibrante vigore il falso legame tra imaginatio vera e fantasticheria (day dreaming), e l’impostura della loro contaminazione perpetrata nel tempo moderno. Alimentato dalla pubblicità e dall’uso deformante dei media, il fantasticare al galoppo ha reciso secondo Zolla la percezione della differenza, nota alle società tradizionali, tra l’archetipo affiorante dall’imaginatio vera e i deliri del sogno a occhi aperti». In questa sarabanda infernale, l’autore del romanzetto sentimentale e il grande artefice surrealista si aggrappano allo stesso modo alla fantasia indisciplinata.
«Ma quali precauzioni prendiamo, nella nostra odierna, tumultuosa vita artistica, per non lasciarsi dominare da tali forze, oppure per non soffocarle? Che cosa dovrebbe fare la nostra economia artistica per evitare sia l’eccesso sia l’atrofia», si domanda a un certo punto Wind in punta di piedi. Forse la prima precauzione sarebbe quella di arrestarsi dubbiosi sulla soglia del panculturalismo imperante, sulla diffusione coatta dell’arte. I vecchi sospetti sulla sua mercificazione evitavano almeno le ridicole apologie del mercato degli ex rivoluzionari.
«Il direttore di orchestra Kussevitzky era solito affermare che di musica non ce ne sarà mai abbastanza: più musica viene eseguita, più musica viene ascoltata, tanto meglio per tutti. È chiaro, mi sembra, che le cose sono andate proprio come voleva lui. In nessuna epoca della storia è stata offerta al pubblico, e ascoltata dal pubblico, tanta musica come oggi; e probabilmente lo stesso vale per la letteratura», ammette l’autore. Adorno avrebbe detto indignato che la signorina di buona famiglia che suonava il piano con i pochi spartiti che circolavano nelle case della media borghesia aveva una conoscenza della musica e un godimento estetico infinitamente superiori del feticista della tecnologia stereo che colleziona stanze di dischi. E altrettanto si potrebbe affermare per la letteratura: i viaggiatori nei treni metropolitani che leggono un romanzo al giorno hanno sicuramente minore esperienza letteraria del poeta-contadino. Si è condannati al ruolo di consumatori. Spesso si prenotano mostre e concerti e si pagano i libri con una stessa card ‘culturale’. Ma il divoratore di cultura non reagisce più, non reagiva già ai tempi di Wind: «siamo inondati di mostre, ci rimpinzano di libri d’arte; e questi immensi aggregati di immagini disponibili vengono assorbiti con un’avidità e, posso aggiungere, con un grado di intelligenza che avrebbero certamente sbalordito altre generazioni, meno adattabili della nostra. È diventato ormai rarissimo il caso della persona che, messa di fronte a un linguaggio pittorico per lei insolito, si permetta di deriderlo, come se fosse lo scherzo di un buffone che non sa disegnare […]; ma questa resa all’arte, quasi senza condizioni, sembra altrettanto allarmante». Non c’è più né sacro timore né resistenza dell’intelligenza. Si dice sì a tutto e il tutto non dice più niente.
«Siamo molto inclini all’arte, ma l’arte non ci tocca molto profondamente, ed è per questo che ne possiamo assorbire tanta, e di tanti, tanti generi diversi». Valéry trovava impossibile il museo dove l’eloquenza di troppi quadri diversi frastornava: come leggere più libri simultaneamente. L’eclettismo imperante è segno di indifferenza. Il pubblico è diventato immune all’arte, ha un vaccino, dal contatto con essa non deve temere più nulla, non corre più alcun rischio: può assorbirne in grande quantità. Lo scandalo allora dovrebbe scuotere, ricordare l’antico timor sacro che essa suscitava, ma ridotto a un riflesso condizionato ha perso il suo ruolo pericoloso. Adesso, da un secolo e più, è finanziato dallo Stato democratico, rivolto a tutti, come l’istruzione.
L’arte è diventata un onnipresente ornamento di un mondo assai brutto. Bene farebbe il ministro a usare ogni giorno le forbici platoniche.
(1.- continua)
C’è un ministro della Repubblica che rischia d’essere cacciato dal governo con l’accusa di «aver speso poco» per la cultura. Un tanto al chilo: si è capito che le faccende sublimi, da Platone a Hofmannsthal, sarebbero per l’opinione pubblica corrente un fatto di soldi. Più si spende più cresce il livello culturale. Un assai volgare liberalismo si è impadronito anche dell’opposizione nominalmente di sinistra. Ma forse questa smania di investimenti muove soprattutto dalle preoccupazioni delle camorre che ruotano intorno al mercato dell’arte e dello spettacolo, dei miracolati dell’industria culturale di Stato, più semplicemente degli occupati in quel settore. Della povertà immaginativa non si fa mai cenno in simili discussioni sui bilanci dello spirito. Al bonario ministro dei ‘tagli’, a questo Scissorhands fiabesco, sicuramente poco adatto a lavorare nel ginepraio dei furbi, dedichiamo le nostre modeste riflessioni a puntate sui pericoli della cultura.
Nel 1963, alla radio della Bbc, trasmisero sei conferenze di Edgar Wind, storico dell’arte berlinese che insegnava a Oxford. Ventotto minuti ciascuna, molto sintetiche dunque pur affrontando i grandi temi del pensiero occidentale: aveva lavorato con le forbici anche lui. Raccolte sotto il titolo di Arte e anarchia le conversazioni divennero un libro, tradotto in italiano da Adelphi, che riassume con il tono delle lezioni britanniche e l’erudizione dei professori tedeschi le questioni che ritornano più insistentemente in questo «Almanacco». Cominciamo dalla prima: la paradossale perdita di peso della cultura nel momento in cui essa è più diffusa del pane, a tal punto che viene considerata innocua, anzi benefica, come un qualsiasi piatto di pasta, e invocata sulle barricate come un tempo la farina. Ci si è dimenticati nel frattempo del timore sacro che avvolgeva questa speciale attività umana, l’abbiamo svuotata del suo carattere oscuro e addirittura minaccioso, per ingenuità illuministica la spargiamo come fosse un disinfettante. Platone che se ne intendeva maggiormente dei gazzettieri che ci circondano sospettava di tutto quel che deriva dalla umana immaginazione spinta dai dèmoni. La sospettava e nello stesso tempo la considerava, al punto «da pensare che un uomo potesse venir mutato dalle cose che immaginava», ci ricorda Wind. E, come è noto anche a chi non ha letto Platone, riteneva che «l’arte mimetica fosse una pratica estremamente pericolosa, e propose alcune leggi curiose, in base alle quali l’imitazione mimica di personaggi stravaganti o malvagi veniva vietata». Così Wind evoca le forbici platoniche della censura, una parola che risulta impronunciabile nel nostro tempo. Ma lo squisito professore berlinese paragona la censura alla potatura – di nuovo le forbici, i tagli! – mettendo in evidenza la contraddittoria attività del censore (e del potatore): ridare vigore a quel che si taglia, rischiando peraltro di rovinar tutto se si intacca la radice. Però, senza potare, senza rinvigorire, senza censura alcuna – come se quello che dice l’arte fosse innocuo, inutile, infante – si avrà l’atrofia contemporanea, dove l’arte è uno smisurato parco giochi che invade vanamente ogni dove. Dei giudici americani, citati da Wind, che evidentemente negli anni Quaranta davano ancora peso all’arte, sentenziarono che «tanto più un libro è tedioso, tanto più la sua oscenità andrebbe scusata», mentre «quanto maggiore è l’arte tanto maggiore è la sua forza nociva». Oggi, ancor più che ai tempi di Wind – è già passato mezzo secolo dai Sessanta – l’arte è una specie di bollino che permette ogni libertà. Ma un mondo senza limiti, senza censure, perde in credibilità, è condannato a una eterna marginalizzazione. Al centro della scena regna infatti la scienza.
Prima di Wind, era chiaro già a Hegel. L’arte diventava nel linguaggio dei romantici un’esperienza «interessante», la nuova parola-chiave dell’epoca. Ora un oggetto «interessante» suscita una attenzione effimera, in breve perde di interesse, è legato alla medesima legge della moda. Hegel si accorse dunque che l’arte aveva perso «quello stretto legame che in passato aveva avuto con le energie centrali dell’uomo». Il filosofo dialettico scrisse: «Per noi l’arte non è più il modo supremo con cui la verità si crea un’esistenza…». La verità, incomprensibile ma venerata nel nostro mondo, è quella delle scienze. Gli artisti sono degli intrattenitori, magari un po’ sciamani per sostituire la liturgia abbandonata dalle chiese.
Resa eunuca, l’arte ha perduto la sua sinistra potenza, si presenta come un gingillo. Confusa con il «tempo libero» dei carcerati del lavoro, con il turismo, con la gita e le pastarelle domenicali, diviene una pappa, una melensa apertura a tutte le provocazioni, sorbite con rassegnazione, perché già si sa che il gioco consiste proprio nello spostare l’asticella sempre più su ma senza mai rischiare di cadere, l’arte è ormai senza rischio. Di atto gratuito in atto gratuito, si può arrivare, come nel romanzo di Gide, all’omicidio, ma senza timore né tremore: anch’esso reso ornamentale dal velo estetico.
Platone sarebbe stato d’accordo con i giudici americani: «le nature deboli sono difficilmente capaci di molto bene e di molto male». Il grande artista sconvolge l’ordine sociale e il cuore dell’uomo, è davvero pericoloso come il grande criminale; senza per questo sovrapporre le due figure. Invece nell’Ottocento tedesco si provò ad accostarli: l’artista rinascimentale e Cesare Borgia. Burckhardt parlò dello «Stato come opera d’arte», alla sua scuola Nietzsche, eccitato da tale sovrapposizione, arrivò a confondere Tiziano con Borgia. Ma Burckhardt era meno platonico di quanto sembri e gli capitò di pronunciare una frase agli antipodi di quella succitata sulle nature deboli. O meglio, Wind gliela aggiusta così, e sembra un’anticipazione di quanto detto da Hannah Arendt sui nazisti: la mediocrità «come la vera forza diabolica di questo mondo». Non ci si può bloccare in tale antitesi. Baudelaire, citatissimo in queste conferenze, sembra sciogliere il nodo: «la passione frenetica dell’arte è un cancro che divora il resto». Non si tratta cioè di una passione neutra, la frenesia artistica è già mossa dai dèmoni, i grandi artisti e i mediocri son guidati ugualmente da tale «divina pazzia». Non si scherza con la energia della immaginazione, non a caso le singole arti si chiamano discipline, serve una serie di tecniche e un addestramento onde tenere a bada la fiamma della fantasia. Ci si muove tra l’eccesso e l’atrofia, tra la possente forza barbarica e la forma civilizzatrice. Zolla, che Wind probabilmente non conosceva, compilerà in quegli stessi anni, una Storia del fantasticare in cui – come scrive Grazia Marchianò – «dopo aver esplorato a fondo la fantasticheria nella psiche e nell’esperienza comune, nella storia del costume e nelle letterature in Occidente, denunciava con vibrante vigore il falso legame tra imaginatio vera e fantasticheria (day dreaming), e l’impostura della loro contaminazione perpetrata nel tempo moderno. Alimentato dalla pubblicità e dall’uso deformante dei media, il fantasticare al galoppo ha reciso secondo Zolla la percezione della differenza, nota alle società tradizionali, tra l’archetipo affiorante dall’imaginatio vera e i deliri del sogno a occhi aperti». In questa sarabanda infernale, l’autore del romanzetto sentimentale e il grande artefice surrealista si aggrappano allo stesso modo alla fantasia indisciplinata.
«Ma quali precauzioni prendiamo, nella nostra odierna, tumultuosa vita artistica, per non lasciarsi dominare da tali forze, oppure per non soffocarle? Che cosa dovrebbe fare la nostra economia artistica per evitare sia l’eccesso sia l’atrofia», si domanda a un certo punto Wind in punta di piedi. Forse la prima precauzione sarebbe quella di arrestarsi dubbiosi sulla soglia del panculturalismo imperante, sulla diffusione coatta dell’arte. I vecchi sospetti sulla sua mercificazione evitavano almeno le ridicole apologie del mercato degli ex rivoluzionari.
«Il direttore di orchestra Kussevitzky era solito affermare che di musica non ce ne sarà mai abbastanza: più musica viene eseguita, più musica viene ascoltata, tanto meglio per tutti. È chiaro, mi sembra, che le cose sono andate proprio come voleva lui. In nessuna epoca della storia è stata offerta al pubblico, e ascoltata dal pubblico, tanta musica come oggi; e probabilmente lo stesso vale per la letteratura», ammette l’autore. Adorno avrebbe detto indignato che la signorina di buona famiglia che suonava il piano con i pochi spartiti che circolavano nelle case della media borghesia aveva una conoscenza della musica e un godimento estetico infinitamente superiori del feticista della tecnologia stereo che colleziona stanze di dischi. E altrettanto si potrebbe affermare per la letteratura: i viaggiatori nei treni metropolitani che leggono un romanzo al giorno hanno sicuramente minore esperienza letteraria del poeta-contadino. Si è condannati al ruolo di consumatori. Spesso si prenotano mostre e concerti e si pagano i libri con una stessa card ‘culturale’. Ma il divoratore di cultura non reagisce più, non reagiva già ai tempi di Wind: «siamo inondati di mostre, ci rimpinzano di libri d’arte; e questi immensi aggregati di immagini disponibili vengono assorbiti con un’avidità e, posso aggiungere, con un grado di intelligenza che avrebbero certamente sbalordito altre generazioni, meno adattabili della nostra. È diventato ormai rarissimo il caso della persona che, messa di fronte a un linguaggio pittorico per lei insolito, si permetta di deriderlo, come se fosse lo scherzo di un buffone che non sa disegnare […]; ma questa resa all’arte, quasi senza condizioni, sembra altrettanto allarmante». Non c’è più né sacro timore né resistenza dell’intelligenza. Si dice sì a tutto e il tutto non dice più niente.
«Siamo molto inclini all’arte, ma l’arte non ci tocca molto profondamente, ed è per questo che ne possiamo assorbire tanta, e di tanti, tanti generi diversi». Valéry trovava impossibile il museo dove l’eloquenza di troppi quadri diversi frastornava: come leggere più libri simultaneamente. L’eclettismo imperante è segno di indifferenza. Il pubblico è diventato immune all’arte, ha un vaccino, dal contatto con essa non deve temere più nulla, non corre più alcun rischio: può assorbirne in grande quantità. Lo scandalo allora dovrebbe scuotere, ricordare l’antico timor sacro che essa suscitava, ma ridotto a un riflesso condizionato ha perso il suo ruolo pericoloso. Adesso, da un secolo e più, è finanziato dallo Stato democratico, rivolto a tutti, come l’istruzione.
L’arte è diventata un onnipresente ornamento di un mondo assai brutto. Bene farebbe il ministro a usare ogni giorno le forbici platoniche.
(1.- continua)
Nessun commento:
Posta un commento