~ RILEGGENDO WIND SUI «PERICOLI DELLA CULTURA».
~ TERZA PUNTATA: IL CULTO DEL FRAMMENTO ~
Torniamo per la terza volta su un libro di Edgar Wind, Arte e anarchia (Adelphi), a leggere tra le righe una immagine della cultura più minacciosa di quanto normalmente si sia portati a credere. Non si tratta in questo caso delle vecchie lamentazioni sulla società ‘cattiva’ che viola la cultura benefica, neppure della mercificazione capitalistica di questa virtuosa attività spirituale, insomma dell’allarme spesso lanciato dagli intellettuali sulla cultura in pericolo, bensì – sulla scia di Platone – dei pericoli che la cultura porta con sé, non essendo affatto innocua e inerme. E se è vero che attualmente il «sacro timore» non l’avvolge più, ciò deriva dal fatto che arte, letteratura e musica svolgono ormai una funzione ornamentale, annacquata rispetto al mondo antico dove occupavano il posto centrale. Spodestata dalla scienza, la cultura umanistica sembra ricorrere al carattere ‘sacro’ soltanto per conservare due vecchi privilegi: la libertà di dire l’indicibile (ma non essendo più in gioco la verità, quel che non si può dire è essenzialmente l’osceno, etimologicamente il melmoso); i guadagni fuori da ogni ragionevolezza del mercato. In questa puntata vedremo altri modi con i quali son stati limati gli artigli della cultura tradizionale.
Antesignano del comico dei nostri giorni che fa la arguta parodia dello spacciatore d’arte televisivo, William Hogarth alle soglie del moderno aveva già messo in burletta le fumose chiacchiere di curators e critici che alimentano i voluminosi cataloghi. Su un quotidiano del tempo, l’artista satirico raccontava del modo di truffare il pubblico credulone: «Signore, vedo che lei non è un connoisseur, questo quadro, glielo posso assicurare, è un Alesso Baldminetto seconda maniera, cioè la migliore; arditamente dipinto, e assolutamente sublime…». Naturalmente il nome storpiato di un artista italiano gioca sull’assonanza con il vero, storicamente vero, Alesso Baldovinetti, si orecchia l’erudizione, mentre le maniere si susseguono per confondere il compratore (forse c’è sempre l’inganno nella maniera), anche prima degli imbonitori televisivi il personaggio di Hogarth dice le stesse battute dei nostri battitori elettronici e dei nostri paladini del Contemporaneo, ricorre ai medesimi ridicoli pretesti estetici. «Poi, dopo aver sputato in un angolo buio del quadro – prosegue la lunga citazione di Hogarth riportata da Wind – [il ciarlatano] lo strofina con un fazzoletto sporco, salta nell’angolo opposto della stanza e da lontano esclama estasiato: “E guardi un po’ questo particolare, se non è sorprendente! Un collezionista potrebbe tenerlo in casa per un anno, prima di incominciare a scoprire la metà delle bellezze che vi si nascondono!”». I papi erano mecenati esigenti, sapevano quel che volevano dai massimi artisti del Rinascimento, l’acquirente piccolo-borghese si nutre di sentito dire e si lascia intimidire facilmente dai paroloni. Il Pappagone della Transavanguardia ha fatto la sua fortuna con un linguaggio colorito quanto approssimativo, come l’indimenticabile ‘servitore’ del commendator Peppino De Filippo. Per evitare gli inganni, ecco allora una lungo serie di studiosi che mettono a segno dei metodi onde accertare l’arte autentica e distinguerla dai falsi, proprio mentre tutta l’arte rischia di diventare falsa. Giovanni Morelli, con mosse lombrosiane, trovò il bandolo della matassa nel dettaglio, altri ricorreranno alla tecnologia, l’occhio sapiente essendo ormai poco diffuso. Anzi, dal momento che l’arte diventa una merce nella quale investire, piuttosto che un oggetto di diletto, c’è bisogno di garanzie per rassicurare il compratore incolto. I dettagli preziosi che assicurano la autenticità e l’attribuzione stabiliscono pure «quanto vale». Ma, al di là dell’aspetto sociologico, che Wind non sfiora neppure, questo concentrarsi sul dettaglio da parte di Morelli diventa la «traccia dell’“originale perduto”». Ossia, il suo culto del frammento, «assurto a vera firma dell’artista, è una notissima eresia romantica». Wind ha trovato un’altra faccia di questo lungo addomesticamento della cultura: la sua frantumazione.
Il metodo morelliano conduceva a privilegiare il disegno sull’opera pittorica realizzata, dopo di lui sempre più si andrà alla ricerca della sinopia, dello schizzo iniziale, del bozzetto. In tal modo, ma non per ‘colpa’ di Morelli, «l’immediatezza, feticcio romantico, – scriveva Praz – di cui sono sottospecie l’impressionismo e la scrittura automatica, una volta assunta a supremo criterio di giudizio, ha fatto sì che non solo vengano condannate intere epoche artistiche come il neoclassicismo, ma che dei grandi artisti neoclassici, si salvino solo gli schizzi, gli abbozzi, gli spunti come quelli che conservano qualche scintilla di quel fuoco divino che poi la rielaborazione smorzerebbe».(Gusto neoclassico). Canova patì infatti le conseguenze di tale romanticismo, i suoi bozzetti furono preferiti alle statue. Il «culto romantico dello spasimo» isolava il particolare e portava le arti verso un permanente «stato di crisi». E siccome anche «la poesia è il linguaggio di uno stato di crisi» (Mallarmé) e le crisi sono brevi, «il poema lungo – sosteneva il critico britannico A. C. Bradley – è un’offesa all’arte». Stefan George nella sua traduzione della Commedia dantesca procedeva, all’opposto di Borchardt, spezzando l’opera in una serie di brevi poemetti, in modo, riteneva, di cogliere il poetico e lasciare da parte «l’immenso edificio del mondo-Stato-Chiesa» (impressionante assonanza con le crociane distinzioni tra intuizione lirica e l’impoetica struttura). La pittura romantica di genere storico, con le sue grandi tele equivalenti al poema lungo e soprattutto al melodramma, sembra una eccezione ma, come il melodramma, risulta comunque un’arte ormai scarsamente raffinata, più adatta al gusto popolare. ‘Non finito’ e abbozzo si impongono nell’arte degli ultimi due secoli anche per rileggere i maestri del passato. Inutilmente Vasari testimonia che Michelangelo raccomandò in punto di morte di bruciare schizzi e cartoni «per non apparire se non perfetto», la perfezione essendo ormai una virtù sconosciuta agli ultimi moderni. E il frammentario si accompagna al capriccio – il cubismo è un immenso capriccio, dice Wind – echi della trionfante Insensatezza.
Il reverendo William Gilpin, l’ideatore della formula del «pittoresco», riteneva che per ridare vitalità a un monumento d’architettura palladiana, occorreva servirsi della «mazza piuttosto che del cesello: dobbiamo buttare giù metà della costruzione, rovinare l’altra metà e infine sparpagliare e ammucchiare intorno le membra mutilate». Mutilare la figura umana e poi di seguito mutilare tutto il visibile sembra essere la parola d’ordine degli ultimi due secoli, l’iconoclastia attuale ne ha fatto un cliché. Perfino la fotografia, anzi soprattutto la fotografia, per cancellare il suo peccato originale di essere mimetica, deve frantumarsi, cancellare la sua rappresentazione, automutilarsi.
Quel gusto della spontaneità che distruggeva le superfici pittoriche per cercarvi dietro i pentimenti dell’artista, il primo abbozzo, l’istante dell’ispirazione, andava poi a fare a pezzi le statue affinché ne restassero evocativi frammenti, particolari che si prestavano pure alla allegoria di medioevale tradizione, e infine devastava il giardino all’italiana dove regnava il Logos per imporre quello all’inglese, natura ideata in modo selvaggio e ruderi artefatti. Wordsworth sintetizza: «una sete degradante di stimoli violenti». Gusto del frammento e gusto del barbarismo del resto vanno d’accordo. Non è un caso che la Kabbalah ebraica uscirà dai suoi millenari segreti per diventare breviario estetico della cultura contemporanea: una guida per muoversi in un mondo in frantumi.
«Vollard scherzosamente asseriva di aver visto Rodin che faceva a pezzi delle statue per ricavarne frammenti», racconta Wind, mentre Rilke, assistente spirituale dello scultore in gioventù, sognava una Eleonora Duse che recitasse senza braccia. Aveva cominciato C. D. Friedrich a cancellare il volto, i filosofi francesi alla moda finirono con il predicare nell’ultima parte del Novecento la soppressione totale dell’essere umano, come una figurina sulla sabbia. In mezzo, gli urli espressionisti, la riscoperta dei frammenti dell’incompiuto Woyzeck, i drammaturghi tedeschi che concepivano un teatro di espressioni di una o due sillabe gridate, Schönberg che musicava questi istanti di dolore. Un immenso repertorio di frammenti la cultura di oggi, quasi si fosse al day after della grande catastrofe. L’Apocalisse sa ancora raccontare in una forma composta, in una storia lunga e articolata, in immagini saldamente collegate; l’arte del nostro tempo si vuole già oltre la fine del mondo, post-escatologica, post ogni cosa.
Arte da camera, musica da camera, letteratura da camera, intimissima, privata: la cultura dei frammenti si emargina da sola, mai più gli affreschi, le statue, i monumenti, le opere complete, conchiuse. Si definisce «leggera» certa musica (in contrapposizione a quella «forte», come la chiama Quirino Principe che sdegna le debolezze estetiche), ebbene ormai c’è anche un’arte leggera, una cultura leggera, che dominano l’Occidente.
(3. – continua)
~ TERZA PUNTATA: IL CULTO DEL FRAMMENTO ~
Torniamo per la terza volta su un libro di Edgar Wind, Arte e anarchia (Adelphi), a leggere tra le righe una immagine della cultura più minacciosa di quanto normalmente si sia portati a credere. Non si tratta in questo caso delle vecchie lamentazioni sulla società ‘cattiva’ che viola la cultura benefica, neppure della mercificazione capitalistica di questa virtuosa attività spirituale, insomma dell’allarme spesso lanciato dagli intellettuali sulla cultura in pericolo, bensì – sulla scia di Platone – dei pericoli che la cultura porta con sé, non essendo affatto innocua e inerme. E se è vero che attualmente il «sacro timore» non l’avvolge più, ciò deriva dal fatto che arte, letteratura e musica svolgono ormai una funzione ornamentale, annacquata rispetto al mondo antico dove occupavano il posto centrale. Spodestata dalla scienza, la cultura umanistica sembra ricorrere al carattere ‘sacro’ soltanto per conservare due vecchi privilegi: la libertà di dire l’indicibile (ma non essendo più in gioco la verità, quel che non si può dire è essenzialmente l’osceno, etimologicamente il melmoso); i guadagni fuori da ogni ragionevolezza del mercato. In questa puntata vedremo altri modi con i quali son stati limati gli artigli della cultura tradizionale.
Antesignano del comico dei nostri giorni che fa la arguta parodia dello spacciatore d’arte televisivo, William Hogarth alle soglie del moderno aveva già messo in burletta le fumose chiacchiere di curators e critici che alimentano i voluminosi cataloghi. Su un quotidiano del tempo, l’artista satirico raccontava del modo di truffare il pubblico credulone: «Signore, vedo che lei non è un connoisseur, questo quadro, glielo posso assicurare, è un Alesso Baldminetto seconda maniera, cioè la migliore; arditamente dipinto, e assolutamente sublime…». Naturalmente il nome storpiato di un artista italiano gioca sull’assonanza con il vero, storicamente vero, Alesso Baldovinetti, si orecchia l’erudizione, mentre le maniere si susseguono per confondere il compratore (forse c’è sempre l’inganno nella maniera), anche prima degli imbonitori televisivi il personaggio di Hogarth dice le stesse battute dei nostri battitori elettronici e dei nostri paladini del Contemporaneo, ricorre ai medesimi ridicoli pretesti estetici. «Poi, dopo aver sputato in un angolo buio del quadro – prosegue la lunga citazione di Hogarth riportata da Wind – [il ciarlatano] lo strofina con un fazzoletto sporco, salta nell’angolo opposto della stanza e da lontano esclama estasiato: “E guardi un po’ questo particolare, se non è sorprendente! Un collezionista potrebbe tenerlo in casa per un anno, prima di incominciare a scoprire la metà delle bellezze che vi si nascondono!”». I papi erano mecenati esigenti, sapevano quel che volevano dai massimi artisti del Rinascimento, l’acquirente piccolo-borghese si nutre di sentito dire e si lascia intimidire facilmente dai paroloni. Il Pappagone della Transavanguardia ha fatto la sua fortuna con un linguaggio colorito quanto approssimativo, come l’indimenticabile ‘servitore’ del commendator Peppino De Filippo. Per evitare gli inganni, ecco allora una lungo serie di studiosi che mettono a segno dei metodi onde accertare l’arte autentica e distinguerla dai falsi, proprio mentre tutta l’arte rischia di diventare falsa. Giovanni Morelli, con mosse lombrosiane, trovò il bandolo della matassa nel dettaglio, altri ricorreranno alla tecnologia, l’occhio sapiente essendo ormai poco diffuso. Anzi, dal momento che l’arte diventa una merce nella quale investire, piuttosto che un oggetto di diletto, c’è bisogno di garanzie per rassicurare il compratore incolto. I dettagli preziosi che assicurano la autenticità e l’attribuzione stabiliscono pure «quanto vale». Ma, al di là dell’aspetto sociologico, che Wind non sfiora neppure, questo concentrarsi sul dettaglio da parte di Morelli diventa la «traccia dell’“originale perduto”». Ossia, il suo culto del frammento, «assurto a vera firma dell’artista, è una notissima eresia romantica». Wind ha trovato un’altra faccia di questo lungo addomesticamento della cultura: la sua frantumazione.
Il metodo morelliano conduceva a privilegiare il disegno sull’opera pittorica realizzata, dopo di lui sempre più si andrà alla ricerca della sinopia, dello schizzo iniziale, del bozzetto. In tal modo, ma non per ‘colpa’ di Morelli, «l’immediatezza, feticcio romantico, – scriveva Praz – di cui sono sottospecie l’impressionismo e la scrittura automatica, una volta assunta a supremo criterio di giudizio, ha fatto sì che non solo vengano condannate intere epoche artistiche come il neoclassicismo, ma che dei grandi artisti neoclassici, si salvino solo gli schizzi, gli abbozzi, gli spunti come quelli che conservano qualche scintilla di quel fuoco divino che poi la rielaborazione smorzerebbe».(Gusto neoclassico). Canova patì infatti le conseguenze di tale romanticismo, i suoi bozzetti furono preferiti alle statue. Il «culto romantico dello spasimo» isolava il particolare e portava le arti verso un permanente «stato di crisi». E siccome anche «la poesia è il linguaggio di uno stato di crisi» (Mallarmé) e le crisi sono brevi, «il poema lungo – sosteneva il critico britannico A. C. Bradley – è un’offesa all’arte». Stefan George nella sua traduzione della Commedia dantesca procedeva, all’opposto di Borchardt, spezzando l’opera in una serie di brevi poemetti, in modo, riteneva, di cogliere il poetico e lasciare da parte «l’immenso edificio del mondo-Stato-Chiesa» (impressionante assonanza con le crociane distinzioni tra intuizione lirica e l’impoetica struttura). La pittura romantica di genere storico, con le sue grandi tele equivalenti al poema lungo e soprattutto al melodramma, sembra una eccezione ma, come il melodramma, risulta comunque un’arte ormai scarsamente raffinata, più adatta al gusto popolare. ‘Non finito’ e abbozzo si impongono nell’arte degli ultimi due secoli anche per rileggere i maestri del passato. Inutilmente Vasari testimonia che Michelangelo raccomandò in punto di morte di bruciare schizzi e cartoni «per non apparire se non perfetto», la perfezione essendo ormai una virtù sconosciuta agli ultimi moderni. E il frammentario si accompagna al capriccio – il cubismo è un immenso capriccio, dice Wind – echi della trionfante Insensatezza.
Il reverendo William Gilpin, l’ideatore della formula del «pittoresco», riteneva che per ridare vitalità a un monumento d’architettura palladiana, occorreva servirsi della «mazza piuttosto che del cesello: dobbiamo buttare giù metà della costruzione, rovinare l’altra metà e infine sparpagliare e ammucchiare intorno le membra mutilate». Mutilare la figura umana e poi di seguito mutilare tutto il visibile sembra essere la parola d’ordine degli ultimi due secoli, l’iconoclastia attuale ne ha fatto un cliché. Perfino la fotografia, anzi soprattutto la fotografia, per cancellare il suo peccato originale di essere mimetica, deve frantumarsi, cancellare la sua rappresentazione, automutilarsi.
Quel gusto della spontaneità che distruggeva le superfici pittoriche per cercarvi dietro i pentimenti dell’artista, il primo abbozzo, l’istante dell’ispirazione, andava poi a fare a pezzi le statue affinché ne restassero evocativi frammenti, particolari che si prestavano pure alla allegoria di medioevale tradizione, e infine devastava il giardino all’italiana dove regnava il Logos per imporre quello all’inglese, natura ideata in modo selvaggio e ruderi artefatti. Wordsworth sintetizza: «una sete degradante di stimoli violenti». Gusto del frammento e gusto del barbarismo del resto vanno d’accordo. Non è un caso che la Kabbalah ebraica uscirà dai suoi millenari segreti per diventare breviario estetico della cultura contemporanea: una guida per muoversi in un mondo in frantumi.
«Vollard scherzosamente asseriva di aver visto Rodin che faceva a pezzi delle statue per ricavarne frammenti», racconta Wind, mentre Rilke, assistente spirituale dello scultore in gioventù, sognava una Eleonora Duse che recitasse senza braccia. Aveva cominciato C. D. Friedrich a cancellare il volto, i filosofi francesi alla moda finirono con il predicare nell’ultima parte del Novecento la soppressione totale dell’essere umano, come una figurina sulla sabbia. In mezzo, gli urli espressionisti, la riscoperta dei frammenti dell’incompiuto Woyzeck, i drammaturghi tedeschi che concepivano un teatro di espressioni di una o due sillabe gridate, Schönberg che musicava questi istanti di dolore. Un immenso repertorio di frammenti la cultura di oggi, quasi si fosse al day after della grande catastrofe. L’Apocalisse sa ancora raccontare in una forma composta, in una storia lunga e articolata, in immagini saldamente collegate; l’arte del nostro tempo si vuole già oltre la fine del mondo, post-escatologica, post ogni cosa.
Arte da camera, musica da camera, letteratura da camera, intimissima, privata: la cultura dei frammenti si emargina da sola, mai più gli affreschi, le statue, i monumenti, le opere complete, conchiuse. Si definisce «leggera» certa musica (in contrapposizione a quella «forte», come la chiama Quirino Principe che sdegna le debolezze estetiche), ebbene ormai c’è anche un’arte leggera, una cultura leggera, che dominano l’Occidente.
(3. – continua)
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