~ RILEGGENDO EDGAR WIND SUI «PERICOLI DELLA CULTURA».~ SECONDA PUNTATA: L’ART POUR L’ART ~
«Niente porta più sicuramente alla più perfetta barbarie
di un attaccamento esclusivo allo spirito puro…»
........................................................................................PAUL VALÉRY
Sulla scia di Edgar Wind, dicevamo nella scorsa puntata che la cultura è un passepartout per entrare pesantemente nelle casse pubbliche e per ottenere qualsiasi libertà, ma questa fonte di privilegi ha perduto strada facendo il suo legame con la vita umana. Sempre più astratta, si presenta ingannevolmente come la quintessenza del Bene e del Buongusto. La leggenda che Cultura e Bene vadano a braccetto ha ricevuto nel Novecento non pochi colpi, soprattutto quando si son visti alcuni tra i suoi migliori esponenti finire per esempio nelle contrade nazi-fasciste, magari per abbaglio: da Benn a Heidegger, da Jung a Schmitt, da Marinetti a Sironi, da Pirandello a Pound, tanto per citare i primi grossi nomi che vengono alla mente, e per smentire la formula consolatoria che essa se ne stia sempre dalla parte ‘giusta’. Quanto all’eleganza di cui si ammanterebbe, basta entrare in una libreria e vedere i suoi prodotti più in luce sui banconi: titoli triviali, con doppi sensi, nell’inglese del gergo mondialista: ogni divetta, ogni fantasma televisivo, ogni giornalista pubblica il suo libro di successo, bisogna faticare molto per rinvenire una copertina promettente, e maggiore fatica è necessaria per prendere in mano un bel libro. Nella percezione della maggioranza la cultura continua a essere considerata quanto mai oblativa benché non nasconda affatto i vili interessi che le si accumulano intorno, tra i pochi anzi che riescono ad animare sempre il mercato. Nessun disinganno può mandare in crisi quel belletto che serve a mascherare masse assai rozze e che è venduto loro come un deodorante dello spirito.
Senza ricette, Wind prova a spiegare l’inflazione spaventosa di questa parola, l’indebolimento culturale degli ultimi tempi, la insipienza dell’arte resa definitivamente «innocua». La «sublime indifferenza» per le passioni umane e il culto della forma hanno sicuramente contribuito a raffinare la storia dell’arte, hanno aperto nuove frontiere alla sensibilità, l’hanno ripulita dal sentimentalismo, però a furia di purificare l’arte otteniamo una attività che sconfina con l’inutile. Purismo e distruzione vanno di pari passo. Resa leggera, tutta spirituale, perché mai l’arte dovrebbe coinvolgere seriamente qualcuno? Gide la chiamava «une peinture décérebrée», scervellata, morta, in anticipo su quello che si vede nelle fiere di oggi. Per Wind la causa prima sta nella ricerca dell’art pour l’art.
Della follia e della morte cui conduce un’arte fine a se stessa, narrò splendidamente Balzac nel suo racconto Le Chef-d’œuvre inconnu (v. su questo «Almanacco» La morte e il diavolo nascosto nell’artista) in cui un pittore annichilisce la sua opera per purificarla d’ogni soggetto. Più o meno contemporanei del romanziere francese, i romantici tedeschi predicavano la dissoluzione della poesia e della pittura nella musica. Mallarmé che dichiarava «la Destruction fut ma Béatrice» è già un artista come quello rappresentato nella tragica storia balzachiana. Tra i critici che conducono verso quest’arte spoglia d’ogni funzione vitale, basta ricordare Wölfflin e la sua osservazione sull’essenza dello stile gotico evidente in una scarpa appuntita come in una cattedrale. Così dicendo, spiega Wind, «egli aveva scoperto che quanto più un soggetto è carico di emozione religiosa, tanto maggiori sono gli ostacoli che si frappongono all’apprensione puramente visiva». Si tratta quindi di spogliarlo di ogni emozione, di ridurlo a segno, a particelle minime di segno sulle quali poi si costruirà la semiotica. Procede da simili teorie, dalla scarpa posta sul piedistallo che fu delle cattedrali, il feticismo estetico imperante.
Ortega y Gasset, tentato da eleganti paradossi, non si accorse di quel che stava crescendo nell'orto della sua «arte disumanizzata», gli sembrava semplicemente una buffoneria sofisticata, remota dal pubblico popolare, un gioco aristocratico intraducibile, non riuscì a prevedere quell’«appetito di solennità» per cui vieppiù gli installatori e provocatori, i comici del contemporaneo, tengono tanto alla fatale parola: «arte». D’altronde è ormai soltanto una simile parola che permette la trasmutazione di una merce qualsiasi in un oggetto estetico di grande prezzo, per il godimento delle masse che si piegano devote di fronte a un misterioso feticcio che produce magicamente soldi dal nulla. E nella celebrazione enfatica della giovinezza il saggista spagnolo tralasciava l’affermazione della «emotività adolescenziale» che a lungo andare diventa cliché stucchevole e insopportabile (ragione in più del ridicolo che suscitano le persone mature chine su tali giocattoli).
Il timore della consonanza in Schönberg, il gusto iconoclastico nelle arti figurative, la ossessione per il dettaglio: questo lo spettacolo di un’arte che ha rinunciato ai suoi «compiti vitali». A furia di cercare l’assoluto, a scapito della visione sensuale che loda il mondo empirico, accade, alla maniera dell’uomo che volle farsi angelo di Pascal, che ci si ritrovi nella prosaicità più meschina. Invece, come ricorda Paolucci nel catalogo della mostra appena aperta a Forlì sul suo maestro di angeli, «la Bellezza che incarna l’idea ha da essere assoluta e allo stesso tempo naturale: così pensava Melozzo. La bellezza abita l’empireo dei supremi Veri e tuttavia è calata nella storia, è riconoscibile nelle donne e negli uomini che vivono sotto il cielo». Baudelaire avrebbe concordato «il bello è fatto di un elemento eterno, invariabile […], e da un elemento relativo, legato alle circostanze, e che sarà, se si vuole, di volta in volta o contemporaneamente, l’epoca, la moda, la morale, la passione. Senza questo secondo elemento che è come […] l’aperitivo del dolce divino, il primo elemento risulterebbe indigeribile […], inappropriato alla natura umana». Prezioso equilibrio tra «esperienza reale ed esperienza vicaria» che i mistici dell’arte, i sacerdoti della nuova religione estetica (ma anche, dall’altra parte, i teorici dell’engagement) hanno distrutto.
Un altro pericolo della cultura che i suoi cantori ignorano o dimenticano. Ma se il male estetico attuale non è il frutto del complotto di eccentrici e scellerati, si tratta di una faccenda «più profonda di qualsiasi capriccio individuale». Di conseguenza non la si può rendere reversibile con una semplice decisione. Se vogliamo che l’arte torni a una funzione più centrale nella nostra vita – conclude Wind – bisogna anzitutto che la nostra vita cambi».
(2. – continua)
«Niente porta più sicuramente alla più perfetta barbarie
di un attaccamento esclusivo allo spirito puro…»
........................................................................................PAUL VALÉRY
Sulla scia di Edgar Wind, dicevamo nella scorsa puntata che la cultura è un passepartout per entrare pesantemente nelle casse pubbliche e per ottenere qualsiasi libertà, ma questa fonte di privilegi ha perduto strada facendo il suo legame con la vita umana. Sempre più astratta, si presenta ingannevolmente come la quintessenza del Bene e del Buongusto. La leggenda che Cultura e Bene vadano a braccetto ha ricevuto nel Novecento non pochi colpi, soprattutto quando si son visti alcuni tra i suoi migliori esponenti finire per esempio nelle contrade nazi-fasciste, magari per abbaglio: da Benn a Heidegger, da Jung a Schmitt, da Marinetti a Sironi, da Pirandello a Pound, tanto per citare i primi grossi nomi che vengono alla mente, e per smentire la formula consolatoria che essa se ne stia sempre dalla parte ‘giusta’. Quanto all’eleganza di cui si ammanterebbe, basta entrare in una libreria e vedere i suoi prodotti più in luce sui banconi: titoli triviali, con doppi sensi, nell’inglese del gergo mondialista: ogni divetta, ogni fantasma televisivo, ogni giornalista pubblica il suo libro di successo, bisogna faticare molto per rinvenire una copertina promettente, e maggiore fatica è necessaria per prendere in mano un bel libro. Nella percezione della maggioranza la cultura continua a essere considerata quanto mai oblativa benché non nasconda affatto i vili interessi che le si accumulano intorno, tra i pochi anzi che riescono ad animare sempre il mercato. Nessun disinganno può mandare in crisi quel belletto che serve a mascherare masse assai rozze e che è venduto loro come un deodorante dello spirito.
Senza ricette, Wind prova a spiegare l’inflazione spaventosa di questa parola, l’indebolimento culturale degli ultimi tempi, la insipienza dell’arte resa definitivamente «innocua». La «sublime indifferenza» per le passioni umane e il culto della forma hanno sicuramente contribuito a raffinare la storia dell’arte, hanno aperto nuove frontiere alla sensibilità, l’hanno ripulita dal sentimentalismo, però a furia di purificare l’arte otteniamo una attività che sconfina con l’inutile. Purismo e distruzione vanno di pari passo. Resa leggera, tutta spirituale, perché mai l’arte dovrebbe coinvolgere seriamente qualcuno? Gide la chiamava «une peinture décérebrée», scervellata, morta, in anticipo su quello che si vede nelle fiere di oggi. Per Wind la causa prima sta nella ricerca dell’art pour l’art.
Della follia e della morte cui conduce un’arte fine a se stessa, narrò splendidamente Balzac nel suo racconto Le Chef-d’œuvre inconnu (v. su questo «Almanacco» La morte e il diavolo nascosto nell’artista) in cui un pittore annichilisce la sua opera per purificarla d’ogni soggetto. Più o meno contemporanei del romanziere francese, i romantici tedeschi predicavano la dissoluzione della poesia e della pittura nella musica. Mallarmé che dichiarava «la Destruction fut ma Béatrice» è già un artista come quello rappresentato nella tragica storia balzachiana. Tra i critici che conducono verso quest’arte spoglia d’ogni funzione vitale, basta ricordare Wölfflin e la sua osservazione sull’essenza dello stile gotico evidente in una scarpa appuntita come in una cattedrale. Così dicendo, spiega Wind, «egli aveva scoperto che quanto più un soggetto è carico di emozione religiosa, tanto maggiori sono gli ostacoli che si frappongono all’apprensione puramente visiva». Si tratta quindi di spogliarlo di ogni emozione, di ridurlo a segno, a particelle minime di segno sulle quali poi si costruirà la semiotica. Procede da simili teorie, dalla scarpa posta sul piedistallo che fu delle cattedrali, il feticismo estetico imperante.
Ortega y Gasset, tentato da eleganti paradossi, non si accorse di quel che stava crescendo nell'orto della sua «arte disumanizzata», gli sembrava semplicemente una buffoneria sofisticata, remota dal pubblico popolare, un gioco aristocratico intraducibile, non riuscì a prevedere quell’«appetito di solennità» per cui vieppiù gli installatori e provocatori, i comici del contemporaneo, tengono tanto alla fatale parola: «arte». D’altronde è ormai soltanto una simile parola che permette la trasmutazione di una merce qualsiasi in un oggetto estetico di grande prezzo, per il godimento delle masse che si piegano devote di fronte a un misterioso feticcio che produce magicamente soldi dal nulla. E nella celebrazione enfatica della giovinezza il saggista spagnolo tralasciava l’affermazione della «emotività adolescenziale» che a lungo andare diventa cliché stucchevole e insopportabile (ragione in più del ridicolo che suscitano le persone mature chine su tali giocattoli).
Il timore della consonanza in Schönberg, il gusto iconoclastico nelle arti figurative, la ossessione per il dettaglio: questo lo spettacolo di un’arte che ha rinunciato ai suoi «compiti vitali». A furia di cercare l’assoluto, a scapito della visione sensuale che loda il mondo empirico, accade, alla maniera dell’uomo che volle farsi angelo di Pascal, che ci si ritrovi nella prosaicità più meschina. Invece, come ricorda Paolucci nel catalogo della mostra appena aperta a Forlì sul suo maestro di angeli, «la Bellezza che incarna l’idea ha da essere assoluta e allo stesso tempo naturale: così pensava Melozzo. La bellezza abita l’empireo dei supremi Veri e tuttavia è calata nella storia, è riconoscibile nelle donne e negli uomini che vivono sotto il cielo». Baudelaire avrebbe concordato «il bello è fatto di un elemento eterno, invariabile […], e da un elemento relativo, legato alle circostanze, e che sarà, se si vuole, di volta in volta o contemporaneamente, l’epoca, la moda, la morale, la passione. Senza questo secondo elemento che è come […] l’aperitivo del dolce divino, il primo elemento risulterebbe indigeribile […], inappropriato alla natura umana». Prezioso equilibrio tra «esperienza reale ed esperienza vicaria» che i mistici dell’arte, i sacerdoti della nuova religione estetica (ma anche, dall’altra parte, i teorici dell’engagement) hanno distrutto.
Un altro pericolo della cultura che i suoi cantori ignorano o dimenticano. Ma se il male estetico attuale non è il frutto del complotto di eccentrici e scellerati, si tratta di una faccenda «più profonda di qualsiasi capriccio individuale». Di conseguenza non la si può rendere reversibile con una semplice decisione. Se vogliamo che l’arte torni a una funzione più centrale nella nostra vita – conclude Wind – bisogna anzitutto che la nostra vita cambi».
(2. – continua)
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