~ RILEGGENDO WIND. ~ QUARTA E ULTIMA
PUNTATA: LA MECCANIZZAZIONE DELL’ARTE ~
Come neutralizzare gli «effetti conturbanti dell’arte»? Seguendo per tre puntate Edgar Wind nella sua raccolta di saggi Arte e anarchia (Adelphi) abbiamo visto anzitutto i pericoli che l’arte comportava quando era al centro della civiltà occidentale, quindi i più recenti fenomeni che l’hanno resa innocua: l’art pour l’art e il culto del frammento, il feticismo della forma e il feticismo del dettaglio, la cultura fatta a pezzi, il paesaggio di macerie, l’Apocalisse senza figure. In questo ultimo sguardo al garbato discorso dello studioso tedesco sfioreremo la «meccanizzazione dell’arte». Boccioni la invocava con l’entusiasmo dei futuristi per ogni dono della modernità e ne ordinava il culto agli adepti della sua setta: «L’uomo si evolva verso la macchina!». Le Corbusier, quando già se ne vedevano bene gli effetti, si eccitava in modo ridicolo: «L’uomo (quello che crea la macchina) agisce come un dio, ossia nella perfezione». Wind non si occupa delle nuove fedi, il suo libro non è un’invettiva contro la modernità, registra semplicemente come talvolta la macchina appiattisca l’arte. Scorge addirittura «un’inquietante affinità tra l’“arte pura” e le esigenze della meccanizzazione», dal momento che le ‘forme pure’ «sono più facili da meccanizzare».
Le macchine hanno semplificato talmente l’arte che gli artisti si son dovuti inventare degli ostacoli, infliggersi delle difficoltà penitenziali, autocostringersi in limiti artificiali per sostituire quelli tradizionali annullati dalla tecnologia (ma pure, va detto, per la libertà assoluta, senza più il pungolo di geniali committenti). Naturalmente è storia antica, già Federico da Montefeltro, per esempio, non riusciva a leggere un libro a stampa, gli sembrava una dissacrazione, mentre i primi libri stampati cercavano disperatamente di assomigliare ai manoscritti e talvolta vi si aggiungeva una colorazione a mano per rendere le iniziali più vicine alle miniature: di fronte a questi nuovi prodotti che si offrivano come surrogati, il duca di Urbino subdorava un intento truffaldino. Nell’ultimo secolo comunque gli interventi delle macchine si moltiplicarono all’infinito, la tecnologia offrì tutti i servizi agli artisti e rese l’arte una faccenda banale. La prima a gettare nel caos le tecniche della rappresentazione fu la fotografia: sconvolse la pittura eppure per tutto l’Ottocento si presentò come una pittura meccanica, una pittura degradata. Fu poi la volta del cinema, teatro degradato, successivamente della televisione, cinema degradato, e così via nel circolo vizioso della generale degradazione, mentre proliferava l’imitazione dell’antico, lo pseudo-antico, la contraffazione universale. Alcuni cineasti del secolo scorso dipingevano a mano la pellicola, la coloravano in maniera antinaturalistica, per negarne la meccanicità, gli ingegneri degli apparecchi stereo pretendevano riprodurre con l’‘alta fedeltà’ la sala da concerto e John Cage combatteva la macchina introducendo il caso nello sviluppo dei suoni… È la storia della cultura dei Cinquanta e Sessanta, prima cioè di finire nella accettazione del bluff come unico orizzonte del Contemporaneo. In quegli anni ancora si restava turbati dall’ingresso delle macchine sulla scena culturale e si provava a misurarsi con esse. Wind, che scrive in quell’epoca, sottopone le sue riserve in proposito.
Parlando della musica riprodotta, nota che l’incisione su disco sviluppa «uno stile suo proprio». E spiega: «certe rilevanti idiosincrasie del fraseggio, per esempio, che possono sbalordire e fare impressione nella sala da concerto, irritano invece se si ascoltano spesso. Di conseguenza, la registrazione tende a eliminarle, mirando a ottenere una rifinitura tecnica tale da permettere l’ascolto continuo e ripetuto». Soltanto una sottolineatura dei mutamenti nascosti, della percezione addomesticata e quindi della edulcorazione dell’arte. La uniformità meccanica addestra l’orecchio come l’occhio. Il compositore ha cominciato a puntare «a uno stile di esecuzione musicale adatto al montage e alla esecuzione stereofonica; così come il linguaggio meccanizzato del cinematografo ha avuto un’influenza decisiva su certi stili di letteratura teatrale e di recitazione, subordinando la gamma dell’espressione umana alle possibilità dello schermo». Discorsi di altri tempi, cui non siamo più abituati, nonostante il sistema si sia ben rafforzato e faccia incrociare generi e discipline a maggiore gloria del mercato (romanzi scritti con un occhio già al soggetto cinematografico, film ideati per essere suddivisi nelle serate televisive: sono trovate assai note), ma non ci si scandalizza più, proprio perché, direbbe Wind, la cultura non provoca ormai alcun scandalo.
Wind getta uno sguardo anche alle arti minori, gli rubiamo una bella osservazione: «I coltelli, le forchette e i cucchiai aerodinamici non possono non disturbare l’atto del mangiare, dal momento che ce ne rendono inutilmente consapevoli». Ce ne accorgiamo ancora o proviamo un confuso fastidio senza capire il perché?
Ma è nella pittura (in quel tempo si chiamava ancora così) che appare più evidente il marchio della riproducibilità: «che il nostro modo di vedere l’arte abbia subito un mutamento provocato dalla riproduzione, è ovvio. I nostri occhi sono oggi molto più pronti a cogliere qugli aspetti della pittura e della scultura che con maggiore efficacia la macchina fotografica riesce a mettere in evidenza». Jean Clair aggiungerà, decenni dopo, che la riproduzione fotografica esclude proprio quanto c’è di ‘artistico’ in un quadro, mentre ogni gesto idiota della body art, una volta riprodotto nella foto, viene enfatizzato, diventa icona, come nella reclamistica della pop art. Questa era la vera «perdita dell’aura» che inorgogliva le avanguardie. Mai mettendo in luce, però, che si stava sviluppando – come scrive Wind – «un’immaginazione pittorica e scultorica decisamente tesa verso la fotografia», una sua appendice fumosa, con il risultato di raggiungere una «indiretta compiutezza» solo attraverso la riproduzione meccanica. L’odierno Google Art Project, per cui i direttori dei massimi musei parlano innocentemente di possibilità di «vedere» online i quadri che essi conservano, come se si trattasse davvero di una «visione» davanti allo schermo che informa coi pixel, è il coronamento di un tale svuotamento culturale. L’arte non ha più una casa, un tempio, si diffonde nel profano e, dopo il passaggio nel museo cartaceo di Malraux, entra nel museo virtuale, diventa compiutamente profana (e del tutto inutile). Ciononostante, negli ultimi decenni, coloro che si fregiano del nome di artisti, hanno lavorato quasi esclusivamente per esporre i loro prodotti in un qualche museo, opere nate morte per essere subito seppellite.
Anche l’antico viene visto ormai attraverso il filtro delle nostre macchine. Ecco l’ingegner Viollet-le-Duc che credeva di far risorgere con la tecnologia l’arte medioevale delle cattedrali dando invece vita al «gotico ottocentesco». Le metodologie attuali intorno al restauro, casuistiche e variabili a seconda delle stagioni filosofiche, non impediscono al nostro presente di imporre il suo segno sulla ripulitura dell’arte, falsificandola quindi un poco. «L’idea che un dipinto del Quattrocento, per fare un esempio, possa essere riportato con sicurezza scientifica al suo pristino stato, come se cinquecento anni di esistenza non avessero lasciato su di esso traccia alcuna, è naturalmente un assurdo, sia dal punto di vista chimico, sia dal punto di vista storico». Proprio come la traduzione ha impressa la sua data o su un disco si sente il fruscio dell’epoca, anche la ripulitura sarà caratterizzata dalla sua «ombra storica». E dal momento che, come si accorse Jünger negli anni Trenta, il paesaggio moderno è continuamente in restauro, appunto grazie alla tecnologia in perenne aggiornamento, la falsificazione del passato si intensifica.
«Bisogna scoraggiare le belle arti» andava dicendo Degas, preoccupato della brutta piega che le questioni culturali stavano prendendo. Adesso i missionari della cultura la propongono come rimedio ai mali del mondo, senza rendersi più neanche conto di come spesso essa sia lo specchio suggestivo di quel male.
(4. - fine)
PUNTATA: LA MECCANIZZAZIONE DELL’ARTE ~
Come neutralizzare gli «effetti conturbanti dell’arte»? Seguendo per tre puntate Edgar Wind nella sua raccolta di saggi Arte e anarchia (Adelphi) abbiamo visto anzitutto i pericoli che l’arte comportava quando era al centro della civiltà occidentale, quindi i più recenti fenomeni che l’hanno resa innocua: l’art pour l’art e il culto del frammento, il feticismo della forma e il feticismo del dettaglio, la cultura fatta a pezzi, il paesaggio di macerie, l’Apocalisse senza figure. In questo ultimo sguardo al garbato discorso dello studioso tedesco sfioreremo la «meccanizzazione dell’arte». Boccioni la invocava con l’entusiasmo dei futuristi per ogni dono della modernità e ne ordinava il culto agli adepti della sua setta: «L’uomo si evolva verso la macchina!». Le Corbusier, quando già se ne vedevano bene gli effetti, si eccitava in modo ridicolo: «L’uomo (quello che crea la macchina) agisce come un dio, ossia nella perfezione». Wind non si occupa delle nuove fedi, il suo libro non è un’invettiva contro la modernità, registra semplicemente come talvolta la macchina appiattisca l’arte. Scorge addirittura «un’inquietante affinità tra l’“arte pura” e le esigenze della meccanizzazione», dal momento che le ‘forme pure’ «sono più facili da meccanizzare».
Le macchine hanno semplificato talmente l’arte che gli artisti si son dovuti inventare degli ostacoli, infliggersi delle difficoltà penitenziali, autocostringersi in limiti artificiali per sostituire quelli tradizionali annullati dalla tecnologia (ma pure, va detto, per la libertà assoluta, senza più il pungolo di geniali committenti). Naturalmente è storia antica, già Federico da Montefeltro, per esempio, non riusciva a leggere un libro a stampa, gli sembrava una dissacrazione, mentre i primi libri stampati cercavano disperatamente di assomigliare ai manoscritti e talvolta vi si aggiungeva una colorazione a mano per rendere le iniziali più vicine alle miniature: di fronte a questi nuovi prodotti che si offrivano come surrogati, il duca di Urbino subdorava un intento truffaldino. Nell’ultimo secolo comunque gli interventi delle macchine si moltiplicarono all’infinito, la tecnologia offrì tutti i servizi agli artisti e rese l’arte una faccenda banale. La prima a gettare nel caos le tecniche della rappresentazione fu la fotografia: sconvolse la pittura eppure per tutto l’Ottocento si presentò come una pittura meccanica, una pittura degradata. Fu poi la volta del cinema, teatro degradato, successivamente della televisione, cinema degradato, e così via nel circolo vizioso della generale degradazione, mentre proliferava l’imitazione dell’antico, lo pseudo-antico, la contraffazione universale. Alcuni cineasti del secolo scorso dipingevano a mano la pellicola, la coloravano in maniera antinaturalistica, per negarne la meccanicità, gli ingegneri degli apparecchi stereo pretendevano riprodurre con l’‘alta fedeltà’ la sala da concerto e John Cage combatteva la macchina introducendo il caso nello sviluppo dei suoni… È la storia della cultura dei Cinquanta e Sessanta, prima cioè di finire nella accettazione del bluff come unico orizzonte del Contemporaneo. In quegli anni ancora si restava turbati dall’ingresso delle macchine sulla scena culturale e si provava a misurarsi con esse. Wind, che scrive in quell’epoca, sottopone le sue riserve in proposito.
Parlando della musica riprodotta, nota che l’incisione su disco sviluppa «uno stile suo proprio». E spiega: «certe rilevanti idiosincrasie del fraseggio, per esempio, che possono sbalordire e fare impressione nella sala da concerto, irritano invece se si ascoltano spesso. Di conseguenza, la registrazione tende a eliminarle, mirando a ottenere una rifinitura tecnica tale da permettere l’ascolto continuo e ripetuto». Soltanto una sottolineatura dei mutamenti nascosti, della percezione addomesticata e quindi della edulcorazione dell’arte. La uniformità meccanica addestra l’orecchio come l’occhio. Il compositore ha cominciato a puntare «a uno stile di esecuzione musicale adatto al montage e alla esecuzione stereofonica; così come il linguaggio meccanizzato del cinematografo ha avuto un’influenza decisiva su certi stili di letteratura teatrale e di recitazione, subordinando la gamma dell’espressione umana alle possibilità dello schermo». Discorsi di altri tempi, cui non siamo più abituati, nonostante il sistema si sia ben rafforzato e faccia incrociare generi e discipline a maggiore gloria del mercato (romanzi scritti con un occhio già al soggetto cinematografico, film ideati per essere suddivisi nelle serate televisive: sono trovate assai note), ma non ci si scandalizza più, proprio perché, direbbe Wind, la cultura non provoca ormai alcun scandalo.
Wind getta uno sguardo anche alle arti minori, gli rubiamo una bella osservazione: «I coltelli, le forchette e i cucchiai aerodinamici non possono non disturbare l’atto del mangiare, dal momento che ce ne rendono inutilmente consapevoli». Ce ne accorgiamo ancora o proviamo un confuso fastidio senza capire il perché?
Ma è nella pittura (in quel tempo si chiamava ancora così) che appare più evidente il marchio della riproducibilità: «che il nostro modo di vedere l’arte abbia subito un mutamento provocato dalla riproduzione, è ovvio. I nostri occhi sono oggi molto più pronti a cogliere qugli aspetti della pittura e della scultura che con maggiore efficacia la macchina fotografica riesce a mettere in evidenza». Jean Clair aggiungerà, decenni dopo, che la riproduzione fotografica esclude proprio quanto c’è di ‘artistico’ in un quadro, mentre ogni gesto idiota della body art, una volta riprodotto nella foto, viene enfatizzato, diventa icona, come nella reclamistica della pop art. Questa era la vera «perdita dell’aura» che inorgogliva le avanguardie. Mai mettendo in luce, però, che si stava sviluppando – come scrive Wind – «un’immaginazione pittorica e scultorica decisamente tesa verso la fotografia», una sua appendice fumosa, con il risultato di raggiungere una «indiretta compiutezza» solo attraverso la riproduzione meccanica. L’odierno Google Art Project, per cui i direttori dei massimi musei parlano innocentemente di possibilità di «vedere» online i quadri che essi conservano, come se si trattasse davvero di una «visione» davanti allo schermo che informa coi pixel, è il coronamento di un tale svuotamento culturale. L’arte non ha più una casa, un tempio, si diffonde nel profano e, dopo il passaggio nel museo cartaceo di Malraux, entra nel museo virtuale, diventa compiutamente profana (e del tutto inutile). Ciononostante, negli ultimi decenni, coloro che si fregiano del nome di artisti, hanno lavorato quasi esclusivamente per esporre i loro prodotti in un qualche museo, opere nate morte per essere subito seppellite.
Anche l’antico viene visto ormai attraverso il filtro delle nostre macchine. Ecco l’ingegner Viollet-le-Duc che credeva di far risorgere con la tecnologia l’arte medioevale delle cattedrali dando invece vita al «gotico ottocentesco». Le metodologie attuali intorno al restauro, casuistiche e variabili a seconda delle stagioni filosofiche, non impediscono al nostro presente di imporre il suo segno sulla ripulitura dell’arte, falsificandola quindi un poco. «L’idea che un dipinto del Quattrocento, per fare un esempio, possa essere riportato con sicurezza scientifica al suo pristino stato, come se cinquecento anni di esistenza non avessero lasciato su di esso traccia alcuna, è naturalmente un assurdo, sia dal punto di vista chimico, sia dal punto di vista storico». Proprio come la traduzione ha impressa la sua data o su un disco si sente il fruscio dell’epoca, anche la ripulitura sarà caratterizzata dalla sua «ombra storica». E dal momento che, come si accorse Jünger negli anni Trenta, il paesaggio moderno è continuamente in restauro, appunto grazie alla tecnologia in perenne aggiornamento, la falsificazione del passato si intensifica.
«Bisogna scoraggiare le belle arti» andava dicendo Degas, preoccupato della brutta piega che le questioni culturali stavano prendendo. Adesso i missionari della cultura la propongono come rimedio ai mali del mondo, senza rendersi più neanche conto di come spesso essa sia lo specchio suggestivo di quel male.
(4. - fine)
Nessun commento:
Posta un commento