~ L’ITALICA INCOMPATIBILITÀ CON LE SÈTTE MORALISTICHE ~
Se un guitto sale sul palco per recitare la parte di un maestro, i giornali lo acclamano come un autentico docente e convincono il pubblico che la cultura dei comici sia l’unica ormai all’orizzonte. Anche se la lectio ad usum plebis ricorda pateticamente l’addestramento dei balilla nel ventennio fascista, con ossessivo odio dello «straniero» e miserabile esaltazione della patria che fa diventare vanto «italiano» gli imperatori romani. Con baldanza squadristica si riduce il «mistero italiano» disegnato dalla Provvidenza a un episodio nazionalistico dell’Ottocento, a una vicenda balcanica. E il medesimo lessico sciatto e ripetitivo che serviva a ingannare le platee su Dante viene trasposto per elogiare il paroliere di un inno assai infelice; nel frattempo il contadino che stroppia i versi danteschi ha preso un contegno da arrogante professorino. Perfino un gioco innocente come il vecchio festival delle canzonette, che anche Giorgio de Chirico raccontava nelle sue Memorie di seguire divertito, diventa la passerella dei tristi figuri del moralismo, ossia di quanto c’è di più alieno nella italica identità. La Commedia dell’Arte dimentica le sue maschere e introduce pallidi e sdegnati puritani. Ma uno dei migliori elogi che il falso maestro avrebbe potuto rivolgere al suo paese è proprio la nostra incompatibilità con il puritanesimo. Va detta e ripetuta questa caratteristica, mentre una feroce campagna cultural-politica cerca di cancellare millenni di storia e, per partigianeria irriducibile, assimilarci forzatamente ad altri popoli, ad altri mondi.
Savonarola, che semmai anticipò di molto i fenomeni quaresimali del Cinquecento protestante, dovette lottare anima e corpo per farsi accettare con la sua pronuncia emiliana dall’orecchio elegante dei fiorentini, imperando da quelle parti un antico senso estetico che non faceva sconti ai predicatori biblici. Quindi anche per innato spirito fazioso delle nostre genti conquistò popolo, filosofi ed artisti, portandoli a quel falò delle vanità dove bruciarono i tesori dell’Umanesimo. Fin da allora infatti l’estremismo moraleggiante, l’eresia profetizzante, si poneva contro i più straordinari frutti della italica civiltà, quella aurea stagione che poi prese il nome di Rinascimento, la migliore arte della storia che ben convisse con il cristianesimo romano.
Il puritanesimo vero, invece, scaturito dal calvinismo in terra britannica, nacque in spregio a Roma, proprio per gli scrupoli sugli «usi romani» rimasti nel nuovo sistema liturgico anglicano. Purificare la Chiesa e la società da ogni macchia ‘papista’, dall’«orribile meretrice» romana, fu l’intento del puritanesimo. Gli abiti liturgici in primis, «i cenci dell’anticristo romano», dovevano essere rifiutati. Partendo da questa avversione verso Roma, la «affettività antiromana» di cui si accorse Carl Schmitt, il puritanesimo avrebbe influito sul modo di pensare, sui costumi, sulla politica, sul teatro, sul comportamento, sul vestire. Abiti neri, teste rasate o comunque coi capelli mozzati: non bastava il sacerdozio universale, si tentava anche un monachesimo universale, e siccome tutti possono diventare santi ma non tutti gli umani sono portati a una vita ascetica, si dovette imporre, con la peggiore tirannia, le regole più severe, svuotare il mondo delle sue meraviglie, abolire lo sfarzo, la bellezza, il piacere. Giochi, danze, divertimenti furono esclusi dalla vita cristiana. Si arrivò a chiudere tutti i teatri. Una civiltà mortifera. Bibbia e lavoro, una vita borghese per accumulare denaro. Sempre con l’incubo di essere tra i reprobi, con il terrore del Giudizio Universale che tormentava l’infanzia di John Bunyan, sottoposti a un perenne processo, a una inquisizione metafisica senza tregua. Del resto alla Chiesa protestante, assembleare, era attribuita un’ampia giurisdizione sul comportamento morale dei privati, l’invidia e la rivalità devono avere eccitato terribilmente gli animi.
Si imponeva anche una uguaglianza radicale ma dividendo l’umanità in due rigidissime classi: da una parte i puritani, i migliori, gli eletti; dall’altra gli infedeli, i corrotti, i dannati. Fuori dal mondo puritano, fuori dal proprio mondo non c’era che perversione, e ai perversi andava riservato soltanto odio. I migliori padri di famiglia, i più amorevoli, si trasformarono nei peggiori aguzzini degli avversari. Un modello per i totalitarismi dell'avvenire.
Se un guitto sale sul palco per recitare la parte di un maestro, i giornali lo acclamano come un autentico docente e convincono il pubblico che la cultura dei comici sia l’unica ormai all’orizzonte. Anche se la lectio ad usum plebis ricorda pateticamente l’addestramento dei balilla nel ventennio fascista, con ossessivo odio dello «straniero» e miserabile esaltazione della patria che fa diventare vanto «italiano» gli imperatori romani. Con baldanza squadristica si riduce il «mistero italiano» disegnato dalla Provvidenza a un episodio nazionalistico dell’Ottocento, a una vicenda balcanica. E il medesimo lessico sciatto e ripetitivo che serviva a ingannare le platee su Dante viene trasposto per elogiare il paroliere di un inno assai infelice; nel frattempo il contadino che stroppia i versi danteschi ha preso un contegno da arrogante professorino. Perfino un gioco innocente come il vecchio festival delle canzonette, che anche Giorgio de Chirico raccontava nelle sue Memorie di seguire divertito, diventa la passerella dei tristi figuri del moralismo, ossia di quanto c’è di più alieno nella italica identità. La Commedia dell’Arte dimentica le sue maschere e introduce pallidi e sdegnati puritani. Ma uno dei migliori elogi che il falso maestro avrebbe potuto rivolgere al suo paese è proprio la nostra incompatibilità con il puritanesimo. Va detta e ripetuta questa caratteristica, mentre una feroce campagna cultural-politica cerca di cancellare millenni di storia e, per partigianeria irriducibile, assimilarci forzatamente ad altri popoli, ad altri mondi.
Savonarola, che semmai anticipò di molto i fenomeni quaresimali del Cinquecento protestante, dovette lottare anima e corpo per farsi accettare con la sua pronuncia emiliana dall’orecchio elegante dei fiorentini, imperando da quelle parti un antico senso estetico che non faceva sconti ai predicatori biblici. Quindi anche per innato spirito fazioso delle nostre genti conquistò popolo, filosofi ed artisti, portandoli a quel falò delle vanità dove bruciarono i tesori dell’Umanesimo. Fin da allora infatti l’estremismo moraleggiante, l’eresia profetizzante, si poneva contro i più straordinari frutti della italica civiltà, quella aurea stagione che poi prese il nome di Rinascimento, la migliore arte della storia che ben convisse con il cristianesimo romano.
Il puritanesimo vero, invece, scaturito dal calvinismo in terra britannica, nacque in spregio a Roma, proprio per gli scrupoli sugli «usi romani» rimasti nel nuovo sistema liturgico anglicano. Purificare la Chiesa e la società da ogni macchia ‘papista’, dall’«orribile meretrice» romana, fu l’intento del puritanesimo. Gli abiti liturgici in primis, «i cenci dell’anticristo romano», dovevano essere rifiutati. Partendo da questa avversione verso Roma, la «affettività antiromana» di cui si accorse Carl Schmitt, il puritanesimo avrebbe influito sul modo di pensare, sui costumi, sulla politica, sul teatro, sul comportamento, sul vestire. Abiti neri, teste rasate o comunque coi capelli mozzati: non bastava il sacerdozio universale, si tentava anche un monachesimo universale, e siccome tutti possono diventare santi ma non tutti gli umani sono portati a una vita ascetica, si dovette imporre, con la peggiore tirannia, le regole più severe, svuotare il mondo delle sue meraviglie, abolire lo sfarzo, la bellezza, il piacere. Giochi, danze, divertimenti furono esclusi dalla vita cristiana. Si arrivò a chiudere tutti i teatri. Una civiltà mortifera. Bibbia e lavoro, una vita borghese per accumulare denaro. Sempre con l’incubo di essere tra i reprobi, con il terrore del Giudizio Universale che tormentava l’infanzia di John Bunyan, sottoposti a un perenne processo, a una inquisizione metafisica senza tregua. Del resto alla Chiesa protestante, assembleare, era attribuita un’ampia giurisdizione sul comportamento morale dei privati, l’invidia e la rivalità devono avere eccitato terribilmente gli animi.
Si imponeva anche una uguaglianza radicale ma dividendo l’umanità in due rigidissime classi: da una parte i puritani, i migliori, gli eletti; dall’altra gli infedeli, i corrotti, i dannati. Fuori dal mondo puritano, fuori dal proprio mondo non c’era che perversione, e ai perversi andava riservato soltanto odio. I migliori padri di famiglia, i più amorevoli, si trasformarono nei peggiori aguzzini degli avversari. Un modello per i totalitarismi dell'avvenire.
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Il comportamenti della militanza moralistica si ripetono nei secoli: idolatria della legge (biblica) scritta, farisaica, della lettera; rigetto dell’interpretazione, della sapienza scaturita dai secoli, che solo i «corrotti papisti» potevano osare di mettere accanto alla Verità scritturale; improvvisazione mistica della gente del popolo, degli autoproclamatisi profeti che si ritrovano su un pulpito senza alcuna preparazione, alcuna cultura, laddove il sacerdote cattolico è formato anzitutto nel diritto canonico; un fragoroso agitare i princìpi per poi comportarsi con grande spregiudicatezza pur di far fuori l’avversario («Parigi val bene una messa» è d’altronde una conclusione protestante, e i puritani furiosamente anti-episcopali accettavano la carica vescovile da Elisabetta onde evitare che finisse in mani cattoliche); mancanza di sorriso.
Così nella battaglia puritana la musica d’organo e le immagini furono eliminate dalla liturgia; secoli dopo Friedrich Schiller, il protestante Schiller, fa dire a un suo personaggio nella Maria Stuarda queste battute troppo dimenticate dal mondo latino:«Avevo vent’anni, regina, ed ero stato educato nella rigida osservanza del dovere, ed avevo assorbito col latte della nutrice un odio senza limiti per il papato, quando un desiderio impetuoso mi attrasse verso il Continente. Lasciai le umili stanze dove predicano i puritani, abbandonai la patria, e percorsi a volo d’uccello la Francia. Desideravo ardentemente giungere in Italia, di cui avevo sentito tanto parlare. Era l’epoca del Grande Giubileo, le vie erano affollate di pellegrini, le immagini sacre erano cinte di fiori, e si aveva l’impressione che tutta l’umanità avesse iniziato un mistico pellegrinaggio in direzione del Cielo. Io stesso rimasi coinvolto nella folla dei fedeli che mi trascinò fino a Roma. Cosa non provai allora, regina, quando vidi innalzarsi davanti ai miei occhi nel loro fulgore le colonne e gli archi di trionfo, quando la sublime maestà del Colosseo abbagliò il mio sguardo, e il meraviglioso spirito dell’arte mi svelò i suoi incanti e i suoi prodigi! Non conoscevo il potere ammaliatore dell’arte. La Chiesa riformata che mi aveva educato detesta l’allettamento dei sensi e rifiuta le immagini, tributando onore alla nuda parola priva dell’involucro del corpo. Cosa non sentii in seguito, una volta penetrato dentro le chiese, quando dal cielo scese ad avvolgermi l’onda divina della musica, quando una schiera tumultuosa di immagini si staccò veemente e prodiga dai muri e dal soffitto e di fronte ai miei sensi sopraffatti dall’estasi io vidi fremere ed agitarsi ciò che di più sublime e nobile esiste sulla terra! Quando ammirai i simboli e le immagini del Divino, il saluto dell’angelo, la nascita di Nostro Signore, la Madre di Dio, la Trinità scesa in terra, la Trasfigurazione che ardeva del suo stesso fulgore, e il Papa nella sua magnificenza cantare la messa solenne e benedire le folle! Paragonato a questo, cos’è lo splendore dell’oro e delle pietre preziose di cui si addobbano i sovrani della terra? Solo lui è cinto dall’aureola divina. Il Cielo, regno della verità, è la sua dimora, perché quei simboli e quelle visioni non appartengono a questo mondo».
La dolce vita romana, che scatenava turbamenti nei pensieri dei puritani, non era soltanto peccato, si ebbe anzi una dolce vita nella Controriforma, una dolce vita cattolica, un cristianesimo equilibrato che sottolineava come il prodigio dell’incarnazione fosse avvenuto nel mondo terreno, nel mondo dei sensi. Il teatro musicale dell’oratorio, l’architettura barocca, la scultura e la pittura somme di quel periodo sono qui a testimoniarlo. Certo, anche nella penisola cattolica ci furono brevi ondate di braghettonismo, di personali tormenti, di tendenze ascetiche, ma basterebbe riflettere su quella Galleria farnesiana dei Carracci – aperta al pubblico in questi giorni –, sulla donna discinta scolpita ai piedi di Paolo III in San Pietro (e che stupì Montaigne nel suo viaggio in Italia), sui corpi trionfanti che riempiono i Palazzi Apostolici (non c’è museo al mondo con più nudi, dice il direttore dei Musei Vaticani) per capire che nella nostra tradizione si affermò un cristianesimo ben diverso dal fanatismo spettrale degli spiritualisti. Nel mondo cattolico, la Maddalena – che per un errore di interpretazione fu confusa con la prostituta di cui parla il Vangelo – diventava una santa a cui ricorrere per i peccati della carne, una santa che scultori e pittori rappresentavano nella sua fisicità seducente, appena velata da lunghi capelli, e che il clero poneva sugli altari. Nella città santa invasa dalle cortigiane, come si chiamavano a quel tempo, veniva dannato il peccato, non le peccatrici.
Il comportamenti della militanza moralistica si ripetono nei secoli: idolatria della legge (biblica) scritta, farisaica, della lettera; rigetto dell’interpretazione, della sapienza scaturita dai secoli, che solo i «corrotti papisti» potevano osare di mettere accanto alla Verità scritturale; improvvisazione mistica della gente del popolo, degli autoproclamatisi profeti che si ritrovano su un pulpito senza alcuna preparazione, alcuna cultura, laddove il sacerdote cattolico è formato anzitutto nel diritto canonico; un fragoroso agitare i princìpi per poi comportarsi con grande spregiudicatezza pur di far fuori l’avversario («Parigi val bene una messa» è d’altronde una conclusione protestante, e i puritani furiosamente anti-episcopali accettavano la carica vescovile da Elisabetta onde evitare che finisse in mani cattoliche); mancanza di sorriso.
Così nella battaglia puritana la musica d’organo e le immagini furono eliminate dalla liturgia; secoli dopo Friedrich Schiller, il protestante Schiller, fa dire a un suo personaggio nella Maria Stuarda queste battute troppo dimenticate dal mondo latino:«Avevo vent’anni, regina, ed ero stato educato nella rigida osservanza del dovere, ed avevo assorbito col latte della nutrice un odio senza limiti per il papato, quando un desiderio impetuoso mi attrasse verso il Continente. Lasciai le umili stanze dove predicano i puritani, abbandonai la patria, e percorsi a volo d’uccello la Francia. Desideravo ardentemente giungere in Italia, di cui avevo sentito tanto parlare. Era l’epoca del Grande Giubileo, le vie erano affollate di pellegrini, le immagini sacre erano cinte di fiori, e si aveva l’impressione che tutta l’umanità avesse iniziato un mistico pellegrinaggio in direzione del Cielo. Io stesso rimasi coinvolto nella folla dei fedeli che mi trascinò fino a Roma. Cosa non provai allora, regina, quando vidi innalzarsi davanti ai miei occhi nel loro fulgore le colonne e gli archi di trionfo, quando la sublime maestà del Colosseo abbagliò il mio sguardo, e il meraviglioso spirito dell’arte mi svelò i suoi incanti e i suoi prodigi! Non conoscevo il potere ammaliatore dell’arte. La Chiesa riformata che mi aveva educato detesta l’allettamento dei sensi e rifiuta le immagini, tributando onore alla nuda parola priva dell’involucro del corpo. Cosa non sentii in seguito, una volta penetrato dentro le chiese, quando dal cielo scese ad avvolgermi l’onda divina della musica, quando una schiera tumultuosa di immagini si staccò veemente e prodiga dai muri e dal soffitto e di fronte ai miei sensi sopraffatti dall’estasi io vidi fremere ed agitarsi ciò che di più sublime e nobile esiste sulla terra! Quando ammirai i simboli e le immagini del Divino, il saluto dell’angelo, la nascita di Nostro Signore, la Madre di Dio, la Trinità scesa in terra, la Trasfigurazione che ardeva del suo stesso fulgore, e il Papa nella sua magnificenza cantare la messa solenne e benedire le folle! Paragonato a questo, cos’è lo splendore dell’oro e delle pietre preziose di cui si addobbano i sovrani della terra? Solo lui è cinto dall’aureola divina. Il Cielo, regno della verità, è la sua dimora, perché quei simboli e quelle visioni non appartengono a questo mondo».
La dolce vita romana, che scatenava turbamenti nei pensieri dei puritani, non era soltanto peccato, si ebbe anzi una dolce vita nella Controriforma, una dolce vita cattolica, un cristianesimo equilibrato che sottolineava come il prodigio dell’incarnazione fosse avvenuto nel mondo terreno, nel mondo dei sensi. Il teatro musicale dell’oratorio, l’architettura barocca, la scultura e la pittura somme di quel periodo sono qui a testimoniarlo. Certo, anche nella penisola cattolica ci furono brevi ondate di braghettonismo, di personali tormenti, di tendenze ascetiche, ma basterebbe riflettere su quella Galleria farnesiana dei Carracci – aperta al pubblico in questi giorni –, sulla donna discinta scolpita ai piedi di Paolo III in San Pietro (e che stupì Montaigne nel suo viaggio in Italia), sui corpi trionfanti che riempiono i Palazzi Apostolici (non c’è museo al mondo con più nudi, dice il direttore dei Musei Vaticani) per capire che nella nostra tradizione si affermò un cristianesimo ben diverso dal fanatismo spettrale degli spiritualisti. Nel mondo cattolico, la Maddalena – che per un errore di interpretazione fu confusa con la prostituta di cui parla il Vangelo – diventava una santa a cui ricorrere per i peccati della carne, una santa che scultori e pittori rappresentavano nella sua fisicità seducente, appena velata da lunghi capelli, e che il clero poneva sugli altari. Nella città santa invasa dalle cortigiane, come si chiamavano a quel tempo, veniva dannato il peccato, non le peccatrici.
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