~ DUE O TRE COSE SULLA SATIRA
NELL’EPOCA DELLA SUA INVADENZA ~
«– Domani all’alba ho un impegno al Quirinale – .
Di che natura? – Non sai? Ho un amico
Che piglia per marito un amico.
Cerimonia per pochi intimi – .
Viviamo ancora un poco: vedremo
Fare in pubblico queste cose.
E messe agli atti anche».
Il poeta nelle previsioni sdegnate si ingannò: trascorsero almeno mille e novecento anni circa da questa scenetta schizzata da Giovenale nella II Satira (qui nella traduzione di Ceronetti, per l’Einaudi, che risale al 1971) e non si misero agli atti matrimoni simbolici di tal fatta. Forse l’avvento del cristianesimo, di lì a poco, rovesciò la climax delle stravaganze promosse da un desiderio senza più freni. O si prese a guardare al corpo e all’eros in modo meno futile, lasciando da parte il tono parodistico della pratica cui la satira allude e trovando nel freno una nuova beatitudine. In ogni caso il traduttore avverte: «il classico è farmaco: inchioda alla vanità i giudizi sul presente». La assonanza con le nostre discussioni le svuota infatti del loro carico ‘innovativo’, della sensazione inebriante d’essere all’estremo della storia, e le riconduce alla instancabile ripetibilità dell’agire umano, copie più o meno riuscite, un d’après spesso dimentico dell’originale, un po’ vano appunto. Ma anche i moralisti classici possono ingannare, dal momento che il gioco della satira consiste nel contrapporre la corruzione moderna all’aureo mondo d’antan, alla laudatio temporis acti. I moralisti d’ogni secolo si sono aggrappati a questi versi latini per giustificare le proprie argomentazioni atrabiliari, il rimpianto rabbioso, avessero però la forma stilistica di Giovenale: a lui riuscì di trasformare il fiele in miele, secondo la formula del suo traduttore moderno.
Impazza nei nostri tempi una diversa satira. Né fiele né miele, sciropposa bevanda invece che riporta sull’etichetta una massima falso-antica benché in latino, risalente al letterato francese seicentesco Jean de Santeul e risuonante la bonarietà da oratorio: «castigat ridendo mores». Può la letteratura castigare qualcuno (a parte la fama dei letterati mediocri che si autopuniscono)? C’è un potente che temette davvero i poeti? Non sono più pericolosi gli azzeccagarbugli dell’opinione pubblica che manipolano l’uditorio con le peggiori banalità senza metrica? Il fatto è che nessuno dei contemporanei vuole conquistare la palma poetica quando scarica gli insulti con la scusa della satira. La volontà di dire tutto, di sfidare le buone maniere, si è tradotta in un diritto acquisito, avallato addirittura dalle Corti di cassazione, come la mutua e la pensione, che invoca al solito i «valori costituzionali», la cultura e la libertà, per proteggere ogni sberleffo come fosse un’opera d’arte.
La ideale «complicità con le altre persone che ridono», di cui parlava Bergson nel suo celebre «saggio sul significato del comico», sembra evocare ormai l’identità politica o quel che resta di essa: complici nella risata. E i complici formano un branco, come si usa dir oggi, un branco ridente: mai – sosteneva ancora Bergson – ci può essere identificazione con la vittima del riso. In tempi di buone intenzioni, di aggressività celate, non resta dunque che il riso per assediare e isolare lo speciale capro espiatorio. Piccole iene. Le parole talvolta sono pietre ma naturalmente la lapidazione dei frizzi e dei lazzi fa meno male delle pietre vere, è una lapidazione simbolica. La risata risulta comunque dura, tiene lontano una compassione anche fugace. In questi casi, il ‘castigo’ ghignante è forse indolore? Niente a che vedere con il sorriso generoso del saggio.
Presentando il suo Giovenale, Ceronetti metteva in guardia da simili degenerazioni: «Un moralista sapiente sa fermarsi in tempo, perché oltre la linea invisibile della saggezza c’è la cupidigia della distruzione del peccatore». Probabilmente un satirico giudizioso come il poeta latino sa bene che la sua opera letteraria non può redimere Roma, né raddrizzare caratteri e popoli, tutt’al più consolare i malinconici compagni elettivi dello scrittore altrettanto infelice. Il grande satirico è misericordioso, le sue amare visioni non vanno confuse con la «satire des petites gens» (Boissier) che solletica gli animi per produrre sorrisetti stenti. Il traduttore di Giovenale svelava nelle ultime righe della sua introduzione di quarant’anni fa il segreto del poeta e dei migliori moralisti: il combattimento con il male è mosso da un irresistibile fascino che esso esercita su di loro, al punto da dedicare la vita e la scrittura alle bruttezze che ci offendono. Del resto anche un Daumier si costringeva a non raffigurare mai il bello, a inseguire il ridicolo, a viaggiare perennemente nei «vagoni di terza classe».
NELL’EPOCA DELLA SUA INVADENZA ~
«– Domani all’alba ho un impegno al Quirinale – .
Di che natura? – Non sai? Ho un amico
Che piglia per marito un amico.
Cerimonia per pochi intimi – .
Viviamo ancora un poco: vedremo
Fare in pubblico queste cose.
E messe agli atti anche».
Il poeta nelle previsioni sdegnate si ingannò: trascorsero almeno mille e novecento anni circa da questa scenetta schizzata da Giovenale nella II Satira (qui nella traduzione di Ceronetti, per l’Einaudi, che risale al 1971) e non si misero agli atti matrimoni simbolici di tal fatta. Forse l’avvento del cristianesimo, di lì a poco, rovesciò la climax delle stravaganze promosse da un desiderio senza più freni. O si prese a guardare al corpo e all’eros in modo meno futile, lasciando da parte il tono parodistico della pratica cui la satira allude e trovando nel freno una nuova beatitudine. In ogni caso il traduttore avverte: «il classico è farmaco: inchioda alla vanità i giudizi sul presente». La assonanza con le nostre discussioni le svuota infatti del loro carico ‘innovativo’, della sensazione inebriante d’essere all’estremo della storia, e le riconduce alla instancabile ripetibilità dell’agire umano, copie più o meno riuscite, un d’après spesso dimentico dell’originale, un po’ vano appunto. Ma anche i moralisti classici possono ingannare, dal momento che il gioco della satira consiste nel contrapporre la corruzione moderna all’aureo mondo d’antan, alla laudatio temporis acti. I moralisti d’ogni secolo si sono aggrappati a questi versi latini per giustificare le proprie argomentazioni atrabiliari, il rimpianto rabbioso, avessero però la forma stilistica di Giovenale: a lui riuscì di trasformare il fiele in miele, secondo la formula del suo traduttore moderno.
Impazza nei nostri tempi una diversa satira. Né fiele né miele, sciropposa bevanda invece che riporta sull’etichetta una massima falso-antica benché in latino, risalente al letterato francese seicentesco Jean de Santeul e risuonante la bonarietà da oratorio: «castigat ridendo mores». Può la letteratura castigare qualcuno (a parte la fama dei letterati mediocri che si autopuniscono)? C’è un potente che temette davvero i poeti? Non sono più pericolosi gli azzeccagarbugli dell’opinione pubblica che manipolano l’uditorio con le peggiori banalità senza metrica? Il fatto è che nessuno dei contemporanei vuole conquistare la palma poetica quando scarica gli insulti con la scusa della satira. La volontà di dire tutto, di sfidare le buone maniere, si è tradotta in un diritto acquisito, avallato addirittura dalle Corti di cassazione, come la mutua e la pensione, che invoca al solito i «valori costituzionali», la cultura e la libertà, per proteggere ogni sberleffo come fosse un’opera d’arte.
La ideale «complicità con le altre persone che ridono», di cui parlava Bergson nel suo celebre «saggio sul significato del comico», sembra evocare ormai l’identità politica o quel che resta di essa: complici nella risata. E i complici formano un branco, come si usa dir oggi, un branco ridente: mai – sosteneva ancora Bergson – ci può essere identificazione con la vittima del riso. In tempi di buone intenzioni, di aggressività celate, non resta dunque che il riso per assediare e isolare lo speciale capro espiatorio. Piccole iene. Le parole talvolta sono pietre ma naturalmente la lapidazione dei frizzi e dei lazzi fa meno male delle pietre vere, è una lapidazione simbolica. La risata risulta comunque dura, tiene lontano una compassione anche fugace. In questi casi, il ‘castigo’ ghignante è forse indolore? Niente a che vedere con il sorriso generoso del saggio.
Presentando il suo Giovenale, Ceronetti metteva in guardia da simili degenerazioni: «Un moralista sapiente sa fermarsi in tempo, perché oltre la linea invisibile della saggezza c’è la cupidigia della distruzione del peccatore». Probabilmente un satirico giudizioso come il poeta latino sa bene che la sua opera letteraria non può redimere Roma, né raddrizzare caratteri e popoli, tutt’al più consolare i malinconici compagni elettivi dello scrittore altrettanto infelice. Il grande satirico è misericordioso, le sue amare visioni non vanno confuse con la «satire des petites gens» (Boissier) che solletica gli animi per produrre sorrisetti stenti. Il traduttore di Giovenale svelava nelle ultime righe della sua introduzione di quarant’anni fa il segreto del poeta e dei migliori moralisti: il combattimento con il male è mosso da un irresistibile fascino che esso esercita su di loro, al punto da dedicare la vita e la scrittura alle bruttezze che ci offendono. Del resto anche un Daumier si costringeva a non raffigurare mai il bello, a inseguire il ridicolo, a viaggiare perennemente nei «vagoni di terza classe».
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