martedì 1 marzo 2011

Gente di mondo

~ «UNA ANTICHISSIMA RAZZA FELICEMENTE MISTA» ~
~ HOFMANNSTHAL E SAVINIO CELEBRANO UN’ALTRA ITALIA ~

Non lasciamoci suppliziare dagli scritti sciovinistici in questi mesi del giubileo risorgimentale, l’Italia merita di meglio. Non rimpiangiamo la Riforma protestante mancata, che ci avrebbe omologato agli altri paesi, come ripetono i maniaci del mea culpa. Un aristocratico viennese di lontane origini ebraiche, che vantava una «goccia di sangue lombardo», Hugo von Hofmannsthal, massimo scrittore di lingua tedesca nel Novecento, può farci capire un’altra Italia, quella dimenticata dai critici contemporanei, tutti presi dall’entusiasmo per la dimensione unica, globale, vergognosi delle caratteristiche più eccentriche del Belpaese, cattolico, universalista, teatrale, spregiudicato e malizioso. Si rinnegò a lungo il barocco perché intriso di Controriforma (la recente riscoperta venne d’oltreconfine), ma temendo qualsiasi assonanza con l’arte del fascismo, le si regalarono sciaguratamente anche i classicismi d’ogni epoca, evitandoli come la peste; si lasciò in ombra il fatto che i geni del Rinascimento coincidevano con i papisti odiati da Lutero e che i manieristi tornati di moda erano cresciuti nella coltura post-tridentina, ragion per cui il ‘laico’ Roberto Longhi se la cavò con la grande trovata del Caravaggio ribelle che diventa personaggio-chiave della storia dell’arte italiana, uscendo in questo modo dal «buco nero del Manierismo e del Barocco, riflesso della medesima damnatio desanctisiana e poi crociana, della Riforma cattolica» (Gian Lorenzo Mellini).

Hofmannsthal che, esattamente cento anni fa, in coppia con Richard Strauss, deliziava il pubblico del teatro dell’opera di Dresda con Der Rosenkavalier (ecco un compleanno secolare che andrebbe celebrato con dovuta riconoscenza), festa allegrissima di intrighi galanti, era l’autore ideale per rovesciare l’idea dell’Italia tramandata dai Piagnoni. E in un brevissimo testo del 1927 dedicato ai Promessi Sposi e al suo autore, provò a riassumere la nostra cultura in poche righe, facendo aggio appunto su quel romanzo manzoniano che «rappresenta l’Italia dinanzi al mondo, quella vera Italia che si perpetua costantemente sotto qualsiasi stato espressivo, in virtù della saldezza straordinariamente elastica di una antichissima razza felicemente mista» («I Promessi Sposi» di Alessandro Manzoni in Saggi italiani, a cura di Lea Ritter Santini, Oscar Mondadori). A scuola si è ormai tanto banali da ripetere che la protagonista sembra una santarellina, che il tono risulta moralista, niente a che vedere insomma con i romanzi moderni dei francesi e degli anglosassoni, Hofmannsthal, eccelso romanziere oltre che eccelso poeta, era di diverso parere.

«Il nobile e difficile concetto di italianità», dice il viennese, può essere ricostruito partendo da un romanzo che è considerato ‘romantico’ ma che non ha nulla del trasognato di cui facevano sfoggio i contemporanei d’oltralpe, «non sconfina mai nel sogno e nel capriccio», non si tormenta nella passione solitaria dell’individuo, la narrazione italiana essendo infatti corale, familistica, con madri, zii, cugini di primo e secondo grado, vicini di casa, parroci, frati, servitori, intrallazzatori, legulei: un presepio. In tale affollata quotidianità c’è «una conoscenza del mondo in cui nessuna nazione è pari a quella italiana». Nella patria del realismo, anche nel periodo della Romantik, «ogni figura agisce in ogni istante guidata dal proprio interesse in gioco – nulla di segno più opposto al sentimentale, al romantico, in ogni impulso c’è una coscienza dei limiti (intesi non come barriere sociali, ma stabiliti da Dio), addirittura una gioia nei limiti (e nel riconoscerlo sta il fascino della lettura) – nel contempo, però, in ogni istante si dà la possibilità di travalicare tutti i confini e di precipitare impetuosamente verso l’infinito, addirittura verso Dio». È un romanzo «laico» come Tom Jones, «giansenista» come ci insegnarono al liceo con il gusto della pedanteria, «ma nello stesso tempo – sostiene Hofmannsthal ricorrendo a parole assai impegnative – è impregnato di religiosità, di umana cristianità cattolica post-tridentina come nessun altro libro della letteratura mondiale». Un cristianesimo appunto cattolico, molto umano, saggio, tollerante che si fa largo tra le allucinazioni romantiche, tra le sperimentazioni più impudenti che già finivano nel silenzio e nel nichilismo. Di contro, «una umanità di stampo antico, vecchia e giovane insieme, impregnata fino al midollo dello spirito della cristianità cattolica; in questa sintesi verosimilmente imperfetta ci illumina il bagliore di una rivelazione, forse la più alta dell’italianità. Con questa persuasione nel cuore si potrebbe parlare di questo libro come d’un libro quasi indistruttibile, finché almeno reggano le fibre stesse di quest’antico popolo». La attuale disattenzione verso l’opera manzoniana dovrebbe dunque preoccuparci non poco: forse siamo tanto vecchi da essere còlti da una specie di Alzheimer collettivo. E ripieghiamo nella lettura delle lezioncine impartite dai giornalisti stranieri in prose senza garbo e senza stile.

Hofmannsthal insiste sull’antiromanticismo del romanzo e degli italiani, è bene ricordarsene mentre importiamo mode d’ogni dove, strappando le nostre radici. «Nulla è così lontano dal romantico quanto lo stile di questo libro annoverato tra i capolavori dell’epoca romantica. Persino la famosa ‘sobrietà’ antiromantica di Stendhal appare quasi affettata rispetto all’immediata, naturale sobrietà di questa narrazione». Domina qui la «naturalezza», e «mai un narratore è stato così meravigliosamente vicino e lontano, nella stessa misura, a tutti i personaggi», ideale allora per raccontare la vita, dove «ogni singola creatura ha un contorno assai morbido, mai netto». Romanzo di «un popolo la cui grandezza si fonda in un terribile realismo e la nobiltà nella passione», riesce sempre a evitare «il pregiudizio ostinato e il disprezzo».

A Milano Hofmannsthal dedicò un suo capolavoro, Reitergeschichte (Storia di Cavalleggeri), ovvero delle straordinarie immagini del Risorgimento italiano visto da Vienna, un racconto che dovrebbe essere obbligatorio leggere quale antidoto alle tetre riflessioni mazziniane che ci impongono da ogni parte per l’anniversario di Stato. Si tratta di «una cavalcata della morte» sullo sfondo di una Italia bellissima. L’autore, che era fiero delle sue ascendenze lombarde, ritrova in queste pagine il suo Sud, la parte meridionale, passionale, istintiva che rompe il perfetto ordine teutonico, la maestà delle bianche divise dei biondi soldati a cavallo. È la Milano della Prima guerra di indipendenza riflessa negli occhi dei cavalleggeri austriaci: non sono le virtù guerriere dei patrioti che suscitano ammirazione e rispetto bensì la città ambrosiana che risuona delle campane, i suoi giovani abitanti che si muovono come dèi nell’Olimpo, l’impareggiabile arte delle chiese che seduce anche i cuori dei soldati, la natura che si mostra in forme equilibrate e nitidissime.

A Milano, in questi giorni, Alberto Savinio torna ad allietare la città di cui auscultò il cuore con una esposizione della sua multiforme opera. Grazie a lui la metropoli lombarda, che suscita in genere scontati giudizi estetici, ebbe un libro amorosissimo di lodi. E in quel libro Savinio si diverte, come in una eco misteriosa delle parole manzoniane di Hofmannsthal, a centrare i sognatori nelle nebbie romantiche, gli adepti della melancholia da strapazzo, i sempiterni vestiti di nero per vezzo esistenzialista come certi patetici intellettuali germanici: «…gli Anglosassoni mancano spesso di realismo poetico, ignorano i valori poetici presenti, e li trasferiscono perciò in un mondo lontano, oscuro e incontrollabile come la Morte. […] Che altro rivela questa fiducia nel poetico futuro della morte, se non una mancanza di poetico presente. […] Chi è vacuo di valore, crede nella morte come valore supremo, e dalla Morte aspetta ciò che la vita non gli ha dato. Per supremo sentimento di volgarità, si desidera essere ‘diversi’ da come si è. Quindi nasce l’estetismo: questo mettersi in bella, questo parlare festivo, questo correggere e abbellire la propria realtà. E quale più radicale mutamento della Morte? […] Non per nulla la Morte è maestra di estetismo […] André Suarès nota che la letteratura italiana non ha mai preso sul serio il dolore e la morte. Nostra superiorità mentale sugli Anglosassoni, nostro classicismo». (Ascolto il tuo cuore, città).

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