~ UN PRETE PROGRESSISTA MESSO IN SCENA DA FLAUBERT ~
Per ricordarci che lo scontro tra una modernità barbarica e il cattolicesimo non risale al Novecento e che i tentativi talvolta maldestri e perniciosi degli ecclesiastici per convertire questi nuovi barbari vengono da più lontano dell’ultimo concilio, leggiamo le parole di Flaubert in una lettera alla sua amante Louise Colet. L’autore di Madame Bovary ritrae un prete confessore pieno di zelo sociale ma poco sensibile alle malattie dell’anima. Responsabile indiretto dello smarrimento progressivo della povera protagonista del romanzo, confusa dalla «pornografia del sentimentalismo» (come avrebbe potuto dire la scrittrice cattolica Flannery O’Connor).
«Finalmente comincio a vederci un po’ chiaro nel mio dannato dialogo col curato… Voglio esprimere questa situazione: la mia donnina, in un acceso di religiosità, va in chiesa, trova sulla porta il curato, il quale in un dialogo (senza un soggetto determinato) si mostra talmente stupido, piatto, inetto, taccagno, che lei se ne torna disgustata, indevota; e il mio curato è un bravissimo uomo, anzi eccellente, ma pensa soltanto al fisico (alle sofferenze dei poveri, alla mancanza di pane o di legna), e non indovina i vacillamenti morali, le vaghe aspirazioni mistiche; è castissimo e osserva tutti i suoi doveri. La scena deve occupare sei o sette pagine al massimo e senza una riflessione né un’analisi (tutto in dialogo diretto)» (Lettera dell’aprile 1853, in Correspondance, Conard, pp.166-167).
Anche «senza una riflessione» e senza commenti, le poche righe citate dovrebbero esser d’ammaestramento a quei preti, bravissimi uomini anzi eccellenti, che in qualche chiesa hanno celebrato in questi giorni il sacrificio della messa su uno straccio che penzolava verso i fedeli con la scritta cubitale che ingiungeva di votare «quattro sì ai referendum». In fondo il buon curato tendeva a farsi simile al farmacista Homais, la quintessenza del ridicolo progressista votato a tutti i luoghi comuni. A questo punto, «Madame Bovary siam noi», fedeli che ce ne torniamo dalla chiesa indevoti.
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Per ricordarci che lo scontro tra una modernità barbarica e il cattolicesimo non risale al Novecento e che i tentativi talvolta maldestri e perniciosi degli ecclesiastici per convertire questi nuovi barbari vengono da più lontano dell’ultimo concilio, leggiamo le parole di Flaubert in una lettera alla sua amante Louise Colet. L’autore di Madame Bovary ritrae un prete confessore pieno di zelo sociale ma poco sensibile alle malattie dell’anima. Responsabile indiretto dello smarrimento progressivo della povera protagonista del romanzo, confusa dalla «pornografia del sentimentalismo» (come avrebbe potuto dire la scrittrice cattolica Flannery O’Connor).
«Finalmente comincio a vederci un po’ chiaro nel mio dannato dialogo col curato… Voglio esprimere questa situazione: la mia donnina, in un acceso di religiosità, va in chiesa, trova sulla porta il curato, il quale in un dialogo (senza un soggetto determinato) si mostra talmente stupido, piatto, inetto, taccagno, che lei se ne torna disgustata, indevota; e il mio curato è un bravissimo uomo, anzi eccellente, ma pensa soltanto al fisico (alle sofferenze dei poveri, alla mancanza di pane o di legna), e non indovina i vacillamenti morali, le vaghe aspirazioni mistiche; è castissimo e osserva tutti i suoi doveri. La scena deve occupare sei o sette pagine al massimo e senza una riflessione né un’analisi (tutto in dialogo diretto)» (Lettera dell’aprile 1853, in Correspondance, Conard, pp.166-167).
Anche «senza una riflessione» e senza commenti, le poche righe citate dovrebbero esser d’ammaestramento a quei preti, bravissimi uomini anzi eccellenti, che in qualche chiesa hanno celebrato in questi giorni il sacrificio della messa su uno straccio che penzolava verso i fedeli con la scritta cubitale che ingiungeva di votare «quattro sì ai referendum». In fondo il buon curato tendeva a farsi simile al farmacista Homais, la quintessenza del ridicolo progressista votato a tutti i luoghi comuni. A questo punto, «Madame Bovary siam noi», fedeli che ce ne torniamo dalla chiesa indevoti.
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