~ I PROFETI DI CINECITTÀ «SUPER HANC PETRAM» ~
«Silete theologi» che dibattete sugli squarci più o meno catastrofici introdotti dal Vaticano II, obbedite all’intimazione di Alberico Gentili, disertate il forum animato da Sandro Magister, raccoglietevi per ascoltare le verità dei cinematografari che profetizzano con una certa tracotanza sulla Chiesa di domani. «A San Pietro, a San Pietro!», risuonava ancora onesta la parola d’ordine che concludeva Lo sceicco bianco, «dal papa, dal papa!» era l’invito felliniano che riconciliava nell’abbraccio del Colonnato le coppie e le famiglie. Nella stessa privilegiata location, due film recenti, uno con la semplicioneria americana, Angeli e demoni, e uno italiano, romano, ideato e girato nei quartieri che circondano il Vaticano, Habemus papam, sembrano pronunciare pur in trame assai diverse un medesimo oracolo. L’americano riecheggiando i luoghi comuni dominanti sulla Chiesa e le inesattezze storiche degli anticlericali in un thriller strampalato, dando corpo sul set unico alle fantasticherie paranoiche; il ‘romano’ narrando di una Santa Sede scettica e scanzonata, secondo l’immaginario di Fellini, ancora lui, quando scambiava i cardinali eminentissimi con le comparse argutissime, e ricorrendo anche al pittoresco di Mario Giacomelli. Ma tutti e due i film sono incatenati a quel balcone, turbati dall’ora cruciale della sede vacante, fantasticano intorno al vuoto che si apre con la morte del sovrano, fanno rivivere la paura dei sudditi papalini quando il cardinal camerlengo rompeva l’anello piscatorio e annunciava che il trono di Pietro era senza titolare mentre negli appartamenti apostolici si scatenavano i saccheggi. Roma senza più papa fu l’angoscia di Francesco Petrarca, di Caterina da Siena, di Cola di Rienzo.
Il film sull’eletto che non osa accettare fino in fondo l’investitura divina ricorderà forse il romanzo di Guido Morselli, Roma senza papa del 1966, con un pontefice ombroso e silente, auto-esiliatosi a Zagarolo. Fantascienza vaticanista che provava a immaginare, nel fine secolo post-conciliare, ogni violazione delle forme della Catholica. L’Urbe «protestantizzata», i «reverendi con signora», i reverendi che figliano, i «padri francesi che vogliono l’abolizione delle ‘residue discriminazioni tra buddhismo e cristianesimo’» e i vecchi che non leggono più l’«Osservatore Romano» ritenendolo un giornale troppo scandalosamente neofilo; eppure la messa si dice ancora in latino. Altro che la paura di ricoprire il ruolo di Vicario di Dio, il tentennamento di fronte al peso di sciogliere quaggiù quello che automaticamente dischiuderà le porte del Cielo - quasi virtuosa una simile umiltà benché eccessivamente pavida, umana, nella tradizione aperta da Pietro che rinnegava Gesù per vigliaccheria; nel suo romanzo Morselli annunciava ben più tristi stagioni ecclesiastiche, quando il cattolicesimo sarebbe diventato un soufflé sotto i colpi del caos teologico, nell’anarchia delle sètte. E già si incontravano gli orrori post-conciliari, la musica sacra ridotta a trivialità pop, la temerarietà di benedire «l’Anticristo psicoanalitico», la contaminatio con l’evoluzionismo, la teologia anti-missionaria che si rammarica che i bantù e i bashuana non abbiano «convertito gli europei invece di lasciarsi convertire», auspicando «una bilateralità di apostolato». Con qualche decennio di anticipo, Morselli scrive che «il cristianesimo è pronto a consacrare unioni stabili fra i sessi di qualunque segno». Intanto «la Chiesa sta ripudiando la sua romanità fastosa, e festosa, persino a Roma. Vedremo se ci riuscirà; città e razza qui sono felicemente refrattarie […] La Chiesa è in cerca di una austerità […] Dichiara guerra al visibile. Al senso. Niente Tobriand, niente amore pagano. (Il matrimonio ecclesiastico è una sconfitta della carnalità. Non una sua vittoria di sicuro)».
Il cinema cerca di surgelare il flusso televisivo illudendosi di possedere in tal modo un piccolo privilegio artistico. Ricorre perciò all’onnipotenza dell’io narrante, agli stratosferici investimenti finanziari, all’eccesso temporale (nella lentezza e nella celerità), ai divi globali. Così facendo resta più attaccato all’apparecchio domestico, fedele nell’enfasi, nella amplificazione delle icone del più piccolo schermo. Ecco allora i due film in questione rilanciare quello che l’umanità ha visto per giorni incollata al televisore, durante i funerali del beato Giovanni Paolo Magno, nel 2005, e durante il conclave che ha eletto il timido Benedetto, eroico nella battaglia dell’ortodossia, incerto nei rapporti con le folle. E ci ricamano sopra, sfruttando quelle immagini fisse nella memoria, utilizzando il carisma della scena cattolica. Angeli e demoni come Habemus papam mettono bocca nelle cose religiose e ripetono tiritere da gazzettieri: la Chiesa deve accettare la scienza, la Chiesa deve modernizzarsi, la Chiesa deve aprirsi, come ripete il confuso Michel Piccoli interprete del papa codardo. Però i registi si lasciano incantare proprio dalla tradizione, dai rituali antichi, dalle procedure misteriose, dalle tende rosse che si aprono al mondo, sipario metafisico, dal superbo spettacolo liturgico che mostra urbi et orbi all’umanità colui che rappresenta Dio su questa terra. Insomma, al di là delle intenzioni, al di là degli appelli progressisti affinché la Chiesa bimillenaria non sia più la Chiesa bimillenaria, il cinema prova a sedurre le platee con la potenza delle immagini di piazza San Pietro. D’altronde, Roma senza papa è «una femmina senza marito», leggiamo di nuovo nel romanzo dello scrittore bolognese. «Vène er Duemila – osserva imbronciata una fioraia ambulante, a Trinità dei Monti, – e che ce resta? Er Presidente de la repubblica. Ce serve assai!».
«Silete theologi» che dibattete sugli squarci più o meno catastrofici introdotti dal Vaticano II, obbedite all’intimazione di Alberico Gentili, disertate il forum animato da Sandro Magister, raccoglietevi per ascoltare le verità dei cinematografari che profetizzano con una certa tracotanza sulla Chiesa di domani. «A San Pietro, a San Pietro!», risuonava ancora onesta la parola d’ordine che concludeva Lo sceicco bianco, «dal papa, dal papa!» era l’invito felliniano che riconciliava nell’abbraccio del Colonnato le coppie e le famiglie. Nella stessa privilegiata location, due film recenti, uno con la semplicioneria americana, Angeli e demoni, e uno italiano, romano, ideato e girato nei quartieri che circondano il Vaticano, Habemus papam, sembrano pronunciare pur in trame assai diverse un medesimo oracolo. L’americano riecheggiando i luoghi comuni dominanti sulla Chiesa e le inesattezze storiche degli anticlericali in un thriller strampalato, dando corpo sul set unico alle fantasticherie paranoiche; il ‘romano’ narrando di una Santa Sede scettica e scanzonata, secondo l’immaginario di Fellini, ancora lui, quando scambiava i cardinali eminentissimi con le comparse argutissime, e ricorrendo anche al pittoresco di Mario Giacomelli. Ma tutti e due i film sono incatenati a quel balcone, turbati dall’ora cruciale della sede vacante, fantasticano intorno al vuoto che si apre con la morte del sovrano, fanno rivivere la paura dei sudditi papalini quando il cardinal camerlengo rompeva l’anello piscatorio e annunciava che il trono di Pietro era senza titolare mentre negli appartamenti apostolici si scatenavano i saccheggi. Roma senza più papa fu l’angoscia di Francesco Petrarca, di Caterina da Siena, di Cola di Rienzo.
Il film sull’eletto che non osa accettare fino in fondo l’investitura divina ricorderà forse il romanzo di Guido Morselli, Roma senza papa del 1966, con un pontefice ombroso e silente, auto-esiliatosi a Zagarolo. Fantascienza vaticanista che provava a immaginare, nel fine secolo post-conciliare, ogni violazione delle forme della Catholica. L’Urbe «protestantizzata», i «reverendi con signora», i reverendi che figliano, i «padri francesi che vogliono l’abolizione delle ‘residue discriminazioni tra buddhismo e cristianesimo’» e i vecchi che non leggono più l’«Osservatore Romano» ritenendolo un giornale troppo scandalosamente neofilo; eppure la messa si dice ancora in latino. Altro che la paura di ricoprire il ruolo di Vicario di Dio, il tentennamento di fronte al peso di sciogliere quaggiù quello che automaticamente dischiuderà le porte del Cielo - quasi virtuosa una simile umiltà benché eccessivamente pavida, umana, nella tradizione aperta da Pietro che rinnegava Gesù per vigliaccheria; nel suo romanzo Morselli annunciava ben più tristi stagioni ecclesiastiche, quando il cattolicesimo sarebbe diventato un soufflé sotto i colpi del caos teologico, nell’anarchia delle sètte. E già si incontravano gli orrori post-conciliari, la musica sacra ridotta a trivialità pop, la temerarietà di benedire «l’Anticristo psicoanalitico», la contaminatio con l’evoluzionismo, la teologia anti-missionaria che si rammarica che i bantù e i bashuana non abbiano «convertito gli europei invece di lasciarsi convertire», auspicando «una bilateralità di apostolato». Con qualche decennio di anticipo, Morselli scrive che «il cristianesimo è pronto a consacrare unioni stabili fra i sessi di qualunque segno». Intanto «la Chiesa sta ripudiando la sua romanità fastosa, e festosa, persino a Roma. Vedremo se ci riuscirà; città e razza qui sono felicemente refrattarie […] La Chiesa è in cerca di una austerità […] Dichiara guerra al visibile. Al senso. Niente Tobriand, niente amore pagano. (Il matrimonio ecclesiastico è una sconfitta della carnalità. Non una sua vittoria di sicuro)».
Il cinema cerca di surgelare il flusso televisivo illudendosi di possedere in tal modo un piccolo privilegio artistico. Ricorre perciò all’onnipotenza dell’io narrante, agli stratosferici investimenti finanziari, all’eccesso temporale (nella lentezza e nella celerità), ai divi globali. Così facendo resta più attaccato all’apparecchio domestico, fedele nell’enfasi, nella amplificazione delle icone del più piccolo schermo. Ecco allora i due film in questione rilanciare quello che l’umanità ha visto per giorni incollata al televisore, durante i funerali del beato Giovanni Paolo Magno, nel 2005, e durante il conclave che ha eletto il timido Benedetto, eroico nella battaglia dell’ortodossia, incerto nei rapporti con le folle. E ci ricamano sopra, sfruttando quelle immagini fisse nella memoria, utilizzando il carisma della scena cattolica. Angeli e demoni come Habemus papam mettono bocca nelle cose religiose e ripetono tiritere da gazzettieri: la Chiesa deve accettare la scienza, la Chiesa deve modernizzarsi, la Chiesa deve aprirsi, come ripete il confuso Michel Piccoli interprete del papa codardo. Però i registi si lasciano incantare proprio dalla tradizione, dai rituali antichi, dalle procedure misteriose, dalle tende rosse che si aprono al mondo, sipario metafisico, dal superbo spettacolo liturgico che mostra urbi et orbi all’umanità colui che rappresenta Dio su questa terra. Insomma, al di là delle intenzioni, al di là degli appelli progressisti affinché la Chiesa bimillenaria non sia più la Chiesa bimillenaria, il cinema prova a sedurre le platee con la potenza delle immagini di piazza San Pietro. D’altronde, Roma senza papa è «una femmina senza marito», leggiamo di nuovo nel romanzo dello scrittore bolognese. «Vène er Duemila – osserva imbronciata una fioraia ambulante, a Trinità dei Monti, – e che ce resta? Er Presidente de la repubblica. Ce serve assai!».
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