giovedì 22 settembre 2011

Una rossa aureola

~ LA MOSTRA VATICANA DI CARLO MATTIOLI ~

Qualche giorno fa in Vaticano si è inaugurata una mostra encomiabile, ed è raro ormai che ciò accada nello Stato più piccolo e più ricco di arte sulla terra. Si snoda negli spazi difficili del Braccio di Carlo Magno la retrospettiva dal titolo ossimorico, «Una luce d’ombra», del pittore Carlo Mattioli (1911-1994). Pittore che dipingeva davvero (e disegnava) anche sul finire del Novecento, periodo di eclisse per le arti visive; pittore miope che vedeva bene le cose vicine e non tentava di catturare l’invisibile, pittore dunque della migliore tradizione italica, quella che ha raffigurato il creato e ne ha celebrato la meraviglia. Basterebbe questo per spiegare perché la capitale della cultura cattolica gli rende un doveroso omaggio. C’è inoltre l’occasione del centenario della nascita che opportunamente si presterebbe per confronti e bilanci, il pretesto ufficiale però è un altro. Il legame tra l’artista modenese-parmense e la berniniana piazza San Pietro che lo celebra adesso urbi et orbi nasce dal ricordo di uno dei suoi Crocifissi dell’ultima fase, donato a papa Montini in un anniversario importante. Viene subito da sottolineare allora che quest’estate, in un’occasione simile, a Benedetto XVI è toccato in sorte ben altro regalo.

A luglio l’«Almanacco» fu a lungo incerto se affrontare la penosa esposizione di doni ‘artistici’ a Ratzinger intitolata pomposamente «Lo splendore della verità» (la maggior parte di coloro che erano stati invitati a mostrare i loro capricci estetici non credeva in alcuna verità): che colpo al cuore vedere in quella parodia dello showroom contemporaneo, già parodistico di suo, il segno del decadimento della cultura cattolica. La committenza unica al mondo – dal momento che per secoli i rappresentanti del Dio incarnato nell’umano chiedevano agli artisti di mettere in scena questo universo divino – sembrava avere abdicato definitivamente al proprio compito e si accontentava di scarti, annaspando tra i sottogeneri, alla ricerca di qualche stentato motivo spirituale se non spiritista, all’opposto della dottrina cristiana e della storia del bello. Roba per lo più da festival provinciale, nessun nome che conta nelle mode attuali, men che mai un gigante inattuale, nessun risalto neppure nei media che enfatizzano ogni sussulto di questo mondo. Perfino il dotto cardinale Ravasi non trovava di meglio nel discorso di apertura che citare Henry Miller, come un liceale pruriginoso d’altri tempi.

Invece, per ricordare Mattioli, anche Sua Eminenza è salito su di tono ed ha evocato Goethe, la sua teoria dei colori. Si stava parlando di uno dei ‘grandi’ del Novecento: dietro una parvenza di modestia e timidezza, c’era un elegante signore, alto e magro, che si misurava con secoli della nostra storia dell’arte, non per citazionismo intellettuale, per passione e per antico talento (apparteneva a una famiglia di decoratori), che riportava su povere tavole quella gloriosa pittura. «Si tenne lontano dalle beghe del tempo», ha detto con semplicità uno degli organizzatori della mostra, non scrisse manifesti, non polemizzò né teorizzò infatti, dipinse appunto in un’aulica provincia, e fu circondato da una corte di amici poeti e prosatori eleganti. Non gli imbonitori del contemporaneo, non i curators, i monatti delle merci, bensì Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Alessandro Parronchi, Vittorio Sereni, Giorgio Soavi, Cesare Garboli, Oreste Macrì, Giovanni Testori, Carlo Bo, Roberto Longhi, Roberto Tassi…(negli anni Novanta anche James Hillman gli renderà omaggio, dedicandogli uno sguardo critico, The practice of Beauty, 1994). Quasi tutti i sodali sospendevano il tempo, ignoravano l’ansia dell’avanguardia, incrociavano la letteratura con la rappresentazione plastica (nella mostra vaticana, frammenti di quei discorsi scandiscono le sale, i temi dell’artista, i suoi ciclici capitoli). Anche alcuni pittori fecero parte dell’eletta schiera, a cominciare da Giorgio de Chirico, che Mattioli effigiò in una di quelle «introspezioni fulminee» (Garboli) che più che alle caricature fanno pensare ai sintetici ritratti di Gian Lorenzo Bernini. Da una parte, insomma, scorreva la vita piatta dei moderni – ritmata dai flussi e riflussi, dalle innovazioni e dalle ripetizioni, dalle ondulazioni del mercato – descritta perfettamente dal Guy Debord riportato sul n. 658 del «Covile» online quando dice «degli ignoranti mistificati che si credono istruiti, e dei morti che credono di votare», «tenuti nell’analfabetismo modernizzato e nelle superstizioni spettacolari», «nel consumo ostentato del nulla», «infelici spettatori [che fanno] incetta di surrogati»; dall’altra, lo splendore di una piccola capitale, residuo prezioso di altri mondi, quel che resta della tradizione, la provincia felice che ancora non ha sparso al vento l’eredità, che nasconde misteriose fragranze senza marca. Questa più o meno la vita al ‘Circolo di lettura e di conversazione’ di Parma, l’hortus conclusus dove l’arte vien su bene. E in luogo dei viaggi esotici ai Tropici, vacanze sulle grandi spiagge della Versilia, spiagge messe in scena senza mare (come annuncia il libro dell’Apocalisse), gite sul Po, paesaggi padani, paesaggi toscani, paesaggi dell’arte italiana. Screpolature, muri assolati, ocra, tanto ocra in tutte le sue tonalità, dal giallo al marrone passando per ogni gradazione di rosso sangue. E passioni familiari ben più attraenti dei cliché balthusiani delle fanciulle in fiore sempre uguali, sulla tela prendevano corpo infatti le trepidazioni e gli stupori di un nonno.

Ne riparleremo su questo «Almanacco» di Mattioli, ma fin d’ora, annunciando la mostra, consigliandola con calore (attenzione, dura poco, chiude il 13 novembre), vogliamo riassumere i motivi del perché di tanto infervoramento. Già prevediamo le perplessità di qualche lettore: un pittore che dipingeva eppure si mescolava ai linguaggi fratti del suo tempo. Forse non era neppure una scelta, piuttosto un’influenza, un contagio, lo Zeitgeist è un Leitmotiv che si infila anche negli eremi, che tenta anche gli spiriti più severi, che convince anzi proprio i più isolati: se vuoi comunicare con gli umani devi ricorrere a questo medium attuale, devi usare il loro linguaggio, le inflessioni quotidiane, «le parole della massaia al mercato» diceva Lutero per spiegare la sua traduzione biblica. Così si vedranno nei quadri di Mattioli tanti segni del tempo suo, comprese magari «le crepe e le ferite» di Burri o le spartizioni della tela di Rothko, o prima ancora le folgorazioni picassiane, e gli innumerevoli tic estetici dei Sessanta e dei Settanta, ma mentre tutta questa semiotica insensata (eccezion fatta per il Malagueño, s’intende) si compiaceva di essere fine a se stessa, nichilistico svuotamento dell’arte, Mattioli ricorreva di volta in volta agli spunti materici o astrattisti per dipingere, senza alcun collage, paesaggi della migliore tradizione, le terre e le acque, i colli, le pinete, i campi di lavande, la natura e la maniera; qualcuno lo farà risalire alle formelle romaniche che aveva fissate nella mente fin dall’infanzia modenese. Immagini dove il colore, elaborato con superba maestria, è ancora il fattore decisivo. Vi si ritrova «la gioia per l’occhio» di cui parlava Delacroix. «In niente romantico» (Tassi), sarà spesso inquieto, non triste come i pessimisti del contemporaneo, per cui l’uomo nuovo delle loro utopie si è già cambiato in incubo. Mattioli fu il Maestro dei Notturni, chiari, calmi, lunari.

E poi ci sono i crocefissi. Ecco l’altro punto: un’arte sacra è possibile anche per noi. Quando un tal Serrano, per ottenere una fama da starlette, immerge un crocifisso nell’urina e poi chiede venia, scrivendo recentemente al «Corriere della Sera» per argomentare le sue buone intenzioni, richiamandosi naturalmente allo scandalo cristiano, forse otterrà la comprensione dei preti più dialoganti, magari una committenza dei cappuccini di San Giovanni Rotondo, ma chi ha senso estetico e poca tolleranza replicherebbe volentieri a calci in bocca onde far cessare quel piagnucolio dei provocatori di mestiere, dei piccoli Erostati melliflui, dei bestemmiatori che vogliono anche il consenso clericale. In questo secolo si è appeso di tutto sulla croce, rivoluzionari e puttane, banditi e animali (sarebbe proprio il caso di crocifiggere per qualche ora, appena legati, gli pseudo-artisti in una originale performance); invece Mattioli provò a raffigurare la vittima divina su una tavola. Assi recuperate, crepate, talvolta con delle fenditure profonde, per dipingere a olio o a tempera il Cristo morto. La tradizione del Christus patiens accosta un novecentesco a Giunta Pisano, lo spasimo diviene moderno, meno canonico, stereotipato, più informale. Sempre accompagna questi crocifissi un’aureola rosso fuoco, o un sole, o una fiamma di vita.

Narrava Testori: «Sulla scena dell’arte italiana Mattioli ha avuto un’apparizione lenta: se n’è stato chiuso, per anni, quasi in disparte, ammiratissimo da pochi; poi la porta del suo studio s’aprì al vento della fama, e dentro vi si videro terrestri e insieme ‘nubiche’, solive e insieme lunari meraviglie». Si racconta che quando morì, negli ultimi scampoli del XX secolo, il popolo di Parma lo accompagnò al cimitero come si faceva per i grandi artisti di un tempo. Inimmaginabile il lutto collettivo per un installatore.

Un appunto va però fatto. Almeno nel giorno del vernissage, un frastuono musicale di ‘sottofondo’, costringeva a tapparsi le orecchie per vedere il pittore del silenzio.

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