~ CHI CANTA LA BELLEZZA DEL MONDO E CHI LO SDEGNO
CHI NELLA REGOLA E CHI NELLA TOTALE INCURIA ~
I poeti, i poeti. Possono masticare l’amarezza come Emile Cioran, accarezzare la disperazione; o soffiare sul vento di ribellione con il loro sbuffo bambinesco, come in molti fanno; o rendere elastiche le leggi economiche, deridere i corpi e lanciare in aria lo spirito. Il giocare al ‘fanciullino’ mentre si ostenta il moderno è però particolarmente snervante. Si intruppano con i movimenti emotivi, quasi l’ingegneria della mente non riguardasse gli scrittori in versi. Esser matto diventa una qualità nel salottino poetico, dimenticando lo sguardo truce e «la bava dei miei spasimi» (della terribile Elektra hofmannsthaliana). Talvolta hanno la spudoratezza di ripetere lo slogan abusato del «provare l’impensabile»: secoli di science fiction dimostrano che le fantasie pedestri non incroceranno mai la realtà, piuttosto mimano in modo squinternato l’hic et nunc.
Integralismo espressivo, scarno e scarmigliato come spesso l’espressionismo storico e metastorico. Innamorati del vago, sospettosi dell’immobile dal momento che adesso quello che sta a fondamento risulta impoetico, paladini di un lirico puritanesimo per cui è scandaloso accentare la forma a scapito dei contenuti, il moralismo pare suonare bene nel canto dell’indignazione. In gran ribasso invece i ‘capricci dell’innamorato’. Ormai è quasi un secolo che, liberatisi dalle odiate «costruzioni formali», rischiando ogni volta di confondere la poesia con le prediche (peraltro senza più costrutto retorico), innalzano laudi della licenza in panegirici che sanno piuttosto di filastrocca. Addio al formale dominio di Mallarmé, al rigore matematico del Cimitière marin, al metodo leonardesco, al piacere della precisione; invero lontano anni-luce anche dalle prose scientifiche del sifilopatologo e Dichter. Un continuo sfottò del simmetrico perché sarebbe troppo facile, da verseggiatori, addirittura la ripugnanza verso il finito: non fa fine quanto l’aere sfuggente. Il secolo scorso, allegri agnostici, ora cupi gnostici. Riprovazione a piene mani, disprezzo, a calcolare cioè quanto si valga su un ipotetico mercato che hanno in testa.
Poeti senza più tecnica, in genere, senz’arte, soltanto buone intenzioni, nient’altro che un tono da poeti, una posa neppure tanto delicata. Nelle cittadine d’altri tempi, soprattutto al Nord, c’era chi gridava ogni notte allo scoccare delle ore, per soddisfare gli insonni in attesa, forse per mostrare quotidianamente la potenza dell’organizzazione sociale che né le tenebre né la stanchezza umana riuscivano ad inficiare. Uguale è l’intervento urlato dei nostri battitori sentimentali, medesima sciatteria nell’intonazione.
I politici son meno liberi e per questo meno amati. Su di loro pesa la responsabilità della vita di sudditi o cittadini. Impoetici amministratori delle nostre malattie e del nostro denaro, dell’oggi tribolato e delle speranze per uscirne fuori. Governare non è bello esteticamente, ma almeno nell’italico paese resta un gusto forte di fazione, di casta: chi dirige i pubblici affari assume i colori purpurei della potenza, ha il suo sublime, niente a che vedere con l’eurocratico travet. Ogni tanto qualche teorico della politica sa scoprire poeti meno irresponsabili. Carl Schmitt, per esempio, ne raccomandò qualcuno; e non si sentì a disagio neppure nel trascrivere in forma lirica i suoi sessant’anni compiuti durante la prigionia (in Ex captivitate salus), ma appariva ormai un vinto, impolitico per necessità. Goethe, invece, che era un politico attivo, scrisse per vincere lo smarrimento del cuore anche nel ruolo aulico che ricoprì alla corte del duca di Sassonia-Weimar-Eisenach e nell’operare prosaico di responsabile nel corso degli anni alla viabilità, alle miniere, alla pubblica amministrazione, agli affari militari (già, come Valéry fu un funzionario del ministero della Guerra e Rimbaud vendette armi in proprio, il pacifista non essendo affatto sinonimo di poeta).
Pazzo ma non depresso, felice dello spettacolo della vita, miserrimo senza lamentazioni, Robert Walser arriverà a scrivere: «È chiaro che il mondo, come corre voce, continuerà a essere bello, altroché, e le più rosee speranze continueranno a fiorire».
CHI NELLA REGOLA E CHI NELLA TOTALE INCURIA ~
I poeti, i poeti. Possono masticare l’amarezza come Emile Cioran, accarezzare la disperazione; o soffiare sul vento di ribellione con il loro sbuffo bambinesco, come in molti fanno; o rendere elastiche le leggi economiche, deridere i corpi e lanciare in aria lo spirito. Il giocare al ‘fanciullino’ mentre si ostenta il moderno è però particolarmente snervante. Si intruppano con i movimenti emotivi, quasi l’ingegneria della mente non riguardasse gli scrittori in versi. Esser matto diventa una qualità nel salottino poetico, dimenticando lo sguardo truce e «la bava dei miei spasimi» (della terribile Elektra hofmannsthaliana). Talvolta hanno la spudoratezza di ripetere lo slogan abusato del «provare l’impensabile»: secoli di science fiction dimostrano che le fantasie pedestri non incroceranno mai la realtà, piuttosto mimano in modo squinternato l’hic et nunc.
Integralismo espressivo, scarno e scarmigliato come spesso l’espressionismo storico e metastorico. Innamorati del vago, sospettosi dell’immobile dal momento che adesso quello che sta a fondamento risulta impoetico, paladini di un lirico puritanesimo per cui è scandaloso accentare la forma a scapito dei contenuti, il moralismo pare suonare bene nel canto dell’indignazione. In gran ribasso invece i ‘capricci dell’innamorato’. Ormai è quasi un secolo che, liberatisi dalle odiate «costruzioni formali», rischiando ogni volta di confondere la poesia con le prediche (peraltro senza più costrutto retorico), innalzano laudi della licenza in panegirici che sanno piuttosto di filastrocca. Addio al formale dominio di Mallarmé, al rigore matematico del Cimitière marin, al metodo leonardesco, al piacere della precisione; invero lontano anni-luce anche dalle prose scientifiche del sifilopatologo e Dichter. Un continuo sfottò del simmetrico perché sarebbe troppo facile, da verseggiatori, addirittura la ripugnanza verso il finito: non fa fine quanto l’aere sfuggente. Il secolo scorso, allegri agnostici, ora cupi gnostici. Riprovazione a piene mani, disprezzo, a calcolare cioè quanto si valga su un ipotetico mercato che hanno in testa.
Poeti senza più tecnica, in genere, senz’arte, soltanto buone intenzioni, nient’altro che un tono da poeti, una posa neppure tanto delicata. Nelle cittadine d’altri tempi, soprattutto al Nord, c’era chi gridava ogni notte allo scoccare delle ore, per soddisfare gli insonni in attesa, forse per mostrare quotidianamente la potenza dell’organizzazione sociale che né le tenebre né la stanchezza umana riuscivano ad inficiare. Uguale è l’intervento urlato dei nostri battitori sentimentali, medesima sciatteria nell’intonazione.
I politici son meno liberi e per questo meno amati. Su di loro pesa la responsabilità della vita di sudditi o cittadini. Impoetici amministratori delle nostre malattie e del nostro denaro, dell’oggi tribolato e delle speranze per uscirne fuori. Governare non è bello esteticamente, ma almeno nell’italico paese resta un gusto forte di fazione, di casta: chi dirige i pubblici affari assume i colori purpurei della potenza, ha il suo sublime, niente a che vedere con l’eurocratico travet. Ogni tanto qualche teorico della politica sa scoprire poeti meno irresponsabili. Carl Schmitt, per esempio, ne raccomandò qualcuno; e non si sentì a disagio neppure nel trascrivere in forma lirica i suoi sessant’anni compiuti durante la prigionia (in Ex captivitate salus), ma appariva ormai un vinto, impolitico per necessità. Goethe, invece, che era un politico attivo, scrisse per vincere lo smarrimento del cuore anche nel ruolo aulico che ricoprì alla corte del duca di Sassonia-Weimar-Eisenach e nell’operare prosaico di responsabile nel corso degli anni alla viabilità, alle miniere, alla pubblica amministrazione, agli affari militari (già, come Valéry fu un funzionario del ministero della Guerra e Rimbaud vendette armi in proprio, il pacifista non essendo affatto sinonimo di poeta).
Pazzo ma non depresso, felice dello spettacolo della vita, miserrimo senza lamentazioni, Robert Walser arriverà a scrivere: «È chiaro che il mondo, come corre voce, continuerà a essere bello, altroché, e le più rosee speranze continueranno a fiorire».
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