giovedì 24 gennaio 2013

Cerimonia dell'addio

~ IL RICORDO LAICO E LA SPERANZA CRISTIANA ~

Davanti alla morte, spesso anche i più tiepidi ricorrono per l’amato estinto al funerale in chiesa. Davanti al mistero del corpo inanimato, al vuoto che esso apre intorno, si preferisce allungare la strada che porta alla sepoltura: prima di gettare la terra sulla bara, prima di chiudervi sopra il marmo con la calce, è meglio passare dal parroco e cercare di dare un senso alla cerimonia dell’addio. Qualcuno deve pur rompere il silenzio terribile. Del resto qui si sostanzia l’antichissimo saluto, l’addio: ci rivedremo da Dio, davanti a Dio. Impegno ben più vigoroso delle memorie nostalgiche o del patetico rivolgersi ai morti da parte dei miscredenti (come udirà tali voci – le promesse di fedeltà all’ideale comune, l’impegno nella prosecuzione della lotta, le affettuosità domestiche – chi è stato chiuso in una cassa con il bollo della scienza medica che nega la speranza cristiana?).

L’ateo perfetto poi, direbbe George Steiner, dovrebbe esser convinto che il morto sia ormai un oggetto in decomposizione, inutili dunque per lui gli omaggi e le delicatezze. Spento definitivamente quello spirito che animava i meccanismi fisici, raggiunta la fine della vita, non resta che il problema di come sbarazzarsi dei rifiuti (e la voga del forno che consuma totalmente il corpo sembra risolvere questo problema, seppure in direzione opposta agli altri rifiuti, secchi e umidi, per cui viene evitata, con mille complicazioni, l’opera dell’inceneritore).
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Le esequie cristiane invece si preoccupano del corpo, lo onorano, lo ricoprono di regale dignità. Il corpo molto spesso umiliato e travagliato da quelle che la parlata eufemistica chiama «lunghe malattie» o abbrutito da certe vecchiaie o straziato dallo sperimentalismo dei medici o violato dalla bestialità di omicidi e rapitori o disfatto per incidenti e disastri trova in chiesa la sua pacificazione. Eccoci finalmente tornati nella Casa del Padre, terminata l’avventura terrena più o meno turbolenta. Qui, ancora una volta, pare riconciliarsi il cielo e la terra.

Giustamente la chiesa apre i battenti per far entrare le bare dei peccatori d’ogni risma, di chi mai ha frequentato, di chi ha combattuto la religione, di chi ha malvissuto: a quel punto, per fortuna, non spetta al signor curato la parola finale bensì al Cristo giudice. Ci si limita a implorare misericordia per colui che sta davanti alla corte celeste, a benedirne il cadavere onde consolare i presenti, in modo che vedano con i loro occhi che quella cassa contiene un cristiano in attesa del risveglio non un rifiuto umano da smaltire. Un corpo da benedire e da incensare, un corpo che un giorno uscirà dalla tomba. Questo è quanto garantisce il prete con la cerimonia sacra, questo il conforto che offre la Chiesa cattolica ai congiunti che piangono il loro morto. Preso sul serio vale tutti i ricordi, le parole, i fiori, le donazioni, i monumenti funebri, le celebrazioni d’ogni genere; più potente delle vendette cruente e di quelle della giustizia umana. Il Cristo vincitore della morte viene invocato affinché quel suo pur indegnissimo seguace sia riscattato. Sennonché la forma aperta della liturgia postconciliare rischia di mettere in ombra questo privilegio del morto cristiano a vantaggio di una generica e verbosissima riunione di famiglia davanti al prete che fa gli onori di casa, come talvolta diventa il rito contemporaneo: chiacchiere di amici e parenti mescolate alle preghiere, memorie confuse, enfasi degli affranti, aneddoti imbarazzanti. Il tutto sull’altare, sul luogo sacro per eccellenza, laddove avviene il sacrificio che redime l’umanità e i santi misteri trasformano la materia. Per i cattolici questo significa lo spazio speciale del tempio anche se, soprattutto grazie alle architetture contemporanee, talvolta tale spazio santo sembra somigliare a una sala del dopolavoro.

Qualche giorno fa si sono svolti in una chiesa romana i funerali di una eccelsa attrice, forse la nostra massima figura teatrale. Il prete ha benedetto la salma, ha solennemente assicurato i presenti che il corpo bellissimo della bionda diva non finiva per sempre in quella bara, che un giorno si sarebbe risvegliata per il giudizio finale. Non è un poetico augurio bensì il fondamento della religione cattolica, il suggello del Credo, l’unico motivo per cui si celebra il funerale religioso. Lì accanto, qualsiasi altra parola umana suonerebbe ridondante o infangherebbe la solennità con cui viene annunciata la verità cristiana. Ma forti di una brutta abitudine ormai invalsa da oltre un trentennio ci si è meravigliati perché non è stato concesso a una politica militante anticlericale di pronunciare dall’altare anche la sua predica. Il laicismo poco eroico dei nostri tempi sa solo implorare la tolleranza della Chiesa per tutti i capriccetti umani, deprecandone una presunta severità, ignorando che la «Esperta in umanità» conosce come nessun altro i vizi della nostra specie, che assolve e schiude così le porte del Paradiso ai ladri, ai criminali in genere, e perfino ai pluriassassini, né si spaventa, come fa l’opinione pubblica, per la parola «mafia» o per altre efferatezze umane, e tanto meno si illude come un po’ tutti nella pulizia etica del mondo, prega piuttosto e perdona, così come perdonò anche la Roma che crocefisse il suo Dio. Però pur se clemente con tutti non può transigere sui punti-chiave. Non può cioè svendere le promesse divine, ridurre le incomparabili promesse all’orizzonte mondano. Il Verbo si incarnò nell’idioma d’ogni giorno, è vero, ma a quel tempo neppure al mercato l’inganno si faceva suono come nella mercificazione attuale dei linguaggi. È giusto allora distinguere nettamente le parole divine da quelle melliflue della televisione, dalle frasi fatte dei giornali, dai pensieri coatti delle mode culturali. Talvolta, del resto, nei funerali più mediatici, i preti non gareggiano forse con i giornalisti nel gridare condanne sommarie, o con i giudici nell’additare i colpevoli di quella morte? Sempre affidandosi alla spiegazione mondana che non consola, al ricordo che aumenta il pianto. Sarebbe bello allora che da quel caso particolare e un po’ paradossale si arrivasse a una più generale conclusione: che in chiesa la salma vada soltanto per essere riconsacrata, per ottenere la sublime consolazione del cielo, lasciando i discorsi, gli applausi, gli sfoghi della nostra disperazione fuori del tempio, nello spazio pro-fano, etimologicamente ciò che sta fuori del bosco sacro.

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