venerdì 22 febbraio 2013

Vigor animae

~ NOTE IN MARGINE A UNA PAROLA-CHIAVE
DEL TESTO DELLA RINUNCIA DEL PAPA ~

Perplessi ancora o forse ancora più perplessi nell’approssimarsi dell’ora finale del papato ratzingeriano, si torna a leggere le poche parole che sconvolgono la storia del ministero pontificio, la frase in latino che fa tremare la Cattedra di Pietro celebrata proprio oggi in tutte le chiese dell’orbe, cathedra appunto, trono, seggio dei sapienti in origine, non tavolo office, non poltrona girevole design, posto di comando per – Dio ci scampi – manager della fede. L’occhio cade su una delle righe centrali dello scarno discorso di addio, laddove si argomenta che per condurre la navicella di Pietro «etiam vigor quidam corporis et animae necessarius est, qui ultimis mensibus in me modo tali minuitur, ut incapacitatem meam ad ministerium mihi commissum bene administrandum agnoscere debeam», che in italiano suona: «è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato». Sulla debolezza fisica nella vecchiaia lasciamo sproloquiare gli editorialisti che addirittura confondono pontefici e politici (questi ultimi si abbarbicano laicamente al potere e, vegliardi, non ritengono di doversi distaccare dalle miserie della vita per riflettere in limine sulle cose dello spirito; il papa all’opposto sta lì a indicare Dio, è giusto che lì rimanga anche nel travaglio della malattia, anche moribondo, ché la sua religione ha per simbolo appunto un uomo in atroce agonia, son dunque ruoli che non si possono confrontare; altro è l’interrogarsi sulla legittimità del politico alla luce del gesto di Benedetto, cui accenna con grazia Agamben). Sulla diminuzione del «vigore dell’animo» detta a chiare lettere si resta invece attoniti. E incessantemente si medita, magari in maniera nervosa e sommaria, su quella strana vicenda di mezzo secolo fa, quando la Chiesa di Roma sembrò spogliarsi della sua tradizione, abbandonare la forza d’animo per una simulazione della chenosi divina.

Forse due insigni gesuiti degli anni Cinquanta avrebbero potuto gettare acqua gelida sul fuoco dell’ottimismo facilone che divorava la Chiesa alla vigilia del Concilio. Ovvero, padre Felice Cappello, circondato dalla fama di santità ancora in vita, e padre Virginio Rotondi, che convertirono sul letto di morte Curzio Malaparte al cattolicesimo, avrebbero dovuto informare i loro confratelli di quel che c’era scritto nei libri del convertito, romanzi e saggi a quei tempi ancora all’Indice. Quanti equivoci sarebbero stati così evitati. Lo scrittore pratese aveva raccontato con immagini indimenticabili la morte dell’Europa: cadaveri che figliavano cadaveri, generazioni uscite dai giorni dell’odio di due guerre civili e mondiali al contempo, sotto il segno di Caino, stragi come non si erano mai viste nella lunga storia umana, puzzo di carogne, mutazioni antropologiche, l’asservimento ai vincitori di turno, l’abiezione, lo spegnimento definitivo della joie de vivre che aveva brillato in Occidente per secoli. Altro che la bellezza del creato sempre cantata dal cattolicesimo, si finiva in un nichilismo variamente agghindato di mistica del dubbio, di verità approssimative e indicibili, di un generico sentimentalismo assai sciatto. Se i vescovi che si adunarono speranzosi a Roma avessero avuto chiaro questo orrore in testa non si sarebbero lasciati andare all’ingenua ammirazione del mondo del dopoguerra, al frettoloso recupero di una belle époque ormai scomparsa. Se poi si aggiungeva a una sì sinistra prospettiva il fatto che una parte consistente d’Europa era finita in un regime dove regnava l’ateismo, i primi stati al mondo costituzionalmente atei e persecutori della religione (ma questa seconda caratteristica si ripeteva nei secoli), c’era da supplicare il Cielo non da assoggettarsi alla Terra.

Chissà, i reverendi padri conciliari si lasciarono abbindolare dalle fatue distrazioni degli ex combattenti, dal gergo giovanile che urlava la sua utopia, dalle rivoluzioni che promettevano molto facendo il verso a quelle, culturali e politiche, del primo Novecento. Si registrò la mancanza totale del realismo tradizionale, probabilmente per non guardare una scena troppo spaventosa, per mettere tra parentesi le immagini macabre, per venir meno del coraggio, così come si preferì non dare più importanza alla immensa prigione comunista che si estendeva da Berlino all’Asia, sorvolando sulle torture di vescovi e fedeli non per antica abitudine alla trattativa diplomatica bensì per un amore vagamente sconsiderato che oggi si direbbe «new age», privo di fermezza, di forza morale.

Né ci si accorse che gli intellettuali erano magari ancora alla ricerca della bonaventuriana «perfezione cristiana» e che avendo la Chiesa tralasciato tale tema e rincorso tutte le ideologie presenti sul mercato, i più seri si interessavano al marxismo (nella versione della scolastica sovietica come nelle fantasie sofisticate degli occidentali) oppure, stanchi del materialismo capitalista, ricorrevano al ‘fai da te’ sublime della gnosi, non avendo più un mysterium rivelato di fronte al quale inginocchiarsi. Già da allora e forse da prima dell’assemblea conciliare non ci si poteva accontentare della debolezza spirituale predicata da Roma negli ultimi tempi, la ragionevolezza del mondo avendo poco a che fare con la ragione tomistica.

Se era invecchiata la cultura cattolica, se aveva subìto seri colpi con l’avvento della modernità, se di fronte all’attacco era ripiegata in un puritanesimo più di scuola protestante, se si era chiusa, arroccata – come si diceva con sprezzo, senza un minimo di comprensione e di misericordia – in attesa di tempi migliori, non si può dire che il «sacrosanto concilio» ebbe echi rilevanti nella cultura del secondo Novecento, a parte il chiasso giornalistico, in particolare nell’attenta quanto strumentale riflessione della pubblicistica italiana di sinistra. O forse nei residui di un protestantesimo già sconfitto e necessariamente dialogante. Ma intellettuali, letterati, pensatori, artisti, quel po’ che rimaneva, se ne fuggirono, perfino verso altre religioni, si pensi al successo del buddismo. La nuova arrendevolezza della Chiesa di Roma non riusciva ad attrarre nessuno.

Quali scrittori si possono accostare al Vaticano II così come si dice di quelli, nobilissimi, del Tridentino? E quali pittori, e quali filosofi, e soprattutto, visto l’argomento, quali santi? Piuttosto che produrre una propria cultura ci si accontentò di scopiazzare quella degli altri (con grandi prestiti dal protestantesimo) e adattare alla meglio i propri dogmi a quelli imperanti. Si accorsero insomma i vescovi radunati in Vaticano che quel frettoloso accostarsi al mondo, alle ragioni del mondo, alla sua cultura del tutto secolarizzata, li portava dritti dritti, e nonostante puritanesimi di marca protestante e pauperismi di marca socialista, verso la cultura che si stava affermando in quel tempo, ossia la cultura dei consumi? Anche del consumo ideologico, facile, imposto dalle mode. Eppure fino ad allora c’era stato un grosso limite al consumismo nascente: il cattolicesimo. Sia perché il mondo cattolico – come scriveva Goffredo Parise – veniva considerato «troppo carico di cultura, troppo carico di doveri culturali; non facilmente smerciabile né apprendibile né recettibile», sia perché «il mondo cattolico possiede una cosa impossibile da consumare: il mistero. Il mistero è il nemico numero uno della consumabilità, perché non si tocca e non ha alcuna immediata utilità. È proprio l’opposto della consumabilità» (Nuovo potere e nuova cultura, in Opere, i Meridiani Mondadori, vol. II, p. 1408). E anche, andrebbe aggiunto, «nemico» di quella comunicazione totale, presuntuosa, corriva, che contraddistingue disgraziatamente la Chiesa post-conciliare.

In luogo dell’imago Coeli si scelse l’imago mundi ma arrivando tardi, ridicolmente tardi, quando il mondo aveva perduto la sua tragica e luminosa grandezza per divenire un globetto unificato dall’economia, dai soldi come unico orizzonte, dalla produzione per la produzione, dalla magnifica ricchezza di questa terra trasformata in merci, dalla parodia come solo canone, anche nei rapporti umani…

Sesso e denaro: non riescono a vedere altro i giornali dietro alla vicenda vaticana. I più tenebrosi sospettano ancora la massoneria (i medesimi sospetti che a sinistra nutrono per la cellula denominata «P2», come se davvero quelle vecchissime congreghe avessero un qualche rilievo oggi). Gli affari dello spirito e dei corpi, della ragione e della speranza umane, la volontà di vincere la morte, il giusto orgoglio di essere a immagine di Dio, il sogno paradisiaco: questi sono i temi cattolici che nutrirono gli ingegni rinascimentali come dell’epoca barocca e di altre stagioni gloriose. E adesso? Dopo mezzo secolo di melassa altruista senza fede nella propria resurrezione, di ascesi senza Paradiso, di liturgia senza Cielo, arriva questa rinuncia. Non a caso si dice rassegnare le dimissioni, c’è in quel gesto una certa rassegnazione e un dismettere, un buttar via, un lasciar andare, un abbandono. Un consegnarsi nelle mani altrui. Di chi, in questo caso? Quanto è purtroppo consumabile la rinuncia ratzingeriana, quanto sembra appartenere al linguaggio del mondo, alla logica del benessere, alla vecchiaia da redimere con i farmaci, al culto pernicioso della giovinezza.

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