~ SI CONCEDA A DEI DONCHISCIOTTESCHI
DI RICORDARE LE ALTRE VITTIME
DEL MARE CHE CI CIRCONDA ~
«In questa pietà popolare si guadagna in sensibilità e si perde in visione. Se sentivano meno, altre epoche vedevano di più, anche se vedevano con l’occhio cieco, profetico, insensibile dell’accettazione, vale a dire della fede. Ora in assenza di questa fede siamo governati dalla tenerezza. Una tenerezza che da tempo, staccata dalla persona di Cristo, è avvolta nella teoria. Quando la tenerezza è separata dalla sorgente della tenerezza, la sua logica conseguenza è il terrore. Finisce nei campi di lavoro forzato e nei fumi delle camere a gas».
Flannery O’Connor, A Memory of Mary Ann, 1961
«Negli ultimi tempi, secondo Giovanni, gli uomini saranno “con parvenza di pietà ma rinnegatori di quel che ne è l’essenza vera” (2 Tm 3,5). E infatti mai come ora si riconoscono diritti a tutti, si nega la schiavitù, si parla della nobiltà dell’uomo, di giustizia di pace di libertà di fratellanza».
Sergio Quinzio, Diario profetico, 1958
Dedicando un po’ del lento tempo estivo alla rilettura del Don Chisciotte, si era giunti questo lunedì 8 luglio – ovvero proprio nel giorno in cui i media macinavano barchette, fuggiaschi, naufragi – ai capitoli XXXIX-XLI della prima parte del romanzo, dove si interrompono le avventure del folle hidalgo per narrare le più tragiche storie dei prigionieri di guerra, delle vittime dei saccheggi, dei bottini umani che a quel tempo i musulmani facevano tra i cristiani (talvolta con la complicità o la concorrenza di qualche cristiano). Cervantes conosceva la materia: arruolatosi da giovane nella guerra benedetta dal papa, era finito per capriccio della fortuna nelle mani dei mori subito dopo aver vinto la battaglia di Lepanto. Cinque anni nelle galere, remando in catene nelle navi facili al capovolgimento, di volta in volta venduto dai mercanti islamici di carne umana, dalla Grecia ad Algeri, sognando di tornare nel mondo cristiano. Uno dei massimi scrittori della letteratura che chiamiamo universale, un campione del canone occidentale, patì le sofferenze di decine di migliaia di uomini e donne che trascorsero parte della loro vita in cattività presso i nordafricani d’altra religione. Dal XVI secolo al XIX si contano un milione di martiri cristiani, un milione di morti. Nessuno lancia più un fiore per loro nelle acque mediterranee. Nessun pastore celebra il ricordo degli eroi che resistettero al rinnegamento della verità evangelica, gesto che avrebbe permesso loro un ritorno tra gli umani, secondo le regole ‘tolleranti’ dell’islam. Per lenire tali sofferenze perciò, per strappare quei giovani europei alle umiliazioni, alle violenze, ai ricatti, san Giovanni de Matha, seguendo le indicazioni degli angeli – raccontano gli agiografi – fondò la compagnia dei trinitari, con la missione di liberare gli schiavi cristiani. «In exitu Israël de Aegypto» è il salmo che cantavano i prigionieri appena liberati tornando in patria e andando a ringraziare solennemente Dio nelle chiese. Cervantes fu salvato proprio da un frate di san Giovanni de Matha. Francesco d’Assisi volle conoscere questo intrepido fondatore: gli diventò amico, condivise la missione, quell’amore per i fratelli in Cristo. In altra occasione, Francesco che non era un predicatore di sentimentalismo invocò battesimi di sangue, propose ordalie: non varcò il mare per compiacere i mori ma per testimoniare il vangelo anche presso di loro. Un fiore per il santo provenzale e un fiore per Francesco d’Assisi. E un fiore per san Pietro Nolasco, che organizzò l’ordine dei mercedari con il medesimo scopo di sottrarre uomini alla schiavitù islamica. Ma Braudel ricorda nel suo smisurato studio del Mediterraneo che anche prima di Maometto, dalle rive africane partivano attacchi di pirati pagani contro l’Europa e soprattutto contro la penisola italica che si distendeva verso quei lidi. Quante guerre e quanti morti nelle acque che i visionari ‘multietnici’ immaginano come un laghetto alpino, un pelago di dialoganti. Nel Novecento le fantasie degli europei che non inseguivano la modernità atlantica tornarono a concentrarsi sul bacino dove sorsero le nostre civiltà, sui loro dèi, le loro leggi, i traffici mentali che ci inorgoglirono. Da Ortega y Gasset, che ritrovava le abitudini socratiche anche sulle lontane coste spagnole, a Gottfried Benn che si inebriava delle colonie doriche e dei loro «cori oscuri». Anche chi stravedeva per gli islamici e ne venerava il monoteismo esemplare, il cattolico Louis Massignon arabista eccelso, pregando nelle notti mediterranee accanto all’eremita del deserto Louis de Foucauld (beatificato da Benedetto XVI), leggeva la storia tra i bagliori mistici e pensava a una missione silenziosa per far maturare i germi cristiani nascosti nel mondo musulmano.
Cervantes dunque fa dire a un nobile prigioniero che nel giorno della vittoria di Lepanto – in chiave autobiografica appunto sta parlando –, mentre si gioisce per la liberazione di quindicimila cristiani, viene fatto schiavo. Comincia una piccola serie di tormenti consueti nella condizione di schiavitù. I mori ‘tolleranti’, secondo la prassi dei rapitori ancora adesso in corso, premevano sui rapiti affinché scrivessero ai parenti per chiedere un riscatto, una somma cospicua che permettesse di riavere il giovanotto tenuto per anni alla catena, forzando magari un po’ le cose con tagli delle orecchie o delle mani che intenerivano chi in patria piangeva la loro sorte. I più poveri non avevano speranza, i più fieri non si piegavano al ricatto. La decapitazione o l’impalamento era il rischio di chi provava a fuggire. Ma c’era anche chi rinnegava la religione cristiana e diventava aguzzino dei suoi ex correligionari, occupando in poco tempo ruoli importanti, per la gioia degli apologeti degli ottomani che potranno farci riflettere ancora oggi sul potere multietnico che laggiù vigeva. Il narratore alla catena ricorda invece che «sebbene qualche volta, anzi quasi sempre, ci tormentasse la fame e non avessimo di che coprirci, nulla ci addolorava tanto come l’udire e il vedere ogni momento le orribili e inaudite crudeltà che il mio padrone [il rinnegato] commetteva sui cristiani». Cervantes inventa per la storia incastonata nelle avventure del cavaliere della Mancia un piccolo miracolo mariano e un piccolo miracolo d’amore a prima vista. Evangelizzazioni sottovoce di schiave cristiane che si rivolgono alle loro giovani padrone, lacrime di pentimento dei rinnegati, furbizie di altri rinnegati che desideravano tornare in patria e avevano bisogno di testimonianze scritte dei loro prigionieri per vantare un po’ di umanità, come nelle vicende dei campi della guerra mondiale, come nelle prigioni sovietiche. Dimenticata del tutto questa epopea mediterranea, questa epopea cristiana, cancellata dall’album dei ricordi, mentre già nella scuola elementare si riempie la testa dei bambini con le Crociate da dannare, senza un accenno a quell’ardimento per difendere i confini della geografia biblica, senza fornire le spiegazioni ideali che furono accampate nei secoli, riducendo invece tutto, come si fa oggi in ogni campo, a una faccenda di soldi. E senza avvertire grandi e piccini che una simile autoflagellazione dell’occidente, ovvero tanto spirito critico così introvabile altrove deriva pure da quel cristianesimo che ci ricorda a ogni piè sospinto di essere tutti peccatori, «mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa», come recita il messale tridentino, che prescrive anche di accompagnare le parole del Confiteor con il gesto di percuotersi il petto.
Ci si è dimenticati nel frattempo che, secondo il verbo coranico, cristiani ed ebrei erano una sottospecie umana e per questo dovevano pagare tanti soldi in cambio della sopravvivenza. Così che quella che oggi chiamano miracolo della tolleranza pare a dire il vero più uno scambio mafioso, mentre i cristiani che volevano convertire tutti perché volevano salvare tutti i viventi di questo mondo sono bollati come fanatici. Ci siamo dimenticati che i nostri eroi, El Cid, Orlando e i suoi nobili Paladini (su cui formammo, spettatori dei burattini, il nostro senso dell’onore), insieme a tutti i divini personaggi di Ludovico Ariosto, combattevano in difesa di questa riva. Quanti Gano di Magonza con abituccio culturale si vedono in giro. Dimentichi anche del catalano Raimondo Lullo, il gigantesco logico medioevale, l’autore dell’Ars magna, il maestro di Pico della Mirandola e di Leibniz, l’anticipatore delle intelligenze artificiali, il geniale alchimista che percorse le coste mediterranee per predicare una crociata filosofica, e che fu a stento sottratto al linciaggio dalle parti di Tunisi, tra gli ‘inventori’ della tolleranza (come insegna il dogma delle banalità contemporanee). Per i morti di Otranto, per il massacro degli ottocento salentini, ci volle l’arte barocca di Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi; papa Ratzinger li volle santi ma rendendone nota la canonizzazione insieme all’annuncio delle sue dimissioni da pontefice, questa clamorosa notizia fece subito ridiscendere l’oblio su quelle povere ossa. Dimenticata allora anche da Roma la lunga pagina della persecuzione cristiana nel Mediterraneo, si conceda a dei donchisciotteschi, come son tutti gli scribacchini dei blog, di renderle omaggio con un fiore.
«Voi non siete del mondo… per questo il mondo vi odia» (Gv 15,19). Si provi pure a mitigare l’odio terribile, si venga a compromesso, secondo il realismo romano, ma quando quel mondo riecheggia le nostre parole, quando plaude perché il cattolico parla come il laico più corrivo, perché celebra il medesimo rito, qualche dubbio sarà legittimo nutrire sullo snaturamento della Chiesa.
DI RICORDARE LE ALTRE VITTIME
DEL MARE CHE CI CIRCONDA ~
«In questa pietà popolare si guadagna in sensibilità e si perde in visione. Se sentivano meno, altre epoche vedevano di più, anche se vedevano con l’occhio cieco, profetico, insensibile dell’accettazione, vale a dire della fede. Ora in assenza di questa fede siamo governati dalla tenerezza. Una tenerezza che da tempo, staccata dalla persona di Cristo, è avvolta nella teoria. Quando la tenerezza è separata dalla sorgente della tenerezza, la sua logica conseguenza è il terrore. Finisce nei campi di lavoro forzato e nei fumi delle camere a gas».
Flannery O’Connor, A Memory of Mary Ann, 1961
«Negli ultimi tempi, secondo Giovanni, gli uomini saranno “con parvenza di pietà ma rinnegatori di quel che ne è l’essenza vera” (2 Tm 3,5). E infatti mai come ora si riconoscono diritti a tutti, si nega la schiavitù, si parla della nobiltà dell’uomo, di giustizia di pace di libertà di fratellanza».
Sergio Quinzio, Diario profetico, 1958
Dedicando un po’ del lento tempo estivo alla rilettura del Don Chisciotte, si era giunti questo lunedì 8 luglio – ovvero proprio nel giorno in cui i media macinavano barchette, fuggiaschi, naufragi – ai capitoli XXXIX-XLI della prima parte del romanzo, dove si interrompono le avventure del folle hidalgo per narrare le più tragiche storie dei prigionieri di guerra, delle vittime dei saccheggi, dei bottini umani che a quel tempo i musulmani facevano tra i cristiani (talvolta con la complicità o la concorrenza di qualche cristiano). Cervantes conosceva la materia: arruolatosi da giovane nella guerra benedetta dal papa, era finito per capriccio della fortuna nelle mani dei mori subito dopo aver vinto la battaglia di Lepanto. Cinque anni nelle galere, remando in catene nelle navi facili al capovolgimento, di volta in volta venduto dai mercanti islamici di carne umana, dalla Grecia ad Algeri, sognando di tornare nel mondo cristiano. Uno dei massimi scrittori della letteratura che chiamiamo universale, un campione del canone occidentale, patì le sofferenze di decine di migliaia di uomini e donne che trascorsero parte della loro vita in cattività presso i nordafricani d’altra religione. Dal XVI secolo al XIX si contano un milione di martiri cristiani, un milione di morti. Nessuno lancia più un fiore per loro nelle acque mediterranee. Nessun pastore celebra il ricordo degli eroi che resistettero al rinnegamento della verità evangelica, gesto che avrebbe permesso loro un ritorno tra gli umani, secondo le regole ‘tolleranti’ dell’islam. Per lenire tali sofferenze perciò, per strappare quei giovani europei alle umiliazioni, alle violenze, ai ricatti, san Giovanni de Matha, seguendo le indicazioni degli angeli – raccontano gli agiografi – fondò la compagnia dei trinitari, con la missione di liberare gli schiavi cristiani. «In exitu Israël de Aegypto» è il salmo che cantavano i prigionieri appena liberati tornando in patria e andando a ringraziare solennemente Dio nelle chiese. Cervantes fu salvato proprio da un frate di san Giovanni de Matha. Francesco d’Assisi volle conoscere questo intrepido fondatore: gli diventò amico, condivise la missione, quell’amore per i fratelli in Cristo. In altra occasione, Francesco che non era un predicatore di sentimentalismo invocò battesimi di sangue, propose ordalie: non varcò il mare per compiacere i mori ma per testimoniare il vangelo anche presso di loro. Un fiore per il santo provenzale e un fiore per Francesco d’Assisi. E un fiore per san Pietro Nolasco, che organizzò l’ordine dei mercedari con il medesimo scopo di sottrarre uomini alla schiavitù islamica. Ma Braudel ricorda nel suo smisurato studio del Mediterraneo che anche prima di Maometto, dalle rive africane partivano attacchi di pirati pagani contro l’Europa e soprattutto contro la penisola italica che si distendeva verso quei lidi. Quante guerre e quanti morti nelle acque che i visionari ‘multietnici’ immaginano come un laghetto alpino, un pelago di dialoganti. Nel Novecento le fantasie degli europei che non inseguivano la modernità atlantica tornarono a concentrarsi sul bacino dove sorsero le nostre civiltà, sui loro dèi, le loro leggi, i traffici mentali che ci inorgoglirono. Da Ortega y Gasset, che ritrovava le abitudini socratiche anche sulle lontane coste spagnole, a Gottfried Benn che si inebriava delle colonie doriche e dei loro «cori oscuri». Anche chi stravedeva per gli islamici e ne venerava il monoteismo esemplare, il cattolico Louis Massignon arabista eccelso, pregando nelle notti mediterranee accanto all’eremita del deserto Louis de Foucauld (beatificato da Benedetto XVI), leggeva la storia tra i bagliori mistici e pensava a una missione silenziosa per far maturare i germi cristiani nascosti nel mondo musulmano.
Cervantes dunque fa dire a un nobile prigioniero che nel giorno della vittoria di Lepanto – in chiave autobiografica appunto sta parlando –, mentre si gioisce per la liberazione di quindicimila cristiani, viene fatto schiavo. Comincia una piccola serie di tormenti consueti nella condizione di schiavitù. I mori ‘tolleranti’, secondo la prassi dei rapitori ancora adesso in corso, premevano sui rapiti affinché scrivessero ai parenti per chiedere un riscatto, una somma cospicua che permettesse di riavere il giovanotto tenuto per anni alla catena, forzando magari un po’ le cose con tagli delle orecchie o delle mani che intenerivano chi in patria piangeva la loro sorte. I più poveri non avevano speranza, i più fieri non si piegavano al ricatto. La decapitazione o l’impalamento era il rischio di chi provava a fuggire. Ma c’era anche chi rinnegava la religione cristiana e diventava aguzzino dei suoi ex correligionari, occupando in poco tempo ruoli importanti, per la gioia degli apologeti degli ottomani che potranno farci riflettere ancora oggi sul potere multietnico che laggiù vigeva. Il narratore alla catena ricorda invece che «sebbene qualche volta, anzi quasi sempre, ci tormentasse la fame e non avessimo di che coprirci, nulla ci addolorava tanto come l’udire e il vedere ogni momento le orribili e inaudite crudeltà che il mio padrone [il rinnegato] commetteva sui cristiani». Cervantes inventa per la storia incastonata nelle avventure del cavaliere della Mancia un piccolo miracolo mariano e un piccolo miracolo d’amore a prima vista. Evangelizzazioni sottovoce di schiave cristiane che si rivolgono alle loro giovani padrone, lacrime di pentimento dei rinnegati, furbizie di altri rinnegati che desideravano tornare in patria e avevano bisogno di testimonianze scritte dei loro prigionieri per vantare un po’ di umanità, come nelle vicende dei campi della guerra mondiale, come nelle prigioni sovietiche. Dimenticata del tutto questa epopea mediterranea, questa epopea cristiana, cancellata dall’album dei ricordi, mentre già nella scuola elementare si riempie la testa dei bambini con le Crociate da dannare, senza un accenno a quell’ardimento per difendere i confini della geografia biblica, senza fornire le spiegazioni ideali che furono accampate nei secoli, riducendo invece tutto, come si fa oggi in ogni campo, a una faccenda di soldi. E senza avvertire grandi e piccini che una simile autoflagellazione dell’occidente, ovvero tanto spirito critico così introvabile altrove deriva pure da quel cristianesimo che ci ricorda a ogni piè sospinto di essere tutti peccatori, «mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa», come recita il messale tridentino, che prescrive anche di accompagnare le parole del Confiteor con il gesto di percuotersi il petto.
Ci si è dimenticati nel frattempo che, secondo il verbo coranico, cristiani ed ebrei erano una sottospecie umana e per questo dovevano pagare tanti soldi in cambio della sopravvivenza. Così che quella che oggi chiamano miracolo della tolleranza pare a dire il vero più uno scambio mafioso, mentre i cristiani che volevano convertire tutti perché volevano salvare tutti i viventi di questo mondo sono bollati come fanatici. Ci siamo dimenticati che i nostri eroi, El Cid, Orlando e i suoi nobili Paladini (su cui formammo, spettatori dei burattini, il nostro senso dell’onore), insieme a tutti i divini personaggi di Ludovico Ariosto, combattevano in difesa di questa riva. Quanti Gano di Magonza con abituccio culturale si vedono in giro. Dimentichi anche del catalano Raimondo Lullo, il gigantesco logico medioevale, l’autore dell’Ars magna, il maestro di Pico della Mirandola e di Leibniz, l’anticipatore delle intelligenze artificiali, il geniale alchimista che percorse le coste mediterranee per predicare una crociata filosofica, e che fu a stento sottratto al linciaggio dalle parti di Tunisi, tra gli ‘inventori’ della tolleranza (come insegna il dogma delle banalità contemporanee). Per i morti di Otranto, per il massacro degli ottocento salentini, ci volle l’arte barocca di Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi; papa Ratzinger li volle santi ma rendendone nota la canonizzazione insieme all’annuncio delle sue dimissioni da pontefice, questa clamorosa notizia fece subito ridiscendere l’oblio su quelle povere ossa. Dimenticata allora anche da Roma la lunga pagina della persecuzione cristiana nel Mediterraneo, si conceda a dei donchisciotteschi, come son tutti gli scribacchini dei blog, di renderle omaggio con un fiore.
«Voi non siete del mondo… per questo il mondo vi odia» (Gv 15,19). Si provi pure a mitigare l’odio terribile, si venga a compromesso, secondo il realismo romano, ma quando quel mondo riecheggia le nostre parole, quando plaude perché il cattolico parla come il laico più corrivo, perché celebra il medesimo rito, qualche dubbio sarà legittimo nutrire sullo snaturamento della Chiesa.
3 commenti:
Grazie.
Da quel terribile 28 febbraio e dal successivo sconcertante 13 marzo, son passato spesso di qui per cogliere un cenno, una parola non banale. Grazie a questo problematico 8 luglio, oggi sono stato esaudito.
quei fiori in mare che tanto la indignano potrebbero rendere più difficili mattanze cristiane nel mondo islamico e forse sono gettati come la rete di Pietro pensando a nuove evangelizzazioni. Non si lasci contaminare dalle emozioni del contingente che potenti attirano la sua insofferenza al contingente
La mancanza di articoli determinativi nel suo messaggio fa pensare a un lettore straniero che non padroneggia la nostra lingua e che non ha capito quel che si voleva dire: chi mai si può indignare per i fiori lanciati in mare? Casomai si propongono ulteriori omaggi floreali. Quanto alla rete di Pietro,non si tratta di un laccio subdolo, di un lancio strategico per conquistare pubblico. Infine,non si preoccupi, nel trionfo delle emozioni qui si cerca di mantenere i nervi saldi.
Posta un commento