~ LE DERIVE NICHILISTE
DEL CULTO DI THANATOS ~
Ai tempi della guerra fredda tra Razionalisti e Irrazionalisti anche la sinistra si divideva su questi fronti. Non a caso, il Lukács più ortodosso scagliava i fulmini ‘antifascisti’ su opere e autori che aveva prediletto in gioventù, ammonendo che la seduzione del mondo in disfacimento conduceva direttamente ai Lager: tanto zelo era segno che la potenza dell’individualismo e il fuoco della Lebensphilosophie incantavano anche i marxisti. Il classicismo era utilizzato allora non solo per le metropolitane di Stalin ma anche per stroncare le avanguardie occidentali. Il conte Ranuccio Bianchi Bandinelli, che da giovane ed eccelso archeologo era stato incaricato di far da guida al cancelliere tedesco nella sua visita a Roma, provando disgusto per i fremiti tardo-romantici del Führer, nel dopoguerra teneva la barra a dritta della cultura comunista: così se Einaudi si permetteva l’eccentricità di pubblicare un autore come Frobenius, l’introduzione che gli apponeva il nostro antichista censurava l’etnologo tedesco. «Si arriva, di un passo, al razzismo di Rosenberg», all’Heidegger a quei tempi epurato dai vincitori, «alle teorizzazioni del moderno ‘astrattismo’ nelle arti figurative e giù giù sino alle più disfatte esperienze contemporanee che, col rifiuto appunto di ogni elemento razionale, teorizzano il ritorno all’abbandono infantile (dadà, ecc.) e l’arte automatica, cioè le forme tracciate inconsciamente dal pennello intriso di colore (come usa negli studi à la page della 57ª strada est di New York, specialmente dopo abbondanti libagioni)». Nonostante la sconfitta della cultura europea, i residui del pensiero classico resistevano in Italia al Piano Marshall delle idee e delle forme, magari nelle fortezze sovietiche e con la demagogia che trasuda da questa citazione. Dall’altra parte, minoritari in quella stagione, avanzavano coloro che provavano a coniugare gli esiti romantici con la rivoluzione, la religiosità sfuggente e la soteriologia sociale, l’utopia e lo stalinismo. Un misticismo senza religione, una vita estetizzata senza più arte. Questa aveva perduto la sua funzione consolatrice, di farmaco per temperare le angustie della vita. Casomai un eccitante, una droga. I più composti parlavano di mito e per esorcizzarne i rischi agli occhi degli storicisti si rifacevano a due autori consacrati anche a sinistra: Károly Kérenyi e Thomas Mann. Supplivano i riferimenti all’Angelus Novus imbestiato di Klee e le citazioni preziose di Benjamin, ancora sottratte alla fama, che un giorno ci sommersero. Saggi sparsi dei primi Sessanta sono raccolti in un librino Einaudi uscito nel 1968 a firma di uno dei personaggi più rispettabili di quella cerchia: Furio Jesi. Mentre già irrompeva la moda della demitizzazione, Jesi pubblicava questo Letteratura e mito e, pur con mille distinguo, con sensi di colpa e giustificazioni, l’anno prima aveva raccontato, non ancora trentenne, la Germania segreta, l’esoterica cultura tedesca del Novecento che ruotava intorno a quel George-Kreis zeppo di ebrei dove era stato rinvenuto il simbolo della svastica, riproponendo la fatale attrazione germanica per la morte, che Celan aveva detto in versi duri: «der Tod ist ein Meister aus Deutschland» (la morte è un maestro tedesco). Il gesto magico, la cultura della tradizione, il sapere della destra venivano accostati come fossero avvolti da un’aura demoniaca: mito era una parola scandalosamente ambigua. Libro minore, che ha avuto qualche ristampa per poi essere giustamente dimenticato, Letteratura e mito risulta però una testimonianza fedele di un’epoca, di un giro di ‘umanisti’ che mantenevano un legame, confuso e sotterraneo, con l’indicibile. Talvolta appare grottesca questa confraternita italica che raccoglie gli junghiani e Cesare Pavese, gli avanguardisti e Calvino sistematore di fiabe, il cantore dei «ragazzi di vita» e i devoti dell’arcaico, dell’oscurità popolare, tutti militanti a sinistra, che si districavano tra storicismo, realismo, hegelismo, ecc. sulle pagine dell’«Unità». «I moderni voyeuristi del sacro» (Quinzio), i moderni voyeuristi del mito, si potrebbe dire; eppure ci piace riportare qualche citazione dalle riflessioni di Jesi perché in quegli stessi anni la cultura cattolica sembrava presa da opposte passioni: moderni voyeuristi del mondo, i suoi rappresentanti e i suoi pastori si lasciavano incantare in ritardo dalle più piatte teorie della storia che già deludevano i migliori marxisti.
Dietro alla mitologia moderna, c’è – si accorge Jesi – la «dominante di morte», in cui si articola cioè la melodia funebre, la «religione della morte nei suoi aspetti più nichilistici». Il mistagogo erudito non ha dubbi su quanto si nasconde nelle avanguardie e non si lascia distrarre dai colori vivaci, dalla simulazione del ludico: esse si misurano con il «volto gorgonico (e cioè con l’antico volto della morte)», perché scendono nella «zona di tenebre», dice molti anni prima del saggio di Jean Clair su Medusa. «Già negli espressionisti la frequenza di immagini apocalittiche e l’insistenza sui motivi di distruzione, che è soprattutto autodistruzione, fanno sospettare che in essi si precisino le linee di una vera e propria religione della morte». In quel tempo, l’espressionismo più o meno astratto era il dernier cri del dibattito estetico in Italia, come fosse una autentica novità da contrapporre al realismo socialista in nobile gara su chi meglio rappresentasse la rivoluzione. «Impegno sociale, attivismo, sono negli espressionisti probabilmente solo una maschera, imposta soprattutto dalla coscienza che si difende contro il predominio dell’inconscio dalla necessità di trovare maschere e giustificazioni per un atteggiamento che ritiene colpevole». D’altronde, «potremmo dire che la moderna avanguardia ha scaricato le colpe che riteneva proprie sull’esperienza del predecessore, quasi fosse incapace di assumersi fino in fondo la responsabilità del proprio avanzare in regioni pericolose». Si riferiva alla riscoperta di Bachofen e Moreau, ma si adatta in generale allo scontro padri/figli che è la ragione delle avanguardie. Mettendo a fuoco l’essenza del movimento espressionista, Jesi insisteva: «Ciò che l’espressionismo vede come sacro è precisamente la morte; è la morte il suo grande repertorio di miti. Essa domina nei simboli ricorrenti: la maschera, la donna che è piena di morte come la Lulu di Wedekind, l’assassino, la notte, la città (che è popolata di demoni […]), il tramonto, il ritorno da un luogo o da un’impresa di morte (motivo del ‘reduce’), la mutilazione (che può essere castrazione […]), il cimitero come quadro di drammi che hanno per protagonisti dei viventi mescolati coi morti […]». E questi simboli mancano dell’istituto iniziatico «che garantiva la perenne partecipazione della vita alla morte», ormai si presentano come terrifici, extraumani, quel «terrifico» che si affaccia nelle vesti luttuose degli angeli rilkiani come nell’«inorganico» di Jung. Né gli antropologi né gli etnologi – ammette Jesi con onestà – sono estranei a una simile religione della morte (ma proprio questa franchezza spezzò l’amicizia con Kérenyi che, letto il saggio che lo accusava d’essere un adepto nascosto della religio mortis, replicò furibondo: «trovo nel Suo saggio il concetto di ‘mascheratura’ palesemente di fabbricazione italo-comunista»).
Su una riva dunque la cultura del materialismo piatto, delle spiegazioni facili dei misteri umani, sull’altra un mistero feticizzato (quando non manipolato per fini di dominio) che diffonde il nichilismo di massa. Si annuncia così da parte dei cultori del mito «l’ora in cui l’estetica diviene impossibile e assurda, in cui la parola ‘bello’ è priva di significato reale e l’uomo si trova dinanzi al solo problema di salvare la propria anima». Purtroppo nessuna Chiesa viene in soccorso perché perfino il cattolicesimo recente sembra accogliere favorevolmente questa proibizione del bello, mentre la salvezza dell’anima perde ogni collegamento con il corpo, diventa inabissamento nell’interiorità, segregazione.
In mancanza di questo incontro, nell’eclisse della cultura cattolica o anche genericamente cristiana, si ricorse ai «sacramenti» della cultura della morte. Incapaci di raffigurare anche gli dèi pagani, di riecheggiare il Verbo, non restava che l’immagine accecata, il simbolo silenzioso, e si registrava un fatalismo «simile a quello che nel cuore della Riforma coincise con una singolare rinascita della fiducia nella scienza astrologica».
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