mercoledì 28 agosto 2013

L'inviato ai confini del mondo

~ L’INTERVISTA IMPOSSIBILE
 DI ORIO VERGANI 
AL SANTO DEL GARGANO ~

Orio Vergani (1898-1960), amico di Federigo Tozzi, inviato speciale del «Corriere della Sera», alternava la terza pagina alle cronache d’ogni tipo. Nella mitologia giornalistica c’è chi lo definì un poligrafo: scriveva di tutto, d’arte, di letteratura, di costume, di jazz, di sport, perfino di cucina, oltre a essere autore di racconti e di commedie. La leggerezza, tanto ambìta nel mestiere giornalistico, era la sua virtù. Nell’aprile del 195o corse da padre Pio per intervistarlo ma una volta raggiunto il Gargano capì che la forma intervista non si addice ai santi. Anni dopo trascrisse in un diario questi ricordi della visita al «paesello» pugliese. 

«Era l’aprile di otto anni fa quando, per mestiere, fui mandato a san Giovanni Rotondo, un paesello ai confini del mondo, più isolato di un’isola, fra greggi e casupole desolate, in un mondo dove l’acqua si conta a gocce, dove le pecore brucano vicino al muro del convento e dove chi parla sembra fioco per il gran silenzio.

Mi chiesero se fossi venuto per confessarmi. Avrei potuto farlo nel tardo pomeriggio. La mattina era riservata alle donne che dovevano ritirare il giorno avanti il biglietto di prenotazione. Non ero lì né per confessarmi, né per comunicarmi. Avrei dovuto intervistare padre Pio. Ma non lo dissi, non lo chiesi. Intervistare: la parola era grossa: un peso di piombo sulla lingua. Non si intervista un uomo che da trentadue anni porta alle mani, ai piedi, al costato, i segni delle stimmate. Non si può stare con un taccuino in mano davanti a uno di cui la gente dice: “È un santo”. Decisi di essere soltanto uno fra i tanti, fra la moltitudine che all’alba affolla, assedia la chiesa di San Giovanni, dove alle sei di mattina padre Pio, in un confessionale protetto da una ringhiera di ferro, ascolta i fedeli. 

Ecco che la chiesa che non ha propriamente una facciata, innestata com’è entro il fabbricato del convento. È poco più grande di una cappella, ornata di decorazioni geometriche ottocentesche, come gli imbianchini le copiavano dai manuali. Il pavimento è di mattoni, le navate e l’ingresso sbiancati a calce. L’altare dove, all’alba, padre Pio dice messa è lo stesso davanti al quale disse messa la mattina del 20 settembre 1918, pochi minuti prima che si manifestassero le stimmate, quando il frate fu colto, inginocchiato in coro, da breve deliquio. È un altare rustico, dedicato a san Francesco, con ornamenti di stucco di nessuna pretesa. 

Tutta la chiesa – dall’ingresso alla navata, dagli altari alle porte, dalla sagrestia ai davanzali delle finestre che si aprono sull’orto – è “scritta a matita”. Non si portano ex voti a San Giovanni Rotondo: non si murano, come si faceva a Lourdes, piccole lapidi marmoree di ringraziamento. Il nome di padre Pio, per i suoi compagni religiosi, è ancora quello di un fratello, anche se forse sarà un giorno quello di un santo. Il suo nome non può essere inciso nel marmo e, in suo nome, non possono essere offerti agli altari cuori d’argento. I frati non lasciano che l’omaggio assuma un carattere che sarebbe in opposizione all’attesa della Chiesa. Ma chi può impedire che si scriva a matita a padre Pio? Dall’alba alla sera, la chiesa è aperta. Non c’è giorno, non c’è ora che la chiesetta del villaggio pugliese non veda, la più parte in ginocchio, i suoi trecento fedeli. Nell’attesa della confessione, nel timore che l’incontro con padre Pio sia, attraverso la grata del confessionale, troppo breve, molti tirano fuori una matita e affidano le loro richieste a qualche parola scritta su un muro. Così la chiesa è tutta scritta in minutissime missive a matita, in infinite implorazioni, in suppliche senza numero, in pubbliche confessioni di dolore, tutte firmate, molte con l’indirizzo, come se padre Pio potesse rispondere. La gente sa che padre Pio non può leggerle: ma è sicura che le legga ugualmente, anche se i suoi occhi non si fermano su di esse. Se si crede alle sue trentennali stimmate, perché non si può credere che il frate legga tutte le implorazioni scritte sui muri di San Giovanni? Ogni tanti mesi, i frati scendono in chiesa, di notte, con un mastello di calce, e cancellano tutto: ma nessuno dubita che, intanto, la preghiera di padre Pio abbia interceduto per tutti.

Sono in piedi, fra gli uomini, sotto la loggia dell’organo, fra due contadini e ho vicino dei giovani studenti con i pacchi di libri e un vecchio cieco. Davanti ho lo stuolo delle donne inginocchiate o sedute sulle seggiole: donne venute da lontane borgate, ragazzette con il fazzoletto fiorato sui capelli, vecchie dallo scialle nero. Molte si sono già confessate, altre si confesseranno, secondo il turno di prenotazione, domani o dopodomani. In piedi, sono rimasto per tre ore a guardare padre Pio, al di là del suo gregge. Guardavo il frate, che avrei dovuto intervistare, e sentivo che tutto il mio giornalismo, tutto il mio mestiere, tutte le mie domande e tutte le mie parole si perdevano come uno spillo in un pagliaio davanti alla estrema semplicità di ciò che i miei occhi vedevano, tanto era profondo l’abisso di interrogativi che mi veniva aperto da quella semplice immagine di frate-contadino seduto – è così da trentadue anni – nel rustico confessionale, ad ascoltare, una volta a destra, una volta a sinistra secondo il turno delle due lunghe file, la storia dei peccati del mondo. 

Frate-contadino: e infatti padre Pio è figlio di contadini, e la sua figura e il suo volto sono campagnoli come certi vecchi butteri che vidi, da ragazzo, nelle praterie dell’Agro romano, come di certi vecchi capi-pastori che ho incontrato sui tratturi delle Murge e nei pascoli dell’Appennino di Calabria e di Lucania. La sua figura è massiccia, corta barba brizzolata e corti i capelli. L’ascetismo non ha sul suo viso i caratteri che comunemente gli si attribuiscono: ma, piuttosto, quelli di una profonda e pacata convinzione. Sulla sua scranna andava piegandosi ora a destra ora a sinistra per ascoltare; nelle mani raccoglieva le lettere e le immagini che gli davano da toccare; ogni tanto, levava una mano come per riposarla da un nascosto tormento e, ogni tanto, traeva un profondo respiro spostandosi sul fianco destro, come per riposare il sinistro affaticato. Il suo viso non mutava espressione. Solo si mostrava infastidito se le donne, invece di allontanarsi dopo la confessione, restavano in ginocchio davanti a lui: e le mandava via con un colpo del gran fazzoletto. Confessava all’alba. Il suo gesto diceva, ogni tanto, alle donne assedianti e troppo addossate alla ringhiera, che lo lasciassero respirare, che la smettessero di stargli con gli occhi piantati addosso, che lo lasciassero soffiarsi il naso in pace. 

Se si può dire “mi piacque” del gesto di uno di cui tutti attorno dicevano: “È un santo!”, mi piacque proprio quella sua un po’ rude schiettezza, quel suo mettere ordine, con un gesto, nelle due file, proprio quel fare pastorizio e pastorale a un tempo. Guardavo le sue mani, coperte da mezzi guanti di lana bruna: quelle mani che, goccia a goccia, lentissime, sanguinavano da trentadue anni. E pensavo che fosse di poca fede dolersi di non poterle vedere nude. 
 
Si alzò che era vicino il mezzodì. Lo stuolo delle donne era in ginocchio, per toccare la sua tonaca, i suoi piedi, le sue mani. Udii la sua voce un po’ spazientita, una voce quasi napoletana, che diceva: “Mi lasciate passare, insomma?”. I due frati che erano venuti a prenderlo erano un po’ bruschi. Fra di loro, padre Pio si faceva largo a colpi di fazzoletto. Lo seguii in sagrestia, con la folla silenziosa che non lo abbandonava un momento: mi mescolai a quelli che, mentre indossava il camice per la comunione, tentavano in trenta, in quaranta, di dargli qualcosa, di ottenere una parola. Padre Pio andava vestendosi e tutti volevano aiutarlo e finiva, così, che gli facevano perdere tempo. Chi lo tirava per una manica e chi per un’altra, sommessi e supplici, un po’ invadenti. “Mi volete strappare le braccia? Mi volete proprio strappare le braccia?”, andava ripetendo. Ma i suoi occhi non erano infastiditi, anche se la voce poteva sembrare corrucciata. Gli dissero, in mezzo al vocio delle implorazioni, chi ero e il mio mestiere e che ero venuto apposta da Milano per vederlo. “Questo gran viaggio per vedere me?”, disse sorridendo, il vecchio frate-contadino. “Bella cosa, bella cosa siete venuto a vedere, da Milano! Non avete, a casa, un libro di preghiere? Era un viaggio risparmiato, Dio vi benedica. Un’Ave Maria vale più di un viaggio, figlio mio!”» (da O. Vergani, Misure del tempo. Diario, a c. di N. Naldini, Dalai editore, 2003, pp. 533.536). Quanto si sarebbe stupito il santo frate-contadino dell’interesse spasmodico della gerarchia per i mass media.

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