~ CRISTINA CAMPO E FRANCESCO DI SALES:
LA SANTITÀ DELLE BUONE MANIERE ~
In un ritrattino abbozzato per la sua Galleria di grandi dame, Pietro Citati provava a effigiare Cristina Campo per coloro che la videro solo in fotografia (a suo parere, traditrice di quel singolare volto bianco e ascetico). L’«anacoreta» con «garbo mondano» – secondo il chiaroscuro di cui si serve l’autore – è una figura chiave del cattolicesimo della fine Novecento, quando la Chiesa pareva inchinarsi al mondo, presa da una sordida passione per l’attualità. Confondendo il fasto mondano con il dominio di Satana, gettava tra i rifiuti le più preziose reliquie della tradizione mentre si sottometteva ai riti mortiferi dell’Onu, alle futilità delle polemiche politiche, all’effimero dei giornali, al decalogo dei diritti dell’Ottantanove, alla spazzatura di una stagione editoriale, giù fino alla ripetizione, ancora oggi, delle parole stralunate imposte dalla moda, per cui la gaiezza diventa simbolo della sodomia (espressione del Vescovo di Roma in concitate chiacchiere con giornalisti). Vedere i rappresentanti di Cristo spogli della aurea bellezza liturgica (che è riflesso del cielo), ma proni di fronte alla trivialità del mondo, suscita brividi. Dove è finito quel disgusto cristiano per il secolo? L’ultimo Concilio aveva prescritto in modo ossessivo e poco evangelico l’«apertura al mondo» invece di fare barriera al principato temporale. Non era più il compromesso mosso dal realismo romano, era una resa incondizionata, l’oblio del significato ultimo dei Vangeli. Ora, va bene che il cattolico ama tutta la creazione, frutto della generosità divina, anche le realtà più ripugnanti come «Sorella Morte corporale», ma fissarsi esclusivamente sullo stato cadaverico o sulla fotografia sociologica (un po’ si somigliano) è semplicemente un abbaglio, forse un vizio. Cristina reagiva a simili depravazioni culturali come una cavaliera ardente. Citati attribuiva l’eroismo della sua amica al «senso acutissimo della forma, come quasi nessuno ai nostri tempi». È per questo disinteresse infatti che il cattolicesimo crollava: veniva meno quella forma che era stata la sua anima. Aveva appena fatto in tempo a pronunciarne l’elogio, nel secolo XX, il filosofo del diritto Carl Schmitt, nel suo Cattolicesimo romano e forma politica, che quella forma si decomponeva, vittima degli espressionismi spirituali che soffiavano da tutti i nord della terra. Il diamante bimillenario, con la sua «superiorità formale», che pure sapeva incarnarsi «nell’esistenza concreta» (Schmitt), pareva frantumarsi. Il Grande Stile che aveva accompagnato la Chiesa di Roma lungo i secoli non esisteva più. Il giurista di Plettenberg fu così longevo da assistere al drammatico crollo, e sul tema borbottò assai in privato, ma non ebbe la forza di scrivere un’opera definitiva. Restava la sua Römischer Katholizismus und politische Form ad ammaestrare intorno a quello che aveva rappresentato per duemila anni la Chiesa di Roma su questa terra, e vi aggiungeva nel 1970 Politische Theologie II, un trattato che distruggeva la piccola politica dei preti ribelli (e dei piccoli laici), irridendo la leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, liquidazione che tanto rallegrava la gauche ecclesiastica, beata della sua demitizzazione.
Nel silenzio degli ultimi giganti, non restavano dunque che le controversie delle gazzette, facili a scivolare nel confronto destra/sinistra o, peggio, vecchi/giovani, come in un teatro di operetta. La grazia di Cristina Campo concesse allora un privilegio, una squisita indulgenza alla cultura cattolica declinante, un piccolo miracolo nell’Italia chiassosa del tempo che parodiava i furori della guerra civile dei padri, la brutalità del Sud America in fiamme. Questa «dama della Fronda», che esce dal ritratto di Citati «spiritosa e tagliente, amabile e crudele, piena di tatto e di violenza», ma anche «spossata» per le sue battaglie religiose, senza mai ambire a indossare i panni scuri della teologa, anzi sempre frivola e brillante, «alle volte, pensava a una religione che non nascesse contro il mondo, ma nel cuore stesso del mondo: che germogliasse, come nei libri di san Francesco di Sales, dalle forme perfette del vivere mondano. Pensava che le ‘buone maniere’, le ‘belle parole’, la ‘sprezzatura’ e la ‘naturalezza’ della società civile fossero la via migliore per arrivare alla santità». Stiamo leggendo una interpretazione di Citati, accennata nel suo Ritratti di donne, del 1992, e costruita su importanti dettagli che l’autore ha disseminato nel dipinto: «La vita mondana era gesto e la santità non era che gesto assoluto, che riassumeva in sé tutti i gesti belli e squisiti della nostra vita terrena». Lo si sottoscrive volentieri anche per l’impressionante assonanza con certe pagine di Hofmannsthal, una gloria letteraria del cattolicesimo. Educato nel «cerimoniale ecclesiastico», il viennese seppe, attraverso questa disciplina della forma, resistere alla fede nell’arte come salvezza. Insomma, il catechismo della esteriorità, il protocollo del rito, purificò anche l’arte dalle tante crudezze che l’esistenzialismo vi immetteva. In esergo alla sua opera, Hofmannsthal aveva posto una frase di Gregorio di Nissa: «L’amante della suprema bellezza, ritenendo ciò che aveva visto quasi un’immagine di ciò che non aveva visto ancora, aspirava a goderne l’originale medesimo». Il fasto permette di staccarsi dalle miserie umane, di conservare un’autonomia dallo spirito del tempo, dai tristi figuri delle tirannie, dai guerriglieri travestiti da messia, dal materialismo dei banchieri e dei socialisti. L’etimologia lo fa derivare da un verbo sanscrito che sta per ‘osare’, mostrare audacia, ardire. Il fasto è allora segno di coraggio, immagine gloriosa della dignitas che permette di parlare all’umanità con prestigio e influenza. La ricchezza spirituale deve avere una immagine facilmente percepibile, deve essere solennemente visibile, abbagliante come il sole. Avrebbe accondisceso anche un sommo pontefice del peso di Gregorio Magno: «Solo conservando per gli uomini alcune delle gioie del mondo, li condurrete più facilmente ad apprezzare le gioie dello spirito». Un fatto di armonia, anzitutto.
Il disprezzo per il mondo diventava, per l’autrice degli Imperdonabili, lo sprezzo dell’inferno moderno, del macchinismo che uccide quanto di più nobile ci sia sulla terra, dell’orgoglio ridicolo degli arconti; il culto della forma liturgica, la bellezza della precisione rituale, era la scala che conduceva alla perfezione, alla santità. Dovremmo ricorrere, tutti noi che veneriamo lo splendore del rito, alla protezione di François de Sales, che convertiva i protestanti in nome della bellezza e dell’eleganza intellettuale; e non è questione di Grand Siècle e di ambienti ginevrini, nella Puglia più arcaica, padre Pio sanguinava in piedi per celebrare una messa interminabile dove ogni passaggio sconfinava nell’eternità, dove il cerimoniale del sacrificio risultava più superbo di ogni coreografia angelica.
Peccato che all’acuto critico sfugga un particolare che avvalorerebbe più che mai la sua ipotesi sulla santità mondana di Cristina. Sottolineando l’amore per le forme belle, quasi l’accusa di un’insensibilità per il calco, per la Gerusalemme celeste, tutta presa com’era per Bisanzio, per «lo splendore delle pietre, della luce delle vesti, dell’esattezza sovrana dei gesti immodificabili [...], l’odore paradisiaco degli incensi». Già, era evidente, proprio a partire dall’incenso, dai profumi metafisici, che per la donna crociata della ‘messa in latino’ non c’era contrasto tra la Gerusalemme celeste e Bisanzio, tra il Paradiso e una chiesa qualsiasi su questa terra, dove si cerca d’essere, attraverso la rigorosa osservanza liturgica, specchio dell’aldilà, specchio del Dio incarnato, sommo sacerdote che celebra il rito eterno. La frase di Gregorio di Nissa, citata da Hofmannsthal, illumina sulla essenza della liturgia: la copia non rimanda all'estetica dell’antiquariato, accende invece un gioco di corrispondenze con l’originale, stabilisce le affinità simboliche, consacra il mondo, fa intravedere un anticipo di Paradiso.
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