SI OPPONEVA AL MONDO / 2 ~
~ DAL DIARIO DI KARL EUGEN GASS ~
Più che
un viaggiatore fu uno studente in Italia, Karl Eugen Gass (1912-1944), allievo
prediletto di Curtius, venuto a completare le sue ricerche alla Normale di Pisa
e successivamente a Roma per lavorare come bibliotecario di eccellenza a
Palazzo Zuccari presso la
Hertziana; infine strappato alla città eterna dalle vicende
belliche e spedito dalla Germania nazional-socialista a combattere nel Nord
Europa dove perse la vita.
Ma non
scendeva nella penisola soltanto per perfezionare i suoi studi di romanistica o
per calcare le orme dei grandi tedeschi. Nelle prime pagine del suo Pisaner Tagebuch (Diario pisano, 1937-1938, a c. di M. Marianelli, Pisa 1989) lo
aveva scritto esplicitamente in una specie di programma: «qui in Italia sarà
mio compito specifico riflettere su quella realtà che è la Chiesa nel nostro mondo
d’oggi» (p. 9). Lui era protestante ma, nel contrasto tra «il mondo d’oggi» e
il cristianesimo bimillenario, alla Chiesa cattolica anzitutto guardava.
Del
resto così sintetizzava l’umanesimo che venerava e che tentava di ricostruire
storicamente: «l’intento pio di non lasciare inutilizzato nulla di quella
preziosa eredità che nel breve respiro della nostra storia i migliori e i più
giusti tra noi hanno accumulato, per restituirla come possesso vivo all’epoca
attuale» (p. 36). Chi meglio della Chiesa di Roma – affermò una volta
Hofmannsthal – sarebbe stato l’aureo tramite tra l’antico e l’attuale? L’Andreas hofmannsthaliano era uno dei
due libri iniziatici del suo pellegrinaggio. L’altro scritto che guidava Gass
in questo regno del passato era il saggio di Borchardt sulla Villa, il mai troppo celebrato
discorso che introduceva le distinzioni fondamentali sulla natura in Germania e nella Penisola (alla luce di una religione venata di paganesimo latino): Villa e Andreas, i due testi che
meglio introducono nel Novecento l’animo tedesco all’italico approdo. In quel
tempo, Borchardt lavorava, a modo suo, a una «scienza del medioevo» che
nell’animo del giovane bene si accordava con il «medioevo latino» del suo
maestro alsaziano, ma l’eccentrico ebreo-tedesco disse subito, nel loro primo
incontro, di conoscere appena il nome di Curtius.
Sugli
italiani, Gass rovesciava critiche e giudizi taglienti, come capita ai giovani
che guardano con occhio acuto un mondo ammaliante quanto alieno. Talvolta
esagerava, secondo il solito andazzo tedesco per il quale, anche sotto le bombe
che distruggevano la Germania,
Curtius sosteneva che solo i tedeschi fossero capaci di «pensare in senso
storico», mentre Heidegger riteneva addirittura che solo i tedeschi sapessero
pensare; Gass si limitava ad argomentazioni polemiche come quando, per
avversione a Croce, accusava la filosofia italiana di «astrattezza», quasi
dimenticando che l’Idealismo fu invenzione tedesca e altrettanto germanico è il
vocabolario filosofico moderno, vòlto a tradurre l’‘indicibile’, anche nel
gergo che si vuole ‘esistenzialista’; più tardi comunque renderà omaggio al nostro filosofo (e a sua volta Croce lo gratificherà con una recensione siglata con le
iniziali «b.c.» su «La Critica»,
recensione, in verità alquanto
maligna, del testo di una conferenza tenuta all’Hertziana dal giovane studioso [anno 1940, n. 38]). Qua e là
tornava infatti il vizio teutonico per cui l’Italia è adorabile ma gli italiani
costantemente da correggere, per cui meglio sarebbe affidare il Belpaese alle
mani dei tedeschi quasi che la penisola germanizzata potesse mantenere in tal
contorto modo quel fascino che i tedeschi sono i primi ad apprezzare. Curtius stesso glielo
ripeteva spesso: Roma ma non gli italiani (non c’era che Hofmannsthal a rivendicare
l’onore dell’italianità e un po’ di sangue lombardo). Se filosofi e politici
arrivarono a concepire teoricamente una simile conquista del Sud, i letterati
non vantavano primati e non auspicavano occupazioni militari, pretendendo
soltanto di sottoporre alla propria scienza quei poeti e artisti italici che
altrimenti sarebbero stati incomprensibili, a parer loro, nell’arruffato,
dilettantesco, impressionistico pensiero degli indigeni. Insomma, ormai i
tedeschi sembravano essere gli unici in grado di comprendere i grandi italiani.
Anche i francesi, benché «amabili» e scintillanti, non fosse altro per via dei
venerati Rivarol e Baudelaire,
apparivano a Gass comunque confinati in un girone inferiore: a loro, nonostante
«la buona volontà, certe esperienze debbono restare inaccessibili» (p. 44). Non
restava che la Germania,
l’ultima arrivata nel gran teatro culturale d’Europa, a perfezionare l’eredità
tramandata nei millenni: la poesia tedesca del suo evo migliore, il mezzo
secolo tra 1780 e il 1830, poteva – dirà l’allievo di Curtius – arricchire
incomparabilmente i latini in fatto di umanità.
Questo
andava elaborando nelle sue carte, distaccandosi da quella eletta schiera dei
normalisti italiani che di lì a poco rifulgeranno nelle maggiori università
dell’Occidente, fiutando però la levatura di Contini, compiacendosi di
romitaggi romantici, di confraternite germaniche, di Bruderschaft, piuttosto indifferente davanti a quelle stanze
progettate dal Vasari e offerte generosamente in prestito agli studenti benché più
simili a una augusta dimora che a un collegio universitario. Anche nell’arte
italiana, intorno alla quale mostrava subito un notevole intuito, cercava
percorsi personali e solitari (sebbene molti siano i nomi warburghiani) . Ma
Pisa, le città e i paesaggi italiani, e soprattutto Roma trasformeranno i suoi
pensieri, le teorie della scuola di Curtius perfino, la sua stessa vita.
A
Firenze, nella chiesa dell’Annunziata, assiste a una messa solenne della notte
di Natale. Il latino che vi risuona, il ruolo ieratico del sacerdote, lo
portano a impegnarsi per fare «della sua stessa vita un servizio divino» (p.
121). Appena entrato nel tempio fiorentino, si lamenta, come spesso i tedeschi,
per la freddezza dell’architettura italiana, mancando delle decorazioni che
tanto incantano i nordici, alla maniera dei viennesi che, al termine del più
gustoso pasto, pretendono come piccoli golosi il décor dei dolcetti finali, un poco di panna lì, un poco di stucchi
qui. Si interroga pertanto sulla sontuosità dell’Annunziata e «su che mai
questa chiesa» potesse rappresentare per un ragazzo povero «di precoce
sensibilità o per una ragazzina forse cresciuta in un ambiente totalmente privo
di bellezza, nel gelo, nella sporcizia, nell’indigenza. Certo, un interno come
questo deve comunicar loro una sorta di rapimento mistico e insieme la
convinzione che esista un mondo più nobile e soprattutto più bello, dai colori
più smaglianti, dai profumi più intensi, che sta oltre il mondo di fuori, oltre
la lugubre strada invernale percossa dal vento freddo e così pungente. E quale
mai dovrà apparire ai loro occhi l’ordine delle sfere, e la realtà del mondo spirituale!
Senza dubbio saranno cose ben diverse da quell’interiorità protestante che in
nome della purezza del divino rifiuta ogni forma di trasfigurazione di questo
nostro mondo creaturale, rigetta ogni possibilità di potenziare, di
spiritualizzare questa nostra potente esistenza terrena, fidando, in tutta
schiettezza e in tutta umiltà, nell’opera redentrice della pura fede.
Sviluppandosi, gli istinti si divaricheranno necessariamente e nessuno potrà
più ignorare se lui stesso o i suoi antenati si siano inginocchiati davanti al
fulgore scarlatto di una corona di candele o davanti a uno spoglio altare di
legno. Solo perché era cattolico Baudelaire potrà scrivere le Fleurs du Mal» (pp.150-151). [Come nel
precedente articolo di questo «Almanacco», ritroviamo Baudelaire frutto della
liturgia cattolica: qui]. Rapida metanoia in una mezzanotte santa: tra l’Introibo e il Deo gratias di una messa di Natale, le iniziali preoccupazioni
degli eterni pauperisti, quelle preoccupazioni che discendono dal puritanesimo
protestante, trovano nello splendore del millenario rito le più vivide
risposte. Una pagina, sia detto tra parentesi, che dovrebbe esser consigliata
all’attuale capo della Chiesa cattolica affinché sia liberato dalle più
estenuanti credenze nei luoghi comuni imperanti. Si eviterebbe così anche di
strappare ai popoli meridionali la loro più immarcescibile fede nel fasto e
nelle processioni taumaturgiche benché intrise di paganesimo e talvolta di
peccaminose abitudini, affinché per presunzione di adunare una comunità
angelica, eticamente corretta e soggetta alle laiche leggi, non si uccida, nei
tormenti dell’umana natura, la residua speranza cristiana di salvezza.
Viandante
in Italia come si è tutti viandanti nel breve soggiorno su questa terra, Gass
giunse a Roma. Se il maestro in umanesimo aveva poca dimestichezza con la città
dei suoi studi, la ammirava prevalentemente nei libri e si era lasciato
prendere di tanto in tanto dagli estetici sortilegi fascisti, l’allievo che qui
venne a soggiornare, a studiare e a lavorare considerava la romanità fascista
una violenza alla tradizione, solo quella cattolica essendo l’erede della
civiltà imperiale e medioevale. Iniziava il suo diario romano secondo le
prescrizioni di Winckelmann, volgendo cioè gli occhi al cielo, raccontando quindi
ai compatrioti che non avevano mai valicato le Alpi i colori incredibili dell’atmosfera
locale, la luce unica. Questi «Appunti degli anni romani. 1939-1942» sono
contenuti in un volume di traduzioni che contiene l’epistolario con Curtius, le
lettere alla moglie, gli appunti sparsi, i diari di guerra, una sorprendente
raccolta di articoli sulla letteratura italiana del suo tempo e un raro
ritratto dell’autore schizzato dal primo dei due curatori: E. R.
Curtius - K. E. Gass, Carteggio e altri
scritti, a cura di Stefano Chemelli e Mauro Buffa, La Finestra editrice, 2009
(un prezioso volume che deprediamo copiosamente e raccomandiamo ai nostri pochi
lettori insieme all’intero catalogo delle nobili edizioni che si apparecchiano
nella tridentina Lavìs).
«La
verità, che davanti a me sta l’unica città europea nella quale si può parlare
di una unità della nostra storia», così s’apre il suo diario, celebrando
quell’unità «fruttuosa» più alla periferia che non al centro. Però «non si sta
seduti come uno spettatore davanti a una ribalta, ma ci si sente sopraffatti,
al centro di un ambito di scene in costante pericolo…». Sopraffatti, in
pericolo: provare a raccontarlo oggi ai turisti compiaciuti! Né il ventenne
tedesco contrappone al canto della gloria passata il grido di spavento, come accadde
ai padri fondatori della scienza delle emozioni, a cominciare da Jung che
crollò atterrito alla stazione di Zurigo appena acquistato un biglietto
ferroviario per Roma. Con tono fermo Gass afferra i caratteri dello scontro in
atto: «La preferenza dei tedeschi per Roma è difficilmente comprensibile poiché
c’è appena una seconda città che impersona così tanto tutte le forze
antitedesche» (p. 159). La battaglia tra Roma e la Germania, il cattolicesimo
come il vero avversario della violenza
imperiale: possiamo leggere in questa chiave l’ostilità del nunzio Pacelli e
poi papa con il nome di Pio XII verso il
socialismo tedesco che vuole dominare l’Europa?
Ostilità di un dotto uomo latino che ben conosce l’avversario. Già Pio
II, ben prima della ribellione luterana, teneva d’occhio la continua rivolta
della cristianità germanica ammaestrando sul carattere fruttuoso del potere
romano proprio per la periferia nordica.
In quella medesima epoca novecentesca
Carl Schmitt scrutava le forme del dominio cattolico, il fenomeno del conclave
per cui il «pastore abruzzese» democraticamente eletto diviene il signore
assoluto dell’universo spirituale, sottolineando soprattutto quel perenne umore
antiromano che si respirava più che mai nel mondo moderno, quella insofferenza
per la forma.
Aggiungeva
Gass, subito dopo la messa in scena del nuovo scontro Chiesa e Impero
germanico, che proprio del presente stava parlando: «La tensione fondamentale
carica del peso del destino della storia recente, tra l’antica tradizione che
continua a vivere e la forza del popolo germanico tendente al dominio, diviene
solo a Roma un problema che si autoimpone. Visto dalla Germania e da ogni
giovane nazione il conflitto non ha mai una realtà pienamente valida, sebbene
venga conosciuto dolorosamente nei suoi effetti, poiché l’antichità sembra
qualcosa di morto, passato, superato, e tutto il diritto vitale viene assegnato
ai popoli del nord. A Roma invece il mondo antico si mostra nella sua potente
realtà che non è tramontata perché la sua concezione politica, l’impero romano
[…] ha trovato nella chiesa cattolica un esponente del suo bene spirituale.
L’originale sentimento del luogo a Roma è quello del centro» (160). Ne consegue
che se quel «centro» viene sottoposto alla periferia del mondo non si tratta di
una santa umiliazione o di un francescanesimo arrabattato, bensì dello
sconvolgimento della teologia politica, della distruzione dell’universalismo
cattolico. Postilla infatti il visitatore della Roma anni trenta: «In esso
[centro] alberga l’unità e la durata, alla periferia appartengono le molteplici
forme della testimonianza. Chi si dedica all’universale è di casa a Roma: il
sacerdote e l’artista. Invece Mussolini e la sua politica nazionale si trovano
in una Roma fittizia del tutto eccentrica. […] Da nessuna parte si fa
riferimento in maniera così forte al nucleo religioso di tutta la filosofia
della storia, nel punto sul quale la storia diventa tribunale» (p. 160).
Passando al crepuscolo accanto al Colosseo, anche in autobus, ne proverà la
soggezione sublime e allo stesso modo con cui aveva parlato di «sopraffazione»
e di «pericolo» dirà quasi in un verso:
«L’ora lascia battere il cuore in opprimente beatitudine» (p. 165).
Il
Venerdì santo si trova ad assistere ai preparativi di una cerimonia in
gregoriano nella chiesa fine ottocento di Sant’Anselmo all’Aventino, un’abbazia
benedettina fondata sul sogno restauratore di un nordico visionario, il belga
dal nome germanico, Ildebrando. «Nella vuota neomoderna spoglia chiesa sta un
monaco nero davanti al pulpito e canta il testo in modo antico e modulato. A
parte nel banco siedono un anziano maestro, un secondo scolaro e un religioso
che gusta la scena con un sorriso pieno di comprensione. Di tanto in tanto il
maestro interrompe per correggere, per dare suggerimenti tecnici, o anche per
cantare egli stesso con una voce magnifica. Ẽ un tedesco. Il volenteroso
scolaro dopo un po’ viene congedato con poche parole di incoraggiamento, con
cortese urbanità ma anche con tutta la durezza di un’elaborata disciplina. Ẽ
come se mi fosse stato tolto improvvisamente un velo e l’essenza spirituale
della vita dei religiosi e dei monaci, per un attimo, mi è visibile» (p. 166).
In quella stessa chiesa dove Gass vedeva plasticamente il rapporto maestro
allievo che fonda l’umanesimo, tre decenni dopo una donna illustrava
magistralmente la disciplina liturgica ancora in auge, e per l’ultima volta,
tra quei monaci: Cristina Campo.
La
domenica di Pasqua spettava alla basilica di San Pietro. Gass era capace di dar
nome a quella possente calma che si respirava nelle forme ‘classiche’ di
Michelangelo e di Bernini: «un sentimento di felicità che è miracolosamente
reso possibile con una sicura consapevolezza
di sovranità» (corsivo nostro). Qui avvertiva «la sensazione che il tesoro
conservato nella chiesa con i suoi beni spirituali e religiosi è
insostituibile, una ricchezza che spero nessuno dissipi a cuor leggero» (p.
167). Il ragazzo preoccupato per il dissolvimento della tradizione simbolica e
materiale che adesso si realizza con il plauso della allegra opinione pubblica
veniva da un paese che sarà successivamente considerato d’estrema barbarie. Si
deve essere davvero ostinati per continuare a credere al progresso.
Capiva
quel ragazzo che «gli italiani a differenza dei francesi hanno un gran gusto –
hanno in tutte le idolatrie della forma il senso di sopra
e sotto per la costruzione del
tutto, senso universale religioso-metafisico» (p. 168). I francesi infatti, i
moderni per eccellenza, aboliscono le frontiere sopra/sotto, i romani, i fedeli
alla Chiesa di Roma, ne restano gli eterni custodi.
Il
soggiorno nella capitale cattolica si interrompe per via della guerra. Gass che
aveva concepito pur nella massima tensione morale la vita come «festa continua»
si prepara alla morte per la patria. Strada facendo un altro maestro, forse più
adatto a quell’avventura, si fa avanti: Ernst Jünger. Ma Roma non scompare. Diviene talvolta un
sogno. O il modello. .
In giro
per l’infernale Europa bellica, «se si viene da Roma, è penoso constatare come
quasi tutte le costruzioni siano delle imitazioni, qui la cupola di San Pietro,
là una del Borromini» (p. 251), avrebbe potuto aggiungere l’onnipresente
Pantheon.
In una
pagina del «Diario di guerra»: «Sentita ora un’inquieta nostalgia per l’Italia,
come se lì ci fosse una patria, non oggetti d’arte in particolare, bensì
l’essere mediterraneo. Conosciute là le nobili radici della vita, la sua
semplice e però dotta bellezza» (p. 199). Conosciute là, a Roma, «la città
nella sua più sensorea realtà, colori, odori, gusto che davano uno sfondo all’esistere, come
non c’è più in Germania» (p. 211). «Da quando l’antichità è divenuta a Roma
così evidente, ancor più della letteratura mi parla la sua presenza» (p. 205).
Il 4
giugno 1944, gli anglo-americani entrano a Roma. Gass scrive alla moglie il 10
dello stesso mese: «Davanti a me c’è la tua lettera di lunedì, scritta dopo che
hai saputo la notizia della presa di Roma. Mi ha molto toccato che ti abbia
colpito così tanto. Innanzi tutto è consolante che la città sia risparmiata. Di fronte al suo patrimonio, chi
la possiede per un periodo è quasi indifferente: il suo più grande mistero è
quello di durare nel tempo. La città circondata dalle sue mura è come una
potente urna attraverso la quale la corrente del tempo scorre eterna e senza
fine. Di fronte a questa potente esistenza, antichissima e appena attenta al
piccolo animale umano, c’è la malinconia delle rovine private di ogni sgomento:
la cosa singola è caduta e passata, la connessione del tutto rimane tuttavia
inviolata. Perciò Roma è un tale simbolo sacro della nostra patria europea […].
Come si spiega il mistero che il paesaggio romano ti instilla una tale
nostalgia di casa, come nessun’altra città può? Sta di fatto che a Roma ogni
pietra ti spinge fuori del piatto grigiore quotidiano: si vive in un mondo per
il quale valgono misure diverse dalle solite, quelle di una più alta,
benedetta, umanità. […] Ci sono posti su questa terra nei quali la dimensione
degli dèi e dei loro eroi è diventata realtà» (pp. 292-293). Due giorni dopo,
in un’altra lettera alla moglie, raccontava di una Roma che tornava a visitarlo
in sogno, su un tram «sporco e sconquassato» che usciva da Porta del Popolo e
percorreva la Via Flaminia
tra ville rinascimentali e gli «squallidi edifici sontuosi della Roma umbertina»…
In un
altro scambio epistolare con Ilse, la donna che aveva sposato nella capitale
cattolica: «Devo ancora riflettere su quanto per noi Roma fosse piena di
presente» (p. 304). Ultima immagine che lo sottraeva per degli istanti al
trionfo della morte tra i ragazzi europei. Qualche settimana più tardi restava
ucciso in Olanda.
Nessun commento:
Posta un commento