giovedì 10 luglio 2014

«In opprimente beatitudine»

~ QUANDO LA CAPITALE CATTOLICA
SI OPPONEVA AL MONDO / 2  ~
~ DAL DIARIO DI KARL EUGEN GASS ~

Più che un viaggiatore fu uno studente in Italia, Karl Eugen Gass (1912-1944), allievo prediletto di Curtius, venuto a completare le sue ricerche alla Normale di Pisa e successivamente a Roma per lavorare come bibliotecario di eccellenza a Palazzo Zuccari presso la Hertziana; infine strappato alla città eterna dalle vicende belliche e spedito dalla Germania nazional-socialista a combattere nel Nord Europa dove perse la vita.

Ma non scendeva nella penisola soltanto per perfezionare i suoi studi di romanistica o per calcare le orme dei grandi tedeschi. Nelle prime pagine del suo Pisaner Tagebuch (Diario pisano, 1937-1938, a c. di M. Marianelli, Pisa 1989) lo aveva scritto esplicitamente in una specie di programma: «qui in Italia sarà mio compito specifico riflettere su quella realtà che è la Chiesa nel nostro mondo d’oggi» (p. 9). Lui era protestante ma, nel contrasto tra «il mondo d’oggi» e il cristianesimo bimillenario, alla Chiesa cattolica anzitutto guardava.

Del resto così sintetizzava l’umanesimo che venerava e che tentava di ricostruire storicamente: «l’intento pio di non lasciare inutilizzato nulla di quella preziosa eredità che nel breve respiro della nostra storia i migliori e i più giusti tra noi hanno accumulato, per restituirla come possesso vivo all’epoca attuale» (p. 36). Chi meglio della Chiesa di Roma – affermò una volta Hofmannsthal – sarebbe stato l’aureo tramite tra l’antico e l’attuale? L’Andreas hofmannsthaliano era uno dei due libri iniziatici del suo pellegrinaggio. L’altro scritto che guidava Gass in questo regno del passato era il saggio di Borchardt sulla Villa, il mai troppo celebrato discorso che introduceva le distinzioni fondamentali sulla natura in Germania e nella Penisola (alla luce di una religione venata di paganesimo latino): Villa e Andreas, i due  testi che meglio introducono nel Novecento l’animo tedesco all’italico approdo. In quel tempo, Borchardt lavorava, a modo suo, a una «scienza del medioevo» che nell’animo del giovane bene si accordava con il «medioevo latino» del suo maestro alsaziano, ma l’eccentrico ebreo-tedesco disse subito, nel loro primo incontro, di conoscere appena il nome di Curtius.

Sugli italiani, Gass rovesciava critiche e giudizi taglienti, come capita ai giovani che guardano con occhio acuto un mondo ammaliante quanto alieno. Talvolta esagerava, secondo il solito andazzo tedesco per il quale, anche sotto le bombe che distruggevano la Germania, Curtius sosteneva che solo i tedeschi fossero capaci di «pensare in senso storico», mentre Heidegger riteneva addirittura che solo i tedeschi sapessero pensare; Gass si limitava ad argomentazioni polemiche come quando, per avversione a Croce, accusava la filosofia italiana di «astrattezza», quasi dimenticando che l’Idealismo fu invenzione tedesca e altrettanto germanico è il vocabolario filosofico moderno, vòlto a tradurre l’‘indicibile’, anche nel gergo che si vuole ‘esistenzialista’; più tardi comunque renderà omaggio al nostro filosofo (e a sua volta Croce lo gratificherà con una recensione siglata con le iniziali «b.c.» su «La Critica», recensione, in verità alquanto maligna, del testo di una conferenza tenuta all’Hertziana dal giovane studioso [anno 1940, n. 38]). Qua e là tornava infatti il vizio teutonico per cui l’Italia è adorabile ma gli italiani costantemente da correggere, per cui meglio sarebbe affidare il Belpaese alle mani dei tedeschi quasi che la penisola germanizzata potesse mantenere in tal contorto modo quel fascino che i tedeschi sono i  primi ad apprezzare. Curtius stesso glielo ripeteva spesso: Roma ma non gli italiani (non c’era che Hofmannsthal a rivendicare l’onore dell’italianità e un po’ di sangue lombardo). Se filosofi e politici arrivarono a concepire teoricamente una simile conquista del Sud, i letterati non vantavano primati e non auspicavano occupazioni militari, pretendendo soltanto di sottoporre alla propria scienza quei poeti e artisti italici che altrimenti sarebbero stati incomprensibili, a parer loro, nell’arruffato, dilettantesco, impressionistico pensiero degli indigeni. Insomma, ormai i tedeschi sembravano essere gli unici in grado di comprendere i grandi italiani. Anche i francesi, benché «amabili» e scintillanti, non fosse altro per via dei venerati Rivarol e Baudelaire, apparivano a Gass comunque confinati in un girone inferiore: a loro, nonostante «la buona volontà, certe esperienze debbono restare inaccessibili» (p. 44). Non restava che la Germania, l’ultima arrivata nel gran teatro culturale d’Europa, a perfezionare l’eredità tramandata nei millenni: la poesia tedesca del suo evo migliore, il mezzo secolo tra 1780 e il 1830, poteva – dirà l’allievo di Curtius – arricchire incomparabilmente i latini in fatto di umanità.

Questo andava elaborando nelle sue carte, distaccandosi da quella eletta schiera dei normalisti italiani che di lì a poco rifulgeranno nelle maggiori università dell’Occidente, fiutando però la levatura di Contini, compiacendosi di romitaggi romantici, di confraternite germaniche, di Bruderschaft, piuttosto indifferente davanti a quelle stanze progettate dal Vasari e offerte generosamente in prestito agli studenti benché più simili a una augusta dimora che a un collegio universitario. Anche nell’arte italiana, intorno alla quale mostrava subito un notevole intuito, cercava percorsi personali e solitari (sebbene molti siano i nomi warburghiani) . Ma Pisa, le città e i paesaggi italiani, e soprattutto Roma trasformeranno i suoi pensieri, le teorie della scuola di Curtius perfino, la sua stessa vita.

A Firenze, nella chiesa dell’Annunziata, assiste a una messa solenne della notte di Natale. Il latino che vi risuona, il ruolo ieratico del sacerdote, lo portano a impegnarsi per fare «della sua stessa vita un servizio divino» (p. 121). Appena entrato nel tempio fiorentino, si lamenta, come spesso i tedeschi, per la freddezza dell’architettura italiana, mancando delle decorazioni che tanto incantano i nordici, alla maniera dei viennesi che, al termine del più gustoso pasto, pretendono come piccoli golosi il décor dei dolcetti finali, un poco di panna lì, un poco di stucchi qui. Si interroga pertanto sulla sontuosità dell’Annunziata e «su che mai questa chiesa» potesse rappresentare per un ragazzo povero «di precoce sensibilità o per una ragazzina forse cresciuta in un ambiente totalmente privo di bellezza, nel gelo, nella sporcizia, nell’indigenza. Certo, un interno come questo deve comunicar loro una sorta di rapimento mistico e insieme la convinzione che esista un mondo più nobile e soprattutto più bello, dai colori più smaglianti, dai profumi più intensi, che sta oltre il mondo di fuori, oltre la lugubre strada invernale percossa dal vento freddo e così pungente. E quale mai dovrà apparire ai loro occhi l’ordine delle sfere, e la realtà del mondo spirituale! Senza dubbio saranno cose ben diverse da quell’interiorità protestante che in nome della purezza del divino rifiuta ogni forma di trasfigurazione di questo nostro mondo creaturale, rigetta ogni possibilità di potenziare, di spiritualizzare questa nostra potente esistenza terrena, fidando, in tutta schiettezza e in tutta umiltà, nell’opera redentrice della pura fede. Sviluppandosi, gli istinti si divaricheranno necessariamente e nessuno potrà più ignorare se lui stesso o i suoi antenati si siano inginocchiati davanti al fulgore scarlatto di una corona di candele o davanti a uno spoglio altare di legno. Solo perché era cattolico Baudelaire potrà scrivere le Fleurs du Mal» (pp.150-151). [Come nel precedente articolo di questo «Almanacco», ritroviamo Baudelaire frutto della liturgia cattolica: qui]. Rapida metanoia in una mezzanotte santa: tra l’Introibo e il Deo gratias di una messa di Natale, le iniziali preoccupazioni degli eterni pauperisti, quelle preoccupazioni che discendono dal puritanesimo protestante, trovano nello splendore del millenario rito le più vivide risposte. Una pagina, sia detto tra parentesi, che dovrebbe esser consigliata all’attuale capo della Chiesa cattolica affinché sia liberato dalle più estenuanti credenze nei luoghi comuni imperanti. Si eviterebbe così anche di strappare ai popoli meridionali la loro più immarcescibile fede nel fasto e nelle processioni taumaturgiche benché intrise di paganesimo e talvolta di peccaminose abitudini, affinché per presunzione di adunare una comunità angelica, eticamente corretta e soggetta alle laiche leggi, non si uccida, nei tormenti dell’umana natura, la residua speranza cristiana di salvezza.
      
Viandante in Italia come si è tutti viandanti nel breve soggiorno su questa terra, Gass giunse a Roma. Se il maestro in umanesimo aveva poca dimestichezza con la città dei suoi studi, la ammirava prevalentemente nei libri e si era lasciato prendere di tanto in tanto dagli estetici sortilegi fascisti, l’allievo che qui venne a soggiornare, a studiare e a lavorare considerava la romanità fascista una violenza alla tradizione, solo quella cattolica essendo l’erede della civiltà imperiale e medioevale. Iniziava il suo diario romano secondo le prescrizioni di Winckelmann, volgendo cioè gli occhi al cielo, raccontando quindi ai compatrioti che non avevano mai valicato le Alpi i colori incredibili dell’atmosfera locale, la luce unica. Questi «Appunti degli anni romani. 1939-1942» sono contenuti in un volume di traduzioni che contiene l’epistolario con Curtius, le lettere alla moglie, gli appunti sparsi, i diari di guerra, una sorprendente raccolta di articoli sulla letteratura italiana del suo tempo e un raro ritratto dell’autore schizzato dal primo dei due curatori: E. R. Curtius - K. E. Gass, Carteggio e altri scritti, a cura di Stefano Chemelli e Mauro Buffa, La Finestra editrice, 2009 (un prezioso volume che deprediamo copiosamente e raccomandiamo ai nostri pochi lettori insieme all’intero catalogo delle nobili edizioni che si apparecchiano nella tridentina Lavìs).   

«La verità, che davanti a me sta l’unica città europea nella quale si può parlare di una unità della nostra storia», così s’apre il suo diario, celebrando quell’unità «fruttuosa» più alla periferia che non al centro. Però «non si sta seduti come uno spettatore davanti a una ribalta, ma ci si sente sopraffatti, al centro di un ambito di scene in costante pericolo…». Sopraffatti, in pericolo: provare a raccontarlo oggi ai turisti compiaciuti! Né il ventenne tedesco contrappone al canto della gloria passata il grido di spavento, come accadde ai padri fondatori della scienza delle emozioni, a cominciare da Jung che crollò atterrito alla stazione di Zurigo appena acquistato un biglietto ferroviario per Roma. Con tono fermo Gass afferra i caratteri dello scontro in atto: «La preferenza dei tedeschi per Roma è difficilmente comprensibile poiché c’è appena una seconda città che impersona così tanto tutte le forze antitedesche» (p. 159). La battaglia tra Roma e la Germania, il cattolicesimo come  il vero avversario della violenza imperiale: possiamo leggere in questa chiave l’ostilità del nunzio Pacelli e poi papa con il nome di Pio XII verso il socialismo tedesco che vuole dominare l’Europa?  Ostilità di un dotto uomo latino che ben conosce l’avversario. Già Pio II, ben prima della ribellione luterana, teneva d’occhio la continua rivolta della cristianità germanica ammaestrando sul carattere fruttuoso del potere romano proprio per la periferia nordica.

In quella medesima epoca novecentesca Carl Schmitt scrutava le forme del dominio cattolico, il fenomeno del conclave per cui il «pastore abruzzese» democraticamente eletto diviene il signore assoluto dell’universo spirituale, sottolineando soprattutto quel perenne umore antiromano che si respirava più che mai nel mondo moderno, quella insofferenza per la forma.      

Aggiungeva Gass, subito dopo la messa in scena del nuovo scontro Chiesa e Impero germanico, che proprio del presente stava parlando: «La tensione fondamentale carica del peso del destino della storia recente, tra l’antica tradizione che continua a vivere e la forza del popolo germanico tendente al dominio, diviene solo a Roma un problema che si autoimpone. Visto dalla Germania e da ogni giovane nazione il conflitto non ha mai una realtà pienamente valida, sebbene venga conosciuto dolorosamente nei suoi effetti, poiché l’antichità sembra qualcosa di morto, passato, superato, e tutto il diritto vitale viene assegnato ai popoli del nord. A Roma invece il mondo antico si mostra nella sua potente realtà che non è tramontata perché la sua concezione politica, l’impero romano […] ha trovato nella chiesa cattolica un esponente del suo bene spirituale. L’originale sentimento del luogo a Roma è quello del centro» (160). Ne consegue che se quel «centro» viene sottoposto alla periferia del mondo non si tratta di una santa umiliazione o di un francescanesimo arrabattato, bensì dello sconvolgimento della teologia politica, della distruzione dell’universalismo cattolico. Postilla infatti il visitatore della Roma anni trenta: «In esso [centro] alberga l’unità e la durata, alla periferia appartengono le molteplici forme della testimonianza. Chi si dedica all’universale è di casa a Roma: il sacerdote e l’artista. Invece Mussolini e la sua politica nazionale si trovano in una Roma fittizia del tutto eccentrica. […] Da nessuna parte si fa riferimento in maniera così forte al nucleo religioso di tutta la filosofia della storia, nel punto sul quale la storia diventa tribunale» (p. 160). Passando al crepuscolo accanto al Colosseo, anche in autobus, ne proverà la soggezione sublime e allo stesso modo con cui aveva parlato di «sopraffazione» e di «pericolo» dirà  quasi in un verso: «L’ora lascia battere il cuore in opprimente beatitudine» (p. 165).

Il Venerdì santo si trova ad assistere ai preparativi di una cerimonia in gregoriano nella chiesa fine ottocento di Sant’Anselmo all’Aventino, un’abbazia benedettina fondata sul sogno restauratore di un nordico visionario, il belga dal nome germanico, Ildebrando. «Nella vuota neomoderna spoglia chiesa sta un monaco nero davanti al pulpito e canta il testo in modo antico e modulato. A parte nel banco siedono un anziano maestro, un secondo scolaro e un religioso che gusta la scena con un sorriso pieno di comprensione. Di tanto in tanto il maestro interrompe per correggere, per dare suggerimenti tecnici, o anche per cantare egli stesso con una voce magnifica. Ẽ un tedesco. Il volenteroso scolaro dopo un po’ viene congedato con poche parole di incoraggiamento, con cortese urbanità ma anche con tutta la durezza di un’elaborata disciplina. Ẽ come se mi fosse stato tolto improvvisamente un velo e l’essenza spirituale della vita dei religiosi e dei monaci, per un attimo, mi è visibile» (p. 166). In quella stessa chiesa dove Gass vedeva plasticamente il rapporto maestro allievo che fonda l’umanesimo, tre decenni dopo una donna illustrava magistralmente la disciplina liturgica ancora in auge, e per l’ultima volta, tra quei monaci: Cristina Campo.

La domenica di Pasqua spettava alla basilica di San Pietro. Gass era capace di dar nome a quella possente calma che si respirava nelle forme ‘classiche’ di Michelangelo e di Bernini: «un sentimento di felicità che è miracolosamente reso possibile con una sicura consapevolezza di sovranità» (corsivo nostro). Qui avvertiva «la sensazione che il tesoro conservato nella chiesa con i suoi beni spirituali e religiosi è insostituibile, una ricchezza che spero nessuno dissipi a cuor leggero» (p. 167). Il ragazzo preoccupato per il dissolvimento della tradizione simbolica e materiale che adesso si realizza con il plauso della allegra opinione pubblica veniva da un paese che sarà successivamente considerato d’estrema barbarie. Si deve essere davvero ostinati per continuare a credere al progresso.

Capiva quel ragazzo che «gli italiani a differenza dei francesi hanno un gran gusto – hanno in tutte le idolatrie della forma il senso  di sopra e sotto per la costruzione del tutto, senso universale religioso-metafisico» (p. 168). I francesi infatti, i moderni per eccellenza, aboliscono le frontiere sopra/sotto, i romani, i fedeli alla Chiesa di Roma, ne restano gli eterni custodi.

Il soggiorno nella capitale cattolica si interrompe per via della guerra. Gass che aveva concepito pur nella massima tensione morale la vita come «festa continua» si prepara alla morte per la patria. Strada facendo un altro maestro, forse più adatto a quell’avventura, si fa avanti: Ernst Jünger.  Ma Roma non scompare. Diviene talvolta un sogno. O il modello.     .

In giro per l’infernale Europa bellica, «se si viene da Roma, è penoso constatare come quasi tutte le costruzioni siano delle imitazioni, qui la cupola di San Pietro, là una del Borromini» (p. 251), avrebbe potuto aggiungere l’onnipresente Pantheon.

In una pagina del «Diario di guerra»: «Sentita ora un’inquieta nostalgia per l’Italia, come se lì ci fosse una patria, non oggetti d’arte in particolare, bensì l’essere mediterraneo. Conosciute là le nobili radici della vita, la sua semplice e però dotta bellezza» (p. 199). Conosciute là, a Roma, «la città nella sua più sensorea realtà, colori, odori,  gusto che davano uno sfondo all’esistere, come non c’è più in Germania» (p. 211). «Da quando l’antichità è divenuta a Roma così evidente, ancor più della letteratura mi parla la sua presenza» (p. 205).

Il 4 giugno 1944, gli anglo-americani entrano a Roma. Gass scrive alla moglie il 10 dello stesso mese: «Davanti a me c’è la tua lettera di lunedì, scritta dopo che hai saputo la notizia della presa di Roma. Mi ha molto toccato che ti abbia colpito così tanto. Innanzi tutto è consolante che la città sia  risparmiata. Di fronte al suo patrimonio, chi la possiede per un periodo è quasi indifferente: il suo più grande mistero è quello di durare nel tempo. La città circondata dalle sue mura è come una potente urna attraverso la quale la corrente del tempo scorre eterna e senza fine. Di fronte a questa potente esistenza, antichissima e appena attenta al piccolo animale umano, c’è la malinconia delle rovine private di ogni sgomento: la cosa singola è caduta e passata, la connessione del tutto rimane tuttavia inviolata. Perciò Roma è un tale simbolo sacro della nostra patria europea […]. Come si spiega il mistero che il paesaggio romano ti instilla una tale nostalgia di casa, come nessun’altra città può? Sta di fatto che a Roma ogni pietra ti spinge fuori del piatto grigiore quotidiano: si vive in un mondo per il quale valgono misure diverse dalle solite, quelle di una più alta, benedetta, umanità. […] Ci sono posti su questa terra nei quali la dimensione degli dèi e dei loro eroi è diventata realtà» (pp. 292-293). Due giorni dopo, in un’altra lettera alla moglie, raccontava di una Roma che tornava a visitarlo in sogno, su un tram «sporco e sconquassato» che usciva da Porta del Popolo e percorreva la Via Flaminia tra ville rinascimentali e gli «squallidi edifici sontuosi della Roma umbertina»…

In un altro scambio epistolare con Ilse, la donna che aveva sposato nella capitale cattolica: «Devo ancora riflettere su quanto per noi Roma fosse piena di presente» (p. 304). Ultima immagine che lo sottraeva per degli istanti al trionfo della morte tra i ragazzi europei. Qualche settimana più tardi restava ucciso in Olanda.

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