E NEL TRIPUDIO DEI
CIELI ~
Il mistero
dei morti non riceve luce dal progresso, resta intatto il velamento nel
precipitare dei millenni (casomai viene mascherato e vilipeso dal moderno), è
affare precipuo della tradizione. I più ci sono già passati, interi popoli,
miliardi di ogni èra, i fenici come i russi della rivoluzione, gli indios antecedenti
la conquista come i figli dell’epoca carolingia, le etnie lontane, così lontane
che le ignoriamo, e gli amici più cari dell’oggi, i parenti più stretti; noi
stessi – l’almanaccatore che scrive – siamo lì, i prossimi anni o tra un’ora (somma
misericordia del Supremo Reggitore consiste nel nasconderci la data decisiva; anche
il condannato dagli umani alla pena capitale può sperare in un rinvio). La
saggezza cattolica ha occupato due giorni della stagione dell’occaso (con un
corteo dell’intero mese di Novembre), quando anche la natura pare muoversi al
pianto, per dedicarli a una folla sterminata, la più grande massa di umani che
la mente possa concepire: i morti. Gli affini, antenati o discendenti (secondo
un imperscrutabile ordine per cui talvolta i più giovani precedono i più vecchi)
che veneriamo nei ricordi e sulle tombe, hanno un nome, una figura, almeno un
profilo, un’andatura; c’è poi la massa anonima, chi non fu conosciuto dalla
storia e chi addirittura non conobbe le facili consolazioni della storia. Segno
di morte è perdere il nome. Invano le tombe lo ripetono inciso in materiali
duraturi: viene sempre il giorno nel quale anche i marmi si sbriciolano e
quell’alfabeto non si conosce più. L’oblio somiglia alla vittoria della morte.
Alla fin fine, alla fine della storia e delle storie, sembra di esser passati quaggiù
tutti invano.
Inutili
i cimiteri, gli affettuosi addobbi, senza nome e senza più tracce, anche la
cenere ben presto diventa altro. Con il moderno tanto impregnato di effimero
l’anima muore subito, basta una manciata d’anni per sembrare nient’altro che
‘fuori moda’, buffi i souvenir, a cominciare dalle prime fotografie a colori
che già appaiono stonate, poveri morti con gli occhialoni di plastica anni
Settanta imposti ai volti contadini dei nostri nonni. In ogni caso, anche nel
più nobile, cioè nel più antico apparato funebre, triste risulta l’alludere a
teschi e a scheletri, sparite le carni sode, l’opulenza della vita, il colorito
solare, restando il pallore abbacinante. Atroce il buio della lunga notte,
delle tenebre che illanguidivano i mortiferi romantici. Il silenzio assoluto, l’anonimato
definitivo. Il trionfo della cenere. Il prezzo del peccato adamitico. Questo
dice la liturgia del lutto. Con magrezza ascetica i pii pastori indicavano quell’indicibile
che le distrazioni del mondo fanno di tutto per occultare. La meditazione sul
destino di morte riservato alla stirpe di Adamo era già in voga secoli e secoli
prima delle scoperte filosofiche di Heidegger. Per fare esperire questa umana
finitudine i migliori predicatori mettevano in mostra il corpo loro. In
conclusione della sua esistenza il sommo John Donne salì ormai cadaverico sul
pulpito della cattedrale londinese e tenne il suo sermone sulla morte, il
celebre Death’s Duel. Aveva tradito
il cattolicesimo familiare, aveva rivestito gli abiti dei consacrati anglicani,
ma manteneva nell’orecchio il suono terribile e ammaestrante del Dies Irae.
Non avrebbe capito l’edulcorare del rito intrapreso dai postconciliari, tanto
inumani da togliere il colore nero dagli abiti di una sì lacerante cerimonia, umiliando
i simboli, istupidendo pure la morte con canzoncine squinternate, con
discorsetti frusti, con chiacchiere familiari senza guida. Ancora più cupa
della predica di Donne morto-semivivente fu quella di Jacob Taubes che passò
gli ultimi giorni di vita rosi dal cancro a esporre il suo corpo sfinito al
gelido pubblico cristiano di un seminario protestante. Interminabile discorso di
tre giorni in cui il rabbino insegnava la teologia politica di Paolo mostrando
ai concilianti ignari come l’apostolo aprisse un abisso tra l’annuncio nuovo e
la religione degli ebrei. Né i cristiani né gli ebrei dialoganti sui dettagli
sembrano aver fatto tesoro di questo insegnamento. Solo Carl Schmitt, giunto al
termine di una lunga vita, aveva chiamato con insistenza rabbi Taubes a casa
sua per leggere e decifrare insieme certe righe dense dell’ultimo apostolo.
Cadaveriche
figure, ossuti celebranti, pallidi oratori, spenta luce del giorno decrescente
che sta per arrivare al termine nel vicino solstizio d’inverno: così la cultura
cattolica abituò a commemorare i morti, a consacrarli nonostante l’anonimato,
ad affidarli al cielo anche se la terra ne aveva consumato pure le ossa.
(Cadendo quest’anno di domenica, giorno della festa piena cristiana, la memoria
del due di Novembre viene spostata al giorno successivo dal Vetus Ordo,
sensibilissimo al linguaggio dei simboli e alla loro ratio. Fuori così dal
clamore laico, dalle appendici folcloristiche, resta solitaria e straordinaria la
celebrazione della Chiesa che si protende verso i defunti.)
Schegge
impazzite di quella materna cultura cattolica sono rintracciabili nel culto di
fantasmi e folletti partoriti dalla fantasia protestante e dai resti del
paganesimo nordico che si vendettero al supermercato delle mode per un mini-satanismo
disneyano, per una ridarella tremebonda intorno al tabù dei morti. Alla
centralità della morte nel mondo tradizionale, che ancora Benjamin guardava con
nostalgia, si sostituisce la corsa affannosa al suo mascheramento. La
preoccupazione del filosofo ebreo per i morti, per la loro condizione fragile,
lo portò a riflettere sul cinismo dei moderni: «da molti secoli si può
constatare come, nella coscienza comune, l’idea della morte perda
progressivamente la sua onnipotenza e icasticità. Nelle sue ultime fasi questo
processo si svolge in maniera accelerata. E nel corso del secolo decimonono la
società borghese, con istituti igienici e sociali, pubblici e privati, ha
ottenuto un effetto secondario che è stato forse il suo scopo principale
inconscio: quello di permettere agli uomini la vista dei morenti. La morte, che
era già, nella vita del singolo, un evento pubblico e sommamente esemplare /(si
pensi ai quadri del Medioevo dove il letto di morte si trasforma in un
trono, intorno a cui il popolo affluisce
attraverso i battenti spalancati della casa del morto), la morte, nel corso
dell’età moderna, viene progressivamente espulsa dal mondo percettivo dei
viventi. Una volta non c’era casa, non c’era quasi stanza, dove, un tempo, non
fosse morto qualcuno. (Il Medioevo sentiva anche spazialmente ciò che, come
sentimento del tempo, rende così significativa la scritta di una meridiana di
Ibiza: Ultima multis). Mentre oggi,
in vani ancora intatti dalla morte, i borghesi ‘asciugano le pareti’
dell’eternità, e, avviandosi al termine della vita, sono cacciati dagli eredi
in sanatori e ospedali, ma sta di fatto che non solo il sapere e la saggezza
dell’uomo, ma soprattutto la sua vita vissuta – che è la materia in cui nascono
le storie – assume forma tramandabile solo nel morente». Il pensatore tedesco
conclude questa pagina sulla catena della tradizione spezzata con una frase
magistrale: «La morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può
raccontare» («Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov» in Angelus novus, Torino. 1962, pp. 245-246).
Naturalmente l’occultamento della morte è confermato dall’evento mediatico del suicidio in diretta
di queste ore, fenomeno spettacolare dell’onnipotenza della connessione
universale. L’impero delle merci può offrire prodotti tecnologici per il
trapasso e perfino oggetti per i defunti (la nuova e ingenua usanza popolare di
lasciare un telefono cellulare nella bara, equivalente del cibo che i pagani
mettevano nella tomba), fa ascendere alcuni trapassati nello start system dei
venditori post mortem, impone anche un furbo galateo che obbliga a scivolare intorno
alle parole ai pensieri e ai gesti sul buco fatale del suo sistema, esclude
comunque dal discorso progressivo il
senso della fine terrena, tanto contraddittoria con il lavoro, la produzione,
la ricchezza. Nel nostro occidente regna del tutto nudo il Macabro.
Qualcuno
in rete ricorda opportunamente i versi di Giovanni Pascoli, mondo contadino lontanissimo
dalla metropoli benjaminiana: «Oh! i morti! Pregarono anch’essi,/ la notte dei
morti, per quelli/ che tacciono sotto i cipressi» (da Myricae). In margine a
quella lettura si resta turbati: oggi la catena si è interrotta, i vecchi non
pregano e quelli che verranno con grande probabilità pregheranno ancor meno.
Dove è la Chiesa
che unisce morti e viventi? Dove è la
Chiesa che salva le anime dalle pene espiatorie? Le
indulgenze permangono, gli anni concessi, secondo il metro umano del tempo, fino
alla cancellazione totale della pena, all’amnistia: l’indulgenza plenaria è
validissima anche nella Chiesa postconciliare e i parroci più antiquati la
ricordano, aggiungendo magari «alle solite condizioni» (che i fedeli non
conoscono più), ma quanti danno credito a tale condono prezioso che fa
ascendere un defunto alla beatitudine senza più tempo? Il ministero petrino non
contempla il ruolo di imitatore del funzionario Onu, non quello di sociologo,
di intrattenitore di gran rispetto, né di teologo sottile; compito del
successore di Pietro è quella della misericordia estrema, di sciogliere cioè i
legami quaggiù perché siano sciolti nei cieli, di liberare i morti dalle pene
comminate dalla giustizia divina. Ma se nessuno crede più alle indulgenze, che
resta del cattolicesimo? A che pro la misericordia? Perché far capriole
teologico-filosofiche onde assolvere la sodomia in nome dell’amor (profano) se
poi il gran perdono non si ricollega all’aldilà? Se non si crede al Purgatorio
e naturalmente alla possibilità dell’Inferno, se l’eternità non è quel che più
conta, l’unica dimensione cui vale sacrificare il presente, le concessioni
generose della Chiesa in tema di peccati servono soltanto per consacrare nuove
abitudini mondane, con la
Chiesa che diventa una istituzione esclusivamente terrena
come neppure ai tempi bizantini, che si agita per gli ecumenismi con altre
consociate, per la pace e la guerra, la fame e le malattie, cose umane troppo
umane, e il papa si trasforma in un annunciatore onorifico della new age.
L’eternità
si rispecchia – specchietto umano, certo – nei lavori lunghi, diceva Valéry,
nell’arte come metafora del superamento della gabbia contemporanea. I cieli di Dante
e di Frate Angelico e quelli seicenteschi di Gaulli raccontavano dei fondamenti
della vita, davano luce – una luce unica – alle nostre vite, rendevano concreta
la speranza, sostanziavano e orientavano desideri e fantasie degli umani. I
barocchi presero in prestito la luce del mito romano, le processioni ovidiane
dipinte dai Carracci in casa Farnese, la goduria dei banchettanti, delle danze
sul Monte Olimpo. Sontuosissimo apparato, gaudio, gloria. Teatro dell’anima,
palestra della felicità, promessa fatta ai corpi e annunciata dunque in un
linguaggio sensuale. Le commemorazioni dei giorni di Novembre sono immagini
speculari di una unica figura, l’umanità trapassata, dentro vi sono anche i
bagliori di quei Paradisi. In un giorno piangiamo i morti per come son stati
ridotti dal tempo, per quel poco e sempre meno che ci resta di loro, per la
miseria della loro situazione terrena, per l’approssimazione del concetto di
sonno, per la stoltezza degli eufemismi che usiamo, per gli auspici impotenti, retaggio
pagano, sulla terra lieve, sul riposo senza turbamenti (Sergio Quinzio non
amava neppure la parola ‘requiem’, gli sembrava estranea alle promesse
bibliche). Insomma, il cattolicesimo invita a meditare sulla bruttezza della
morte. Ma nello stesso tempo invita a contemplare il mistero della elezione,
della felicità dei salvati, della festa inaudita per la sconfitta della morte,
per la bellezza senza fine. Il due Novembre versiamo lacrime sui morti ma già
il primo ci siamo confortati con i santi, noti e ignoti, eroici e nascosti, i
santi canonizzati direttamente da Dio nell’alto dei cieli.
Come si
vorrebbe che un papa santo ammaestrasse il mondo su tali questioni che toccano
il cuore dei viventi invece di dilapidare il tempo e il prestigio della
Cattedra di Pietro per titillare la ideologia terrena. Un arguto ha scritto
sulle orme magrittiane che «questo non è un papa, solo un Dario Fo». Ma la Catholica non può cedere
agli scherzi surrealisti. È un papa sì, un papa in soggezione nei confronti del mondo
come ce ne furono altri. Per un Leone I che difende la sua diocesi e ferma
Attila con la sua maestà se ne hanno schiere di poco eroici. A cominciare da
Pietro che abbandona il suo gregge a Roma e se ne vorrebbe tornare a casa. Per
finire con Giovanni XXIII allegro bonario e sempliciotto mentre perseguitavano
le sue pecore cristiane nel mondo orientale, nei Lager che lì si chiamavano
gulag, senza che lui osasse dire una parola. E lo hanno fatto pure santo,
quindi c’è sempre grande speranza nella Chiesa di Roma. I cattolici non
scomunicano il loro pontefice, non fanno scissioni, non se ne vanno in cerca di
un nuovo guru. I cattolici dovrebbero saper ricorrere all’orazione. Qui fecit
coelum et terram può anche trasformare un rozzo pastore sudamericano che
diffonde il pensiero mercificato dei mass media in un santo che illumini con la
favella di papa Gregorio Magno il nostro tempo funereo, facendo intravedere
perfino attraverso il linguaggio digitale le promesse meravigliose (e i rischi
davvero infernali) della Chiesa cattolica per i suoi morti.
Nessun commento:
Posta un commento