PROVANDO AD ANTICIPARE DI UN
SECOLO
LA FILOSOFIA DELLA
LUCE E DELLE TENEBRE ~
Chi ha detto che il migliore
illuminismo sia comparso nel XVIII secolo? Mostrare ai fratelli-lettori, ai
complici più o meno ipocriti, gli inganni della vita, del tempo, delle
passioni, della carne, le torture del dolore, i disvelamenti dell’agonia, le
crudezze che nessun evangelo laico può cancellare: questa è musica barocca,
cioè i migliori discorsi del XVII secolo. Si citi Lorenzo Magalotti. Si legga
con sgomento il verso di Francisco de Quevedo: «Ehi, della vita! Nessuno
risponde?». Che l’eccelso suo traduttore, Vittorio Bodini così chiosa: «Par di
vedere e sentire [Quevedo] battere alle nude porte dell’esistenza». Le
piacevolezze del Rinascimento sventrate, il desengaño
dell’umanesimo sceneggiato magistralmente. Dopo, nel secolo successivo, si
indirizzò la lampada su questioni ben più meschine, si fece luce su contrasti
domestici, liti tra servi e padroni, si snodarono questioni tra mortali. Un
soggetto umano gonfiò il petto in modo ridicolo. E il filosofo lo illuminò
compiaciuto. Bastava non lasciarsi stordire da quelle illuminazioni improvvise
nelle spesse tenebre: i primi ‘illuministi’, i seicenteschi, si erano misurati
con l’immenso potere della Morte, i successori su quelli redimibili di un
sovrano mortale anch’esso.
Con il Settecento va in pezzi l’umanesimo
cattolico e si affaccia lentamente un teismo strisciante che fa saltare il
compromesso romano: ecco affermarsi la divinità astratta, il corpo dei
libertini senza Dio e un Dio senza corpo.
Cade così l’intero ordine universale, la salda gerarchia al sommo della
quale dominava Dio di cui l’uomo diventava metafora sulla terra, governando la
natura, il creato visibile (animali e piante). Dio astratto e uomo astratto si
guardano ora a distanza, pallidi, spolpati. Nasce in quel tempo il culto della
natura, la deificazione di una forza oscura. Nel ritorno alla religione antica, l’uomo perde i suoi poteri
e viene sottomesso ai suoi istinti. Non bastano tutti gli artifici
settecenteschi a fare da diga, l’istinto selvaggio, la forza naturale si
impone. Religione antica dei villaggi, paganesimo secondo ragione filologica.
In effetti sempre la religione latina (e greca) celebrò i boschi e le divinità
che lì si nascondevano, mentre dall’Oriente viene il legame con il deserto biblico, l’altare di Jahweh privo
di fronde, la spoliazione delle divinità boschive. Il grande compromesso, allora,
faceva convivere a Roma religione pagana e cristianesimo, equilibrio tra i due
poli del bosco e del deserto, dei miti e dei riti, mediazione di Cristo, che è
visto al contempo come Apollo e figlio di Jahweh.
Anche questa nuova fede nelle
«grazie della selvatichezza», che si affermerà nell’evo moderno, e che fungeva
da contrappunto ai Lumi, aveva avuto un
profeta seicentesco. Quando il conte di Shaftesbury introduce al nuovo culto
della natura e vagheggia un ambiente incontaminato, rifiutando Bernini e considerando
Pietro da Cortona «corruttore del gusto» (per estasiarsi davanti all’‘orrido’
di Salvator Rosa), non solo riporta in auge la religione dei barbari che già
nel nord Europa protestante aveva ripreso forza, ma aggiunge un altro elemento
distruttivo: dal bosco sacro è scomparso il nume, né Apollo né Diana vi si aggirano
più, né s’incontra il cervo con la croce sul capo che apparve a sant’Eustachio,
adesso è la natura stessa, la forza selvaggia, a essere onnipotente. Un panteismo
che schiaccia l’essere umano: da allora la creatura dovrà piegarsi a questo
potere misterioso, alla matrigna che non parla il linguaggio razionale, alla
despota misteriosa, senza altra finalità che la sua crescita insensata. I poeti
troveranno un ruolo: agghindare la forza bruta. In luogo dell’artificio si
giocherà all’artificiosissima naturalezza (Rousseau diverrà il maestro di tali
imbrogli). Ma per interpretare la divinità oscura c’è bisogno di una tecnica
altrettanto anonima: la scienza, unica via per capire (diagnosticare) i
risultati di una potenza divina senza nous.
L’uomo allora si trasforma in servitore-interprete, creatura agitata da una
forza oscura. Non solo perde lo status di figlio di Dio, ma anche il
conseguente ruolo di coordinatore dell’universo, di rappresentante di Dio in
terra (se il papa infatti ne era il vicario supremo, l’autorità politica ne
rappresentava il potere terreno, e così via fino al padre che riecheggiava il
sole divino nella famiglia). In tal modo viene a mancare il patto biblico, la
certezza che i poteri umani abbiano un fondamento al di là del tempo e dei suoi
capricci, la possibilità di costruire una tradizione. La morte dell’umanesimo,
dell’atteggiamento cattolico cioè che rifiuta l’annullamento (bizantino e
gotico) della creatura davanti al creatore, che riprende il braccio di ferro
con l’angelo della tradizione ebraica e il gusto terreno dei pagani, trapassa a
un certo punto nella divinizzazione dell’uomo che è tutt’altra cosa. Bisogna
attendere che si srotolino il Settecento e l’Ottocento, sperimentare tutta la
miseria dell’umano senza più la controparte del Dio unico, con il bosco sacro
ormai svuotato degli dèi e ridotto a contraltare del mondo meccanico,
l’accumulo di dati scientifici che quanto più si applica alla natura tanto più lascia
insoddisfatti sulle domande ultime, quelle che maggiormente contano; bisogna
avere intrapreso in massa la corsa verso il nulla, immersi in continue
distrazioni organizzate per non vedere quello che ci aspetta, bisogna avere
sciolto i legami con la natura (venerata insensatamente nel weekend come
incontaminata, come vergine) e con il cielo (abbandonato con iattanza) e
soffrire di solitudine cosmica, bisogna avere sceso tutti i gradini della
abiezione per poter finalmente, con un coup
de théâtre, procedere alla deificazione dell’uomo. Ma è un dio
ottocentesco, risibile ed eclettico, mascherato, travestito in tutti i ruoli
mitici. Un dio che si è candidato e autoproclamato, come nelle repubbliche. Un
dio impotente, parodia delle debolezze di Cristo. La kenosis regalmente scelta
dal Cristo-Dio diviene nell’uomo triste necessità. Ma un dio bizzoso: gran
parte dei fiumi di sangue del XX secolo scorre su altari laici per i suoi puntigli.
Profeti confusi. Il ritorno di
Zarathustra apre la via ad altri profeti. Esortano soltanto, tutti. Predicatori
come nelle sètte protestanti. La questione morale da due secoli tende a ridurre
la religione a un faccenda etica. E già Félicité de Lamennais si lamentava
(prima dell’apostasia): «Può concepirsi una religione nella quale non si sappia
positivamente né ciò che si deve credere, né ciò che si deve praticare?
Una religione, insomma, che non abbia né
simboli né comandamenti? Una religione che, come regola di condotta e di fede,
dica agli uomini: ‘Io non so positivamente se esiste un Dio, se
gli è dovuto un culto, né qual culto gli è dovuto. Non so positivamente se
l’anima è immortale, se la giustizia divina le riserba in un’altra vita pene e
ricompense, né quale sarà la durata di queste ricompense e di queste pene, la
natura delle quali m’è completamente ignota. Io non so positivamente se il
creatore dell’uomo, chiunque esso sia, gli abbia imposto dei doveri o l’abbia
lasciato totalmente padrone del suo credere e delle sue azioni. Io non so
positivamente se esiste qualche cosa di reale in ciò che si chiama delitto e
qualche cosa di reale in ciò che si chiama virtù» (Saggio sull’indifferenza in materia di religione). Nel frattempo
non soltanto i critici della religione positiva lasciavano inevase queste
domande ineludibili, persino la gerarchia cattolica, i catechismi e i
confessori glissavano tra i terribili interrogativi. Ci si consolava con il
ritornello delle incertezze, con la glorificazione del dubbio e la dannazione
del dogmatismo, facile escamotage per ridurre anche il cattolicesimo romano ad
ordinaria, umana, saggezza.
La divinizzazione dell’uomo subentra
perché l’ateismo radicale è insopportabile. Ci si incorona da soli, sulla
falsariga di Napoleone imperatore. Ma almeno quel gesto fu ratificato
solennemente, la cerimonia consacrata dalla presenza (sia pur forzata) del papa, mentre la deificazione dell’uomo – che
detronizza il Dio-uomo – avviene alla chetichella, senza nome, con numerosi
eufemismi, manca perfino della data. C’è poi un continuo tirarsi indietro,
grandi rifiuti, ‘non sumus digni’, non abbiamo forza, fragili siamo, non ci
inganniamo, creature impaurite, che nascondiamo i timori con le forme divine.
Poco più poco meno di due secoli fa. Ora siamo alle dimissioni di massa. Il
fascino, l’orgoglio di esser Dio si è perso da tempo, suona ‘ottocentesco’,
resta il privilegio di autoassolversi da tutte le responsabilità. Ma anche qui,
che immani sensi di colpa, soprattutto dopo che la «morte di Dio» ha prodotto
la «morte di Satana». L’uomo resta solo a inorgoglirsi di piccoli successi come
di piccole colpe. Un ex abate di san Benedetto scrisse qualche anno fa, avendo
strappato la veste monacale, un librino sull’inesistenza del diavolo. Aveva
condito lo scritto di dotte citazioni della patristica come della cultura
contemporanea, ma quello che sfuggiva all’ilare monaco era il senso del male:
gli stermini storici gli sembravano frutto di scandalose nequizie sociali; non
si rendeva conto che ogni morte, la più ‘naturale’, è già un male
insopportabile. Nessuno dovrebbe accettare come naturali morte e malattie.
L’altro è nel frattempo diventato
l’ossessivo specchio della desolazione di ciascuno. Aiutare il prossimo a
risolvere i suoi problemi sperando così di superare i propri: a questo si
riduce l’atteggiamento religioso del nostro tempo. Sempre più confuso con
l’azione sociale e la politica, meglio: una politica ridotta ad azione sociale.
In una conversazione con i suoi allievi del dicembre 1930, Wittgenstein tagliava
corto: «Bene è ciò che Dio ordina» (Lezioni
e conversazioni). Ma poi la sua filosofia agli antipodi di quella tomistica non
avrebbe saputo indicare come capire e seguire gli ordini divini.
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