sabato 28 marzo 2015

La lunga epochè


~ NEI GIORNI DI MORTIFICAZIONE 
E IN QUELLI DI GLORIA. ~  
DIGRESSIONI DI QUARESIMA ~

Gli umani si industriano nella vita per risolvere il problema della morte. Per rimuoverlo, allontanarlo o almeno occultarlo. Magari soltanto distrarsene. Chi riempie la casa di  pacotilla e l’esistenza di fatuo non teme forse tutto quanto evoca lo spazio vuoto? O su un piano più alto, i letterari che costruiscono le storie per dipanare le sorti (degli esseri romanzati) a loro piacimento, non provano appunto a dominare quell’osceno vuoto? Proprio come tremila anni fa, si ha paura e si tessono inganni per vincere la morte alla maniera di Odisseo, come tremila anni fa si tenta di manipolarla alla maniera di Omero, o chi per lui, che distribuisce vittorie e sconfitte, violenza e sangue, hybris e capitolazioni, quasi l’artista delle parole fosse un dio potente che dall’Olimpo rimesta i destini degli sventurati umani. Così anche noi, comuni mortali, giochiamo oggi a passare dal ruolo di personaggio a quello di drammaturgo, e viceversa.

Strada facendo si sono persi però i contorni della fine corporale (ne ha scienza tutta sua solo la casta sacerdotale dei medici). Una lunga epochè. O meglio, una specie di anestetizzazione anche della curiosità del dopo (perfino dove non lo si nega). Definitivo seppellimento di tale curiosità è segnato dal pensiero heideggeriano che condanna la creatura a questo limbo, che detta la finitudine sinistra, che spegne le ultime resistenze vitali, arrovesciando come certe religioni orientali la vita nella morte. Ci si inebria di quell’angoscia che ci farebbe provare davanti alla morte il medesimo sentimento del sublime davanti alla rovine della storia o meglio davanti allo spettacolo drammatico della natura. Pare un cristianesimo monco, un tetro e continuo ammonimento quaresimale senza che mai sopraggiunga la Pasqua. Raccontano che il giovane Heidegger tentò di entrare in un noviziato gesuita e fu assai deluso di non essere accolto nella Compagnia, ma quel ‘cristianesimo senza la Pasqua’, anche per l’influsso che il filosofo ebbe sui suoi ripetitori teologi, sui mancati suoi confratelli nell’ordine ignaziano, che peraltro abbondano nel versante esistenzialista, diventò nel nostro tempo la cifra di un malinconico magistero cattolica. Non si predica più la Pasqua dal momento che non si annuncia più nelle omelie la resurrezione dei corpi, non ci si gloria per la sconfitta della morte. Resta il gaudio dell’Exultet  e di altri inni liturgici e testi biblici che benché recitati in vernacolo, quanto spesso in modo fiacco, privi di commento come sono o addomesticati nelle prediche alle peggiori banalità, non colpiscono l’immaginazione del popolo di Dio. Subentra un soffuso docetismo per cui anche i cattolici adesso si intimidiscono a parlare delle sofferenze fisiche di Cristo, e la Passione si trasfigura in un progressivo distacco dalla carne. Certo questo silenzio non è solo frutto equivoco del pensatore di Messkirk, da prima del suo avvento la disperazione luterana che evita l’articolazione razionale nelle domande decisive era diffusa in Occidente ed eclissava la gioia radiosa del tomismo. Dimenticato il santo domenicano che spiega come la vita sulla terra abbia il suo senso in quella celeste, la sua giustizia, le sue vittorie. In quell’architettura, il corpo fa parte dell’essenza dell’uomo, non può sparire come fosse un dettaglio.
 
Nulla di più scontato del fatto di morire, almeno per chi ti sopravvive. Si ripete il gesto che tutti gli umani prima di noi hanno compiuto. Ma nulla di più eccentrico del fatto di morire per chi lo esperimenta in prima persona. Non gli era mai capitato in vita e mai più gli capiterà. Vorrebbe che almeno il mondo intero riecheggiasse questo istante cruciale mentre, soprattutto in un ospedale, nessuno ci fa caso, anzi se lo aspettano, lo hanno previsto, forse anche favorito, talvolta per non vedere soffrire perfino i familiari se lo augurano. Fuori dall’architettura tomistica, la solitudine della morte è estrema, la fine corporale necessariamente violenta.

Lontanissimo dai pensieri dell’Aquinate, un giovane di venticinque anni conosceva però in modo precoce la terribile verità del dolore, il fatto di come esso ti renda «incapace di svolgere dei pensieri» ma «ti riveli molte cose. L’obbrobrio di tutte le cose». Da qui il rifiuto del mondo, l’evangelico rifiuto del mondo, e la scelta del Cristo in lotta con la morte. Con questa sapienza dolorifica scriveva dunque Sergio Quinzio delle martellanti lettere al fratello, poi uscite in stampa con il titolo di Diario profetico, dove troviamo una specie di scommessa pascaliana benché priva dell’elegante distacco proprio dell’aristocratico scienziato francese, anzi con mistici accenti che infastidirebbero i teologi: «La conquista del regno è un salto che si deve fare per disperazione, in quel punto in cui non avendo più nulla al mondo su cui contare si è costretti a contare solo su ciò che è opposto al mondo. […] Il punto in cui non ci sostiene più nessun valore e appoggio umano, neppure un cieco e vago sogno esitante. Solo Gesù Cristo, solo l’abbandonato, il senza sangue, il senza amici, il senza Dio, è la consolazione promessa: ‘Venite a me, voi che siete stanchi e oppressi’ (Mt, 11, 28)». Un simile giovanotto non poteva credere alle favole moderne sulla morte raccontate dagli scienziati, dai filosofi, dagli artisti contemporanei e perfino da preti troppo sensibili ai mali sociali (insensibili all’avvertimento che «il Regno non è di questo mondo»); favole concepite per sedare, in modo che non si urli più come nei secoli bui per quel decomporsi della vita terrena, implorando Dio con il terrore negli occhi affinché gli fosse risparmiata la terribile prova, secondo quanto fece lo stesso Cristo tra gli ulivi alla vigilia della sua Passione, mostrandosi invece docili e ragionevoli, succubi delle spiegazioni illuministe, della ‘morale’ di simili favole. Cosi provò allora Quinzio a definire la somma pena umana: «La morte non è il ‘naturale’ e pacifico epilogo della vita e non è una delle infinite tranquille peregrinazioni da pianeta a pianeta. È un oscuro dramma e una maledizione nella putrefazione, come l’intuito sente, o sentirebbe se non fosse distratto dalle molte piccole inutilità quotidiane» (nell’edizione Adelphi, pp.  65-75 passim). È con il tono fosco dei profeti dell’Antico Testamento che Quinzio copre di abominio le formule attuali della morte quale conclusione naturale, della macchina che si consuma e si rompe, o della morte fantascientifica che si apre a reincarnazioni in altre epoche, a metempsicosi dei buddismi alla moda; urla perciò come i personaggi biblici, prima delle traduzioni greche, platoniche, le ragioni dei corpi, scommette sulla loro vittoria in durissime battaglie, tutto al contrario delle visioni facili degli spiritisti che evitano con i peggiori escamotages di pensare alla corruzione fisica. Il tempo di Quaresima prova a fare a meno delle «piccole distrazioni quotidiane» ma non per essere dannati alla solitudine della morte, agli eroismi senza virtù e con molte parole dei nichilisti moderni, al rifiuto preconcetto delle domande sull’«ora della nostra morte». Si conclude infatti con la promessa della Pasqua, la grande consolazione della Pasqua: ecco il vero eroe che solleva il marmo tombale ed esce vincitore secondo l’immagine di Piero della Francesca.

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