DELL’AGONIA
DI KAROL MAGNUS ~
‘Lettere dimenticate nel computer’ è una
specie di rubrica che in qualche occasione l’«Almanacco» ripropone tirando
fuori e pubblicando emails rimaste nella memoria del nostro elettrodomestico.
Dieci anni fa, il 2 aprile, moriva Giovanni Paolo II e questo scritto, in prima
persona e con i caratteri della conversazione, anche della confidenza, racconta
a un interlocutore lontano l’atmosfera di quelle ore in cui tramontava uno
dei più lunghi pontificati della storia bimillenaria della Chiesa.
… L’altra sera, proprio mentre cominciava l’agonia del
romano pontefice, a cena quel poveretto ripeteva le banalità sul papa
‘conservatore’ (ma Emanuele Severino: il papa non può non conservare, ordinare,
Giovanni Paolo si è spinto al massimo nell’apertura…), sul ‘ritorno a Trento’,
come fosse possibile tornare anche solo a Pio IX. Inutile ripetergli che
il cattolicesimo della mia infanzia era già irrepetibile, Pio XII non avrebbe
capito che le folle dei papaboys, con lo spirito e le forme protestanti e un certo
candore, diciamo così, nordico, appartengono ormai alla Chiesa di Roma. Di
fronte alla star mondiale polacca, Eugenio Pacelli, pur proteso verso il mondo
dolentissimo, in posa tra le macerie di San Lorenzo, con la veste bianca
macchiata di sangue, a farsi icona delle rovine della guerra, o ad atteggiare
la figura ieratica per cartoline popolari, e pur ricevendo quotidianamente alla
sua corte i principi veri del mondo e quelli cinematografici, i divi dello
sport e i divi ancor più effimeri della politica, secondo antiche gerarchie (ai
suoi funerali, gli eredi dell’Impero austro-ungarico verranno prima dei capi di
Stato al potere, prima di ogni altro sovrano), si concedeva alle folle con
sapiente parsimonia. Moltissima radio, rari cinegiornali, televisione una volta
all’anno. Pontefice neobarocco, qualche volta assisteva alle messe solenni (a
Natale e a Pasqua, ma non sempre), rarissimamente celebrava di persona. Da
bambino mi capitò di andare con mio padre in Vaticano, era la mia prima volta,
attraversammo i cortili rinascimentali, poi una serie di corridoi, dove gli
svizzeri e altri gendarmi ci sbarravano il passo (eravamo in ritardo), infine
scostammo una pesante tenda verde (è successo più di mezzo secolo fa ma
l’immagine resta netta) e mi ritrovai nella Cappella Sistina. Sicuramente sarò
stato preparato a questo singolare luogo, all’arte di Michelangelo, ma io fui
colpito da altro: lì tra i ceri e l’incenso, tanto incenso, c’era un magrissimo
papa, vedevo il papa, che era come dire vedevo Dio. Il Giudizio dipinto
non mi si fissò in mente quel giorno. Il vicario di Dio celebrava messa e al
celebrante una volta tanto si addiceva il troppo abusato aggettivo di
carismatico. In vita mia, due ne ho visti di veramente dotati di carisma: papa
Pacelli e padre Pio quando celebrava messa, ma anche quando allontanava le
donne ciarliere come un eremita del deserto.
Nel 1982, quando l’Italia vinse a calcio la Polonia,
molta gente dei quartieri nei dintorni di piazza san Pietro si recò in moto e
in auto con i tricolori a rumoreggiare davanti alle auguste finestre dei sacri
palazzi. Uno sfottò da Don Camillo e Peppone, roba da curati di campagna,
il papa non era più impenetrabile, altro che i faraonici flabelli
che si agitavano, ancora nei Cinquanta, accanto al trono del sommo
pontefice, ventagli di bianche piume di pavone issate su aste dorate a
simboleggiare la gloria. In una parrocchia di periferia vidi Wojtyla
abbracciare con slancio la signora delle pulizie del mio palazzo, donna operosa
che trovava il tempo di far parte del consiglio parrocchiale. In confronto
anche il suo predecessore lombardo, il Montini della piccola nobiltà bresciana,
era un Giulio II quanto a sprezzo.
Tanto distanti cerimoniali, Pierluigi da Palestrina
sciaguratamente sostituito da canzoncine orride, non impedivano la continuità
della tradizione apostolica. Del resto, anche l’agonia del severo Pacelli finì
in pasto ai media, con il suo archiatra stoltissimo (tutti i medici dei
pontifici del Novecento non sembrano granché, un tempo si ricorreva ai medici
della comunità ebraica romana, gesto di reciproca fiducia) che scattava foto a
Pio XII in pigiama e le vendeva ai magazines Usa. Simbolico evento, cui si
aggiunse l’imbalsamazione riuscita male che produsse l’esplosione della salma,
nella notte, sul catafalco seicentesco a San Pietro: il corpo esibito di fronte
al mondo, il corpo dolorante, il corpo cadaverico (e in quel caso anche
disintegrato). Che cosa c’è di più cattolico? In un’epoca in cui gli
spiritualismi d’origine protestante avevano già preso piede nel mondo, i papi
cattolici ricordavano in prima persona la fisicità di questa religione. Pio XII
e il Polacco. In mezzo, si riaffermarono gli angelismi conciliari che erano
l’altra faccia dell’umanesimo ateo (Pascal docet). L’arte non paga di aver
sostituito la religione, adesso si permetteva di istruire i padri conciliari.
Kandinskij era più popolare di Tommaso d’Aquino. Al massimo – si
concedeva – i cattolici carezzavano maggiormente i simboli, ma con
diffidenza, ci si raccomandava, perché un teologo protestante come Bultmann, in
gran voga, metteva in guardia: «Per la fede cristiana l’idea di bello non ha
alcun significato formativo della vita; essa vede nella bellezza la
tentazione di una falsa trasfigurazione del mondo…» (appunti da Glaube und
Verstehen che mi ritrovo in tasca). E poi Kandinskji e il suo astrattismo,
era l’icona della modernità, dell’aggiornamento come si diceva allora, e
nessuno idolatrò tanto una idea di moda quanto i monsignori degli anni Sessanta
e Settanta. Venne Giovanni Paolo II e brandì la croce nella prima cerimonia in
piazza san Pietro, a rivederlo ora sembra uscito da un film russo, un pope
guerriero. Avanzava verso la folla, ruppe i cordoni della polizia, con il
pastorale a forma di croce agitato come un bastone, finché con pianeta e
mitria, incontrò il suo pubblico… La Chiesa stava in una situazione peggiore
che al momento della scissione del monaco sassone. L’eresia luterana era
penetrata nella Curia. Un terzo dei preti e delle suore aveva abbandonato i
conventi, spesso per qualche misero accoppiamento che si voleva benedire con un
matrimonio riparatore. Quanto insistettero i cortigiani perché il papa polacco
acconsentisse al superamento della castità sacerdotale, o comunque permettesse
i matrimoni dei preti che volevano restare cattolici: altrimenti, si diceva,
scapperanno tutti. Un quarto di secolo dopo, è vero il contrario, restando
fedele alla tradizione ha ritrovato il consenso maggiore. Ma allora i teologi
si lasciavano incantare dagli umanesimi più ovvi, dal pansessualismo freudiano,
dalla sociologia. Il cosiddetto ecumenismo mascherava una idea fissa: Lutero
aveva ragione, la Chiesa di Roma torto. Su tutta la linea. Perfino l’ateismo
aveva maggiore credito della tradizione cattolica. E questo non tra i fedeli
smarriti, ma tra i cardinali e i vescovi. Ci si dimentica facilmente di
quell’epoca. Nell’anno santo del 1975, per esempio, si discusse a lungo se
tenere o meno il giubileo, ci si vergognava di simili celebrazioni. Paolo VI si
impuntò, ma un filosofo cattolico ufficiale come Jean Guitton – uno dei due
laici ammessi al Concilio – scrisse una pessima profezia: probabilmente tra
venticinque anni non ci saranno più dei giubilei (tra le righe si capiva che
non ci sarebbe stata neppure più la Chiesa di Roma). Era sensazione comune che
la Chiesa si sarebbe dissolta nel culto dell’umanità preconizzato da Auguste
Comte. Oggi, rozza, polonizzata, un po’ meno romana, ma ancora gigantesca, la
Chiesa cattolica riafferma, grazie a Wojtyla, la sua vittoria sulla eterna
gnosi. Il corpo è più che mai al centro della religione derivata dall’ebraismo.
Proprio per questo le differenze sessuali vengono marcate a dispetto degli
spirituali che tutto vorrebbero annullare (omosessualità, donne sull’altare: è
il sacerdozio universale di Lutero, la Parola interiore e suprema che cancella
l’aspetto fisico), proprio per questo si assiste all’insistente, esasperante
attenzione per feti, cellule staminali, ecc. Lì è il sacro, il consacrabile, il
kasher, guardatevi dall’eclettismo in nome dell’anima, parola che non esisteva
nella lingua di Gesù, sembra dire la Chiesa wojtylana. Anche questa agonia sta
a ricordare che spirito, nella tradizione giudaico cristiana, è anche il soffio
vitale che esce dalla bocca umana, fisico anch’esso. Quando il camerlengo
batterà i colpi del suo martelletto sulla fronte del pontefice, quando nello
specchio il fiato non apparirà più, vuol dire che, come Gesù sulla croce, egli
ha emesso il suo spirito. Non resta che la resurrezione dei corpi.
Dunque, prima affinità con il papa aristocratico, lo
spettacolo del corpo. Il vangelo è già una forma di divulgazione di massa, di
spettacolare messa in scena della promessa più intima di Dio ad Abramo,
l’ebraismo annunciato alle genti del pianeta. Ecco perciò quel civettare con i
media, che ha valenze teologiche. Ieri sera il critico tv del «Corriere della
Sera» nonché docente cattolico all’università proponeva un suggestivo schema:
appena pochi decenni fa, concepivamo il corpo di carne e di sangue da una parte
e, dall’altra, la sua rappresentazione. Ora il duplicato della rappresentazione
si confonde con il corpo fisico, lo scambio è quasi totale, affidato alla
riproduzione anonima del digitale. Un altro trionfo dei corpi, si potrebbe
dire, che tanto esaltava il teorico cattolico Marshall McLuhann. Lui, che
andava a messa prima delle sue lezioni, sapeva bene della cattolicità di questi
media e avrebbe potuto annunciare il papa polacco come un destino delle sue
analisi.
Seconda affinità: la lotta al comunismo che voleva
distruggere la Chiesa. Uno la iniziò, l’altro la vinse.
Terza affinità: gli ebrei, la 'vicinanza' con gli
ebrei. Oggi si dice che Giovanni Paolo sia stato il primo papa a pregare in una
sinagoga. Ignoriamo se Simone detto Pietro non frequentasse più (non aveva
l’avversione di Paolo per i suoi ‘correligionari’ di un tempo), e resta una
questione importante. Sappiamo però che nella cattedrale cattolica di Berlino –
regnante Pio XII – si pregava ogni pomeriggio, durante lo sterminio, per gli
ebrei perseguitati, e tali preghiere provocarono l’arresto e la deportazione
dei celebranti. Sappiamo che von Galen, il cardinale fieramente antinazista che
predicava dal pulpito contro le teorie hitleriane, era un missionario di Pio
XII e, qualche settimana fa, ho scoperto che Wojtyla lo stava per
canonizzare…
Tra poco, ci sarà l’annuncio alla città di Roma che il
suo vescovo è morto. L’Urbe deve essere ancora la prima, la città privilegiata,
la nuova Gerusalemme. Stanotte era chiaro che la cultura latina, nonostante le
architetture vaticane, si è molto imbastardita. Una influenza europea-orientale
ben maggiore di quella fiamminga sotto papa Adriano, l’ultimo papa straniero,
quando pure i pittori della sua corte disegnavano il Colosseo goticheggiante
perché così lo percepivano. Ma l’imbastardimento (non il sincretismo) è il
segno più sicuro del cattolicesimo, è la commistione delle razze che trionfava
nella Roma imperiale e in quella papale, suscitando anche nei tempi moderni lo
sdegno di Chamberlain, genero di Wagner, luterano senza più cristianesimo…
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