venerdì 8 maggio 2015

1989

~ DIARI LONTANI
PER CERCARE IL BANDOLO
DEL SECOLO SCORSO ~
~  I PUNTATA ~ 

È il centenario della nostra Grande Guerra e 101 anni dall’avvio del primo conflitto sul teatro del mondo intero, anche se la violenza portata in Europa e fuori d’Europa da Napoleone già aveva un carattere globale. Un secolo di guerra intestina e contro tutti, ovvero quando la Modernità depose il tono mondano della belle époque ottocentesca e mostrò il volto di Medusa. Ora siamo distanti circa mezzo secolo dal furioso 1968 e un secolo appunto dalla prima Guerra mondiale, cosicché è assai facile capire come, in quell’anno fatidico della giovinezza dei vecchi attuali, la guerra delle trincee che pareva di altri millenni, faccende di nonni bellicisti, produceva più o meno l’effetto che la insurrezione dei nonni pacifisti asserragliati nelle università può produrre sui ragazzi di oggi. Ovvero le varie facce della Mobilitazione Totale. E poi c’è un altro numero magico, il 1989, doppiamente magico dal momento che rievoca l’anno della Rivoluzione francese e quello che dissolve la Rivoluzione russa e le sue conquiste militari in mezza Europa, il frutto più innovativo della guerra. Abituati dalla ossessiva attualità a uno sguardo da miopi, ci si dimentica di un tempo, non troppo remoto, in cui queste date hanno fatto tribolare il genere umano.

Càpita che per una specie di ‘pulizie di Pasqua’, estese anche al pc, si rinvengano diari lontani, taccuini di appunti, che nei pressi dell’Ottantanove e del lustro successivo provavano a riflettere in forma di frettolose annotazioni su quel secolo a cui siamo ancora così attaccati. Le trascriviamo senza correggere nulla col senno di poi, anche se il raro lettore forse si stupirà di toni e riferimenti eccentrici rispetto a quelli che si trovano abitualmente su questo «Almanacco».


REDENZIONE LIBERTY - Nei contorni sfumati di un passaggio d’epoca, all’alba del XX secolo e nel suo avvento segreto, si sviluppò una strana attesa di una prossima redenzione che si accompagnò ai tumulti socio-politico-militari. Tikkun è il termine cabalistico variamente tradotto con redenzione, appunto, restituzione, riparazione, riforma, ristabilimento dell’armonia perduta. Quest’ultimo intento farà da sottofondo al volontariato guerriero di molti giovani squisiti nel 1914 (si veda per esempio quanto scriveva Franz Marc intorno alla necessità del sacrificio per ricomporre l’Europa). Fino ad allora il termine ‘redenzione’ aveva designato in Occidente, fuori dal campo letterario, soltanto l’impresa divino-umana di Gesù Cristo. Finì nei libri dei marxisti per indicare l’indicibile dell’impresa esclusivamente umana. Un’altra variante, del resto, «Regno di Dio», passò via Hegel alle utopie politiche. La vibrazione spirituale che muoveva si materializzò nelle forme sfatte, monumentali e livide dell’Art Nouveau. L’immagine della Grande Madre –  sfuggita dalle bizzarre ricerche di Bachofen e coniugata con le rivolte di donne come con le paure di Weininger – diventa un altro mito lunare che consolerà i moribondi della Grande Guerra, gli artisti tedeschi, i più puri giovani mediterranei. Redenzione femminile dall’oppressione paterna, dalla schiavitù prussiana, dalla famiglia borghese. Le teorie freudiane ne faranno una faccenda ebraica di padri usciti dal ghetto e diventati troppo rigidi per avere introiettato la Kultur germanica, eccesso di zelo degli emancipati. In Die Schlafwandler (I sonnambuli) Broch delineò questi passaggi, in Der Tod des Vergil (Morte di Virgilio) diverranno il tema di un infinito poema sinfonico, che prende la forma di romanzo, svolto in chiave dolente. Kafka fu il profeta: la fine del mondo dei padri stava arrivando. L’universo prussiano della precisione era in panne. Da quei meccanismi inceppati verranno fuori immagini mostruose.

C’era chi al prussianesimo contrapponeva la dolcezza cattolica dell’Impero asburgico. Dopo il grande fratricidio europeo, nel 1918 già si rimpiangeva l’autorità femminile di Vienna. Un maestro dell’avanguardia come Schönberg – finito esiliato in California – confidava a un Brecht incontrato al supermercato la sua speranza di una restaurazione dell’Impero. L’altro profugo, con i suoi slogan lirici, non lo capiva. Ma ancora nei Cinquanta Broch avrebbe voluto ricostituire lo Stato asburgico sulle macerie dell’Europa sconfitta.

La cultura occidentale – dopo le singole e potenti fiammate cattoliche dei primi decenni del XX (Péguy e Chesterton per dire dei più popolari) – abbandonerà le chiese cristiane e si accosterà sempre più, in modo esplicito, alla gnosi. D’altronde, con l’irruenza del soggettivismo che conquista l’epoca moderna si finisce tutti gnostici, si fa della gnosi senza saperlo.

Con la complicità delle filosofie e delle religioni orientali, importate come antidoto all’industrialismo,  una utopia ricorrente fu quella della «Terra che torna amica». I maestri esoterici si guardavano bene dai corrivi esotismi: «il pericolo che minaccia il mondo è l’induismo… C’è oggi una specie di acqua di rigovernatura religiosa, mista di ingredienti cristiani e indiani», sosteneva per esempio Stefan George in un colloquio.

Un opuscolo come Die verfluchte Kultur (La civiltà maledetta) – invettiva di Theodor Lessing che si accanisce contro la civiltà europea, colpevole di distruggere la natura, l’ambiente umano, per avidità di progresso, per fede cieca nel tempo lineare dello sviluppo – è un esempio della nuova religione apocalittica nell’Occidente anni Venti, carte di un duello con la tecnica nella «Germania degli ingegneri», dando il la a tanta filosofia teutonica anche assai distante dagli auspici dello scrittore ebreo. Scriveva Lessing: «Da quattrocento anni il cosiddetto uomo caucasico è in procinto di assoggettare la terra […]. Da molto tempo è stata spazzata via e fatta scomparire l’intera fauna europea. […] Oltre a questo contro gli animali quale altro inaudito delitto contro il prato e il bosco […]. La Società per azioni di Copenhagen per l’esercizio economico della pesca alla balena macellò nell’ultimo anno 300.000 balene […]. Si uccidono ogni anno milioni di foche…». Nulla di nuovo sotto il sole di questo secolo. Alcune di tali litanie diventeranno più tardi discorsi ‘politici’.

Ultimi giorni dell’umanità: è stata questa la sensazione ricorrente per buona parte del secolo. Una esperienza terribile quanto esclusiva, almeno dopo il millenarismo medioevale, dove hanno sguazzato le culture estreme e le sottoculture più popolari. E intanto, linea tremolante all’orizzonte, la riconciliazione annunciata, la «Terra che torna amica», che si apre mollemente: nasce da qui quella voluttà funerea di sepoltura accogliente che si accompagna ai desideri liberty di liberazione.

Regno delle Madri spostato da Vienna a Mosca, dalla Dublino joyciana alla Oxford esoterica degli happy few. A Gerusalemme invece il sionismo strappa i legami materni che resero pavidi i figli del ghetto nella diaspora.

SOGNI RICONGIUNTI - «Per ‘rinnovamento’ non intendo in alcun modo un cambiamento graduale, la somma totale di piccole modificazioni: intendo qualcosa di improvviso e di enorme, qualcosa che non sarebbe in alcun modo assimilabile a una progressione, ma piuttosto a una trasformazione, a una metamorfosi» (Martin Buber). «Senza la tentazione di ‘fare violenza al regno dei cieli’ il futuro non è affatto un futuro ma solo un passato trascinato per una lunghezza infinita e proiettato in avanti.  Infatti senza questa anticipazione l’istante non è eterno, bensì qualcosa che si trascina perennemente oltre sulla lunga strada maestra del tempo» (Franz Rosenzweig). E, con minimalismo, Lukács nella Teoria del romanzo cerca di redimere almeno la letteratura: «L’ironia dello scrittore è la mistica negativa delle epoche senza Dio». C’è una idea apprezzabile di ‘novità’, passiva e poco enfatica,  che si ritrova in Kokoschka: «La maggior parte di coloro che venivano per farsi un ritratto erano ebrei. Si sentivano meno sicuri che il resto dell’establishment viennese e quindi erano più disponibili alla novità e più sensibili alle tensioni e alle pressioni che accompagnavano il decadimento del vecchio ordine…». Insicurezza, paura. Il trapasso era segnato dalla catastrofe. Un cambiamento ancor più del solito sotto l’egida della morte. Impensabile all’epoca dei Lumi e anche nel gaudente Ottocento. La redenzione liberty che sostituirà la fede religiosa richiede non un semplice atto di assenso, esige il sacrificio della vita, l’etica del sacrificio. La Rivoluzione mitica getta milioni di cadaveri in pasto alla Storia. Una rivoluzione che ha i colori del socialismo, anche nelle sue vesti nazionaliste, di «destra» estrema. «Destra» e «sinistra» rivaleggiavano in fatto di anticapitalismo, di rappresentanza dei salariati. I teorici di ambo le parti erano fieri di ripetere che nel loro schieramento si trovava il migliore socialismo. Oggi simili miti sono usciti di scena. Mancano parole e pensieri per definire l’onnipotenza del mercato mentre le ricette socialiste, dopo la disintegrazione del modello bolscevico, appaiono fuori corso.  

Quanta impazienza rivoluzionaria nella destra europea, quanta accondiscendenza letteraria d’ogni parte verso questa impazienza simbolo di giovinezza, contrapposta al calcolo degli odiati politici, quanto estatica ammirazione, sull’altro fronte, per la forza pagana dei bolscevichi capace anche di strappare il vecchio mondo dalle sue radici religiose. I rivoluzionari d’ogni colore puntavano al rischio supremo. Una guerra da combattere in città, distruggendone il cuore antico, le sue abitudini rilassate, una bella guerra dell’arte, del gusto, una crociata contro le vecchie delizie della vita, le dimore tranquille, le prose lente, i gesti solenni.

I conservatori erano i nemici, non come figura sociale ma come atteggiamento dello spirito. Irritava quel loro vivere nel presente, senza proiezioni nel futuro. Bottegai grandi e piccoli, come si diceva con fastidio per il commercio, per lo scambio (Hermes, colui che separa per ricongiungere diversamente, rottura della comunità, conflitto, spada mercuriale, spirito penetrante; questa sequenza nutrì pure l’avversione per gli ebrei – l’alato ai piedi sembrava la più semitica delle divinità olimpiche), salvo poi arruolare sotto le proprie bandiere i più incarogniti commercianti. Secondo lo schema, i conservatori potevano sopravvivere soltanto nella prosaica e perfida Inghilterra (ignorando il duro spirito aristocratico che animava e lustrava l’imperialismo dei suoi mercanti, quello che conquistò il globo terrestre).  Così la guerra culturale per il trionfo della tradizione, in nome della fedeltà alle radici e al sangue, passava per una rivoluzione come mai se ne videro. Céline non profetizzava altro che stragi stragi stragi.

Dopo la Seconda guerra mondiale, il sentimento liberty parve resistere soltanto tra i letterati: si appoggiò al pauperismo delle ultime plebi e in Italia si contrappose per lo più alla religione ufficiale che allora si rinvigoriva nelle élites uscite sbandate dalla sconfitta. Trascinò con sé le utopie delle origini, il naturalismo, le affezioni ‘verdi’, la rivolta delle donne, il gusto femminile, il cristianesimo eretico, il pathos dell’omoios in tutte le sue declinazioni, a cominciare dall’omofilia. L’estetismo fu sempre il suo sigillo. Ci volle un sentimento struggente per resistere alle suggestioni del presente, alle comodità dell’epoca con cui si tentava di dimenticare il sangue versato, che offriva una quantità sconvolgente di merci, che coniava il termine ‘benessere’ per quasi tutti in Europa. Novelli monaci di fronte alle sataniche tentazioni del più rapido arricchimento della storia, alla sospetta epifania della opulenza. La redenzione liberty, benché logora, restava sullo sfondo con il suo secolare tono ascetico. Addestrava ancora a fissare il lato negativo del mondo.

La Rivoluzione si fece bella con il gesto mitico, «il cambiamento in sé diventando quel che conta» (Valéry). Per chi è immerso nell’inferno qualsiasi segnale di metamorfosi sarà rincuorante, ma una simile politica di disperazione conduce i suoi militanti a misurarsi ripetutamente con la roulette russa. E a ogni tentativo ci si aspetta un proiettile in testa.

La sensazione che i giorni apocalittici siano imminenti si trascina per un secolo. Come capitò ai primi cristiani che attesero di giorno in giorno Gesù vindice, mentre si consumavano generazioni e generazioni. La luce opaca trapassava nel buio. Né il vociare dei veggenti rischiarava il futuro prossimo. Anni dopo anni si ridusse a «doxa sinistrorsa», come la definì Foucault, maestro della piccola scolastica parigina.

Stili di vita e di lotta: la trasgressione come gradino nella scala dell’ascesi. Pierre Klossowski scruta con i suoi occhi luciferini la metafisica della sessualità: «non si può essere trasgressivi nell’atto carnale se questo non è vissuto come atto spirituale». Per secoli la Chiesa di Roma si opponeva a un tale uso disinvolto dei doni dello Spirito Santo finché, negli ultimi tempi, per semplificazione dei teologi contemporanei, il Paraclito è scambiato con lo Zeitgeist.

La Rivoluzione si rivela ormai come una fiammata, una giornata frenetica sempre sconfitta il giorno dopo dalle abitudini prosaiche. In una pagina Heine seppe tirare fuori tutta la mestizia di questa conclusione: le armate napoleoniche avevano interrotto per un giorno l’eterna calma della Germania di allora, ma all’indomani «si tornava a scuola». Contro la Rivoluzione francese e le sue tante appendici si muoveva invece un rivolgimento sotterraneo e disteso nel tempo lungo, formato di momenti impercettibili, senza squilli di tromba né tribunali né vendette né giorni di gloria. Non confondeva, quel procedere dei conservatori, l’Apocalisse con la politica, la fine del mondo con la propria depressione psichica. Si perdeva il passaggio cruciale, rischiando di affogare nella monotonia apparente. Ci si affidava però allo sguardo che sapeva cogliere crepe sottilissime quanto vertiginose. L’autentico novum non era il negativo del presente. Al termine delle innumerevoli digressioni dell’odissea politica anche Itaca appare definitivamente cambiata. Nella letteratura fiabesca la formula «e vissero felici e contenti» doveva tentare di esorcizzare il lavorio del tempo che qualsiasi racconto avrebbe reso evidente.

L’artificio a cui ricorre la Rivoluzione – secondo la riflessione di Burke –, alla lunga non regge più: la natura, questa potenza reazionaria, si affaccia in aria di sfida.

La tabula rasa apocalittica appare nel caso politico un trucco retorico. Tocqueville riteneva che al successo rivoluzionario avessero contribuito «dieci generazioni», ma allora gloria al lavoro secolare e spesso anonimo delle dieci generazioni piuttosto che alla concitata giornata del 14 luglio.

Il suo carattere di unicità che la consacra giorno festivo, giubilare, tempo carismatico, impedisce per ciò stesso di parlare di «rivoluzione permanente», impossibile incatenare un evento speciale al tempo ordinario. Ma, per un secolo, permanente fu l’attesa.

Il malcontento cosmico oggi sembra rientrato (o degenerato in piccole voglie). Resta Armageddon, la minaccia nucleare (che corrisponde come potenza al raduno di tutti gli eserciti profetizzato da Giovanni) ma non è più immagine né letteratura e, silenziosa, clandestina, non riesce più a incutere terrore, fa parte degli album nostalgici dei Cinquanta, con i manifestanti anglosassoni in fila educata, buffi con i loro cartelloni contro la Bomba H.

UNA SPECIE DI NEMESI - Gli eroi dell’ultima guerra schierati con la parte vincitrice sono stati visitati in vecchiaia dalle Gorgoni della Storia che, con le sue riscritture, vuole riordinare le passioni degli umani. Nessuno, neanche il tempo, toglie il merito a coloro che oltre a battersi con valore salvarono donne, bambini e vecchi dagli oltraggi, ma pare che l’epos risuoni meno trionfale. A furia di raccogliere testimonianze, l’indicibile viene detto, e perciò banalizzato. Negli scaffali finiscono anche i libri dell’altra parte  e addirittura in Israele si pubblica Mein Kampf, reso innocuo dalla diversità del mondo attuale. Accadde lo stesso, negli anni Sessanta, ai vecchi che da giovani erano stati in trincea. Talvolta venivano irrisi per avere partecipato alla Grande Guerra, criticati come patriottardi, talvolta magari sbeffeggiati semplicemente perché inattuali, ma più in generale era il nemico austriaco che aveva perduto ogni credibilità in fatto di ferocia. Nel migliore dei casi, c’era imbarazzo per l’ossessivo insistere dei vecchi su una questione che, per quanto tragica, appariva superata per sempre. I nipotini, invaghiti di Klimt, non davano peso al più grande duello con la morte della storia moderna, duello affrontato dai loro nonni screditati.

SCHIAVI - «Nel capitalismo? Tutto è schiavitù», confidò Kafka in un colloquio. Ma nelle pagine-chiave del Capitale Marx: «… i vecchi organismi sociali [quelli pre-capitalistici] sono, sotto il rapporto di produzione, infinitamente più semplici e più intellegibili che la società borghese, ma essi hanno per base l’immaturità dell’uomo individuale, di cui la storia non ha, per così dire,  ancora tagliato il cordone ombelicale che lo unisce alla comunità naturale di una tribù primitiva, o a condizioni di dispotismo e di schiavitù». In ogni caso, osservazioni di altre epoche, come quelle che mettevano in luce la brutalità demoniaca dell’America nella storia di Rossmann. Ormai il capitalismo sembra diventato una potenza naturale. E in molti, soprattutto tra i marxisti di un tempo, sembrano rimpiangere i rapporti di produzione «più semplici e più intellegibili».

BILANCI - Dice l’uomo della strada o la donna del bus: «Questo secolo ha avuto tante cose brutte ma anche tante belle scoperte…», mai collegando le une alle altre, mai subordinando le prime alle seconde in un rapporto di causa ed effetto.

NOVECENTO - Anche il migliore illuminismo del secolo fu agitato da maghi neri, febbricitanti, stregati dal mistero, beffardi: Kraus, Valéry, Jung…

ARTE FUNESTA – Ancora Klossowski, in Un si funeste désir, libro volto ad arruolare Sade tra gli arcangeli velati, parla dell’abbandono da parte dell’Occidente del «regno del Logos» e della conseguente «rottura dell’equilibrio a spese della vita e della fecondità, a favore delle potenze della morte rappresentate dall’arte e da una dissociazione tra sentimento e linguaggio». Le «potenze della morte» celebrate nel culto estetico segnano in modo speciale questo secolo. Da Mallarmé in poi l’arte diventa liturgia funebre per essiccare la vita in un rito primitivo, cannibalico.

LA PAURA  - «Le nostre opinioni su quanto ci circonda, ma anche su noi stessi, cambiano tutti i giorni. Viviamo in un periodo di transizione. Forse, se noi non affrontiamo meglio di quanto abbiamo fatto fino a ora i nostri compiti più profondi, questo periodo durerà fino alla fine del mondo. Eppure, quando si sta nello stanzino buio, non bisogna, come i bambini, mettersi a cantare per la paura. Fingere di sapere come dobbiamo comportarsi quaggiù è appunto cantare per la paura: puoi sgolarti da far cadere il soffitto, ma è paura e nient’altro! D’altronde io sono persuaso che stiamo correndo al galoppo» (Robert Musil). Affinità con quanto andava dicendo con il suo tono professorale il fondatore della psicoanalisi: «Sappiamo bene quanta poca luce la scienza abbia potuto proiettare sin qui sull’enigma di questo mondo, ma tutto il chiasso dei filosofi non può farci nulla […]. Quando il viandante canta nell’oscurità smentisce la sua paura ma non vede perciò più chiaro». Jung, in una lettera del 1945 al pastore Buri: «la ringrazio di cuore per avermi inviato il Suo scritto sul superamento della paura mediante la religione. […] La creatura che perde il sentimento della paura è destinata alla morte. I primitivi che sono ‘curati’ dai missionari per la loro paura dei demoni, naturale e giustificata, degenerano. In Africa ne ho visti parecchi, checché ne dicano i missionari. Chi ha paura ha sempre i suoi motivi. Ci sono non pochi pazienti in cui bisogna infondere la paura che, per un intorpidimento dell’istinto, li ha abbandonati. Una persona che non ha più paura si trova sull’orlo del precipizio. Si possono curare le persone senza causare dei danni solo quando si trovano in uno stato patologico di paura eccessiva. In secondo luogo, per quanto riguarda le religioni, in parte esse liberano dalla paura, in parte la generano, come fa persino il cristianesimo, ed è giusto che sia così, perché alcuni uomini in questo mondo hanno troppo, e altri invece troppo poco. Liberarsi semplicemente dalla paura è una vera e propria assurdità. […] Come terapeuta non tento mai di liberare i pazienti dalla paura. Al contrario, li conduco sino al motivo profondo che spiega come essa sia giustificata. […] Il far derivare la paura dalla rimozione è una costruzione nevrotica, apotropaica, inventata a beneficio di tutti i vili: è una mitologia pseudoscientifica, in quanto considera inadeguato un istinto biologico fondamentale…».

Canetti aveva visto giusto quando parlava di Céline come di un impaurito: quei racconti tremebondi, il balbettio che produce puntini e puntini di sospensione, la processione degli agonizzanti che si snoda nei passages della Parigi ormai solo capoluogo del secolo, secolo della paura che non ha più un nome, dei pavidi privi di protezione, delle audacie di massa effimere che poi suscitano tanti rimorsi…

LA SALUTE DI GOETHE - Come Montaigne, per Sergio Solmi, incarna la nostra nostalgia della salute (forse solo dalle paludi del decadentismo, nel febbrile stato di disordine, si può invocare la salute), così Goethe, estremo classico nel moderno, attento curatore del proprio ruolo di magister vitae, si presta in maniera altrettanto superba all’ufficio asclepieo. Paraclito, consola i moderni, fa il demonologo delle nostre angosce, a cominciare da quelle della vecchiaia, che lenisce con galanteria settecentesca: «’Lustrum’ è una parola straniera! / Ma se diciamo: abbiamo portato / otto o nove ‘lustri’/ e goduto e vissuto / e qualche volta amato / chi ansioso cerca l’uguale / sarà oggi dei nostri». Goethe eccelle tra i poeti, che in genere distendono il velo nero del rimpianto, ed elogia invece la longevità, amerebbe raggiungere il secolo, trova che «a ottant’anni possiede vantaggi che non vorrebbe cambiare con quelli dell’età meno avanzata» (ricorda in un saggio Curtius), si spinge ad abbracciare i millenni, ragiona per secoli piuttosto che  per decenni. Alla sua scuola Ernst Jünger sembra averlo superato ed eccede – come tutti gli epiloghi anche se di rango –, spingendosi fino alle ère geologiche, negli scenari dove la sua figura si impicciolisce al punto che perde ogni dolore umano e ogni morale (affine come funzione terapeutica a quella del dottor Benn), ma poi nei bilanci del novantesimo compleanno (nell’anno 1985) sembra ossessionato dalla durata della sua fama:  si conforta con la gloria postuma  che gli deriva dall’avere dato il proprio nome a un insetto che resisterà dunque «tanto quanto il sistema di Linneo», più a lungo della celebrità letteraria; si preoccupa della possibile fine di Omero: pochi millenni: niente. E se Omero scompare dalla memoria umana, figuriamoci Jünger. Una disperata fiducia nella sopravvivenza affidata a un’opera, a un nome. Materialismo magico per consolare dello sbiadirsi della gloria. Altri elementi terapeutici: le soffitte «dove il tempo passa più inavvertito», gli orologi a sabbia… Ma farmaci furono anche il distacco dal pathos storico ostentato nei Diari dell’occupazione di Parigi. Gli esercizi di stile che permettono di non soccombere alla febbre devastante: l’eleganza è tonificante e abbassa la temperatura. La salute di Jünger: chi scrive in modo davvero algido raggiunge i cento anni e li oltrepassa. A Venezia qualcuno vuole rovinargli la festa forse infastidito dalla sua condanna di tutti i massacri. Ancora nel 1979 un buon germanista fiorentino, pur diretto allievo di Heidegger, si indignava per l’accostamento jüngeriano della macelleria tedesca con quella del «dispotismo asiatico» che il professore chiosava con preoccupazione: «si tratta – diceva con linguaggio di quei tempi – del campo socialista». Nella bizzarra festa in Laguna un vecchio senza tempo sbucato dal tunnel degli orrori del secolo potrebbe essere attaccato dagli appassionati del «dispotismo asiatico», tanto pateticamente innocenti da non possedere neanche un briciolo di quella crudeltà che pure li esalta.  Un altro professore, un saggio antichista di Bari, pretende da Jünger una pubblica ammissione delle stragi germaniche a danni del popolo ebraico. Ma nei Diari si trovano numerose testimonianze di prima mano sull’argomento, e tutte fornite spontaneamente, senza alcun ricatto od obbligo di legge, perché l’autore si voleva fedele alle regole militari cavalleresche che quelle stragi violavano. I suoi libri così sono la migliore smentita a chi mette in dubbio i tentativi di sterminio. Vi si racconta che in alcuni villaggi polacchi, perfino dei tedeschi, finiti nei ghetti ad acquistare a buon prezzo le case degli ebrei ma sbagliando forse i tempi, furono scambiati per discendenti di Mosè e avviati ai campi delle carneficine. Alle loro veementi e poi tragiche proteste i militari avevano risposto: «Da queste parti tutti negano di essere ebrei». Quanto a un non lontano incontro pubblico tenutosi a Roma e a cui allude il professore, chi ebbe la ventura di esserne testimone ricorda bene le parole del letterato tedesco: a Parigi venne a sapere della eliminazione degli ebrei in corso «nelle zone orientali»; tra gli altri, disse con aria grave, suo figlio – l’amato figlio perso sulle scogliere di marmo italiane, in una impresa punitiva con cui pagò una eroica denuncia –  gli aveva scritto in proposito da quei luoghi infernali…

LA PAURA/2 - «Con le altre paure terrestri getteremo lungi da noi anche la paura del tempo: il presente diventa per noi sempre più misterioso e chiaro invece il presagio di una presenza superiore»: Hofmannsthal riassume e intreccia le questioni della paura, del tempo mitico e della redenzione.

L’AVVENIRE SCANDINAVO - Se da ragazzo si obiettava che nel Nord d’Europa c’erano dei sistemi politici che evitavano il sangue e le cattive maniere, trattando in fin dei conti abbastanza bene i cittadini, in famiglia ribattevano con il luogo comune conservatore: quanti suicidi lassù! Un sistema che produce tanti morti di noia, di vuoto, di routine, di piattezza borghese (che scandalizzava Kierkegaard), di socialismo pantofolaio, di materialismo soffocante che fa arricchire gli psicoanalisti… I morti di eroina, anche nelle stamberghe di Palermo, erano di là da venire. Si replicava in quei lontanissimi tempi: alla luce della ragione sobria (non dei Lumi, generica clarté) si trovava non tanto un paradiso scandinavo quanto un giardino d’inverno, un modello da prendere in considerazione, un posto da preferire agli italici purgatori se non inferni. Poi le critiche conservatrici alla sicurezza sociale ben si adattarono ai gusti adolescenziali per il precariato e prepararono il terreno alla feroce irrisione comunista della socialdemocrazia. Domani, di moderatismo in moderatismo, si potrebbe arrivare a costruire un adattamento mediterraneo di quella gabbia di sicurezza sociale. Addio ai sogni, coltivati in provincia, di sconvolgere il mondo con il ‘caso italiano’? Al macero la irriducibilità machiavellica, il realismo cattolico, la teatralità meridionale, l’ideologia della dolce vita?

PASCAL PATRONO DEL MODERNISMO - I nani scalzano i giganti: «la nostra vista ha maggiore estensione [di quella degli antichi che] non conobbero  quanto noi che vediamo più di loro», sosteneva Pascal. Il cristianesimo prende definitivamente coscienza della sua importanza storica, il Nuovo Testamento si contrappone all’Antico, gli evangelisti smentiscono Bernardo di Chartres, scendono dalle spalle dei profeti e camminano sulle proprie gambe. È solo un problema di occhi, dunque, non di punto di vista da cui si guarda. Il novum è davvero il cristianesimo? L’Eternità si incarna così nel Moderno, nelle mode, nella effimera spazzatura dei grandi eventi. Talvolta lo stile arcaicizzante è soltanto una forma di pudore.

DRAPPELLI SULLA SPIAGGIA - La concezione militare dell’«avanguardia», rilanciata al cabaret svizzero dei dadaisti, fatta propria dalla strategia bolscevica in parallelo con la guerra estetica degli artisti del Novecento, si perpetua nelle comitive elette che frequentano le migliori stazioni balneari del Mediterraneo. La coscienza di anticipare i tempi, di avere ragione contro le smentite del presente, porta questi militanti sui generis a prediligere un motto: «Il tempo sarà dalla nostra parte» (versione laica di quella divisa che si fregia di Dio al posto del tempo). Certezza di incorporare, benché occultato, un qualcosa di sacro, forse l’anima segreta della storia che un giorno o l’altro verrà fuori e stupirà gli ignavi. La religione del futuro (niente a che vedere con il Futurismo) che diventa l’oppio del presente. L’illusione che le chiacchiere sulla spiaggia spostino le pesanti faccende del mondo.   

BIG BANG - Le origini povere, sembra, del pomposo ateismo moderno: stadio supremo dell’Illuminismo o scarto delle procedure tecnologiche? Comunque un simile affrancamento dalle potenze celesti avviene senza un libro basilare, Marx e Darwin trattano la faccenda in modo marginale. Neppure una data quindi che segni la presunta emancipazione del genere umano, il trionfo dell’opera di Prometeo. Date, libri e pensatori espliciti ce ne sono a schiera per l’avvento del teismo mentre per il più impegnativo ateismo ci si deve accontentare di personaggi minori, di allusioni, di frammenti da ricostruire come nelle rivelazioni religiose. L’ateismo occidentale (lasciamo da parte quello orientale, imposto con la forza dallo Stato e precipitato poi con esso) sembra allora essersi affermato come un movimento di opinione, una fede generica che in pochi saprebbero argomentare dignitosamente, una pigrizia mentale, forse conseguenza della faciloneria morale in voga. Un tedesco ha scritto che la strada che porta a Dio nei nostri tempi si è persa «in una smisurata lontananza». Una specie di sentiero del bosco, tracce difficili, impenetrabili alla storia. E già questa rappresentazione mette in crisi il cattolicesimo che si vuole dentro la storia degli uomini.   
(1. - continua)

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