PER CERCARE IL BANDOLO
DEL SECOLO SCORSO ~
~ I PUNTATA ~
~ I PUNTATA ~
È il centenario della nostra Grande Guerra e
101 anni dall’avvio del primo conflitto sul teatro del mondo intero, anche se
la violenza portata in Europa e fuori d’Europa da Napoleone già aveva un
carattere globale. Un secolo di guerra intestina e contro tutti, ovvero quando la Modernità depose il tono
mondano della belle époque ottocentesca e mostrò il volto di Medusa. Ora siamo
distanti circa mezzo secolo dal furioso 1968 e un secolo appunto dalla prima
Guerra mondiale, cosicché è assai facile capire come, in quell’anno fatidico
della giovinezza dei vecchi attuali, la guerra delle trincee che pareva di
altri millenni, faccende di nonni bellicisti, produceva più o meno l’effetto
che la insurrezione dei nonni pacifisti asserragliati nelle università può
produrre sui ragazzi di oggi. Ovvero le varie facce della Mobilitazione Totale.
E poi c’è un altro numero magico, il 1989, doppiamente magico dal momento che
rievoca l’anno della Rivoluzione francese e quello che dissolve la Rivoluzione russa e le
sue conquiste militari in mezza Europa, il frutto più innovativo della guerra.
Abituati dalla ossessiva attualità a uno sguardo da miopi, ci si dimentica di
un tempo, non troppo remoto, in cui queste date hanno fatto tribolare il genere
umano.
Càpita che per una specie di ‘pulizie di
Pasqua’, estese anche al pc, si rinvengano diari lontani, taccuini di appunti,
che nei pressi dell’Ottantanove e del lustro successivo provavano a riflettere
in forma di frettolose annotazioni su quel secolo a cui siamo ancora così
attaccati. Le trascriviamo senza correggere nulla col senno di poi, anche se il
raro lettore forse si stupirà di toni e riferimenti eccentrici rispetto a
quelli che si trovano abitualmente su questo «Almanacco».
REDENZIONE
LIBERTY - Nei contorni sfumati di un passaggio d’epoca, all’alba del XX secolo
e nel suo avvento segreto, si sviluppò una strana attesa di una prossima
redenzione che si accompagnò ai tumulti socio-politico-militari. Tikkun è il termine cabalistico
variamente tradotto con redenzione, appunto, restituzione, riparazione,
riforma, ristabilimento dell’armonia perduta. Quest’ultimo intento farà da
sottofondo al volontariato guerriero di molti giovani squisiti nel 1914 (si
veda per esempio quanto scriveva Franz Marc intorno alla necessità del
sacrificio per ricomporre l’Europa). Fino ad allora il termine ‘redenzione’
aveva designato in Occidente, fuori dal campo letterario, soltanto l’impresa
divino-umana di Gesù Cristo. Finì nei libri dei marxisti per indicare
l’indicibile dell’impresa esclusivamente umana. Un’altra variante, del resto,
«Regno di Dio», passò via Hegel alle utopie politiche. La vibrazione spirituale
che muoveva si materializzò nelle forme sfatte, monumentali e livide dell’Art
Nouveau. L’immagine della Grande Madre –
sfuggita dalle bizzarre ricerche di Bachofen e coniugata con le rivolte
di donne come con le paure di Weininger – diventa un altro mito lunare che
consolerà i moribondi della Grande Guerra, gli artisti tedeschi, i più puri
giovani mediterranei. Redenzione femminile dall’oppressione paterna, dalla
schiavitù prussiana, dalla famiglia borghese. Le teorie freudiane ne faranno
una faccenda ebraica di padri usciti dal ghetto e diventati troppo rigidi per
avere introiettato la Kultur germanica,
eccesso di zelo degli emancipati. In Die
Schlafwandler (I sonnambuli) Broch delineò questi
passaggi, in Der Tod des Vergil
(Morte di Virgilio) diverranno il tema di un infinito
poema sinfonico, che prende la forma di romanzo, svolto in chiave dolente.
Kafka fu il profeta: la fine del mondo dei padri stava arrivando. L’universo
prussiano della precisione era in panne. Da quei meccanismi inceppati verranno
fuori immagini mostruose.
C’era
chi al prussianesimo contrapponeva la dolcezza cattolica dell’Impero asburgico.
Dopo il grande fratricidio europeo, nel 1918 già si rimpiangeva l’autorità
femminile di Vienna. Un maestro dell’avanguardia come Schönberg – finito
esiliato in California – confidava a un Brecht incontrato al supermercato la
sua speranza di una restaurazione dell’Impero. L’altro profugo, con i suoi
slogan lirici, non lo capiva. Ma ancora nei Cinquanta Broch avrebbe voluto
ricostituire lo Stato asburgico sulle macerie dell’Europa sconfitta.
La
cultura occidentale – dopo le singole e potenti fiammate cattoliche dei primi
decenni del XX (Péguy e Chesterton per dire dei più popolari) – abbandonerà le
chiese cristiane e si accosterà sempre più, in modo esplicito, alla gnosi.
D’altronde, con l’irruenza del soggettivismo che conquista l’epoca moderna si
finisce tutti gnostici, si fa della gnosi senza saperlo.
Con la
complicità delle filosofie e delle religioni orientali, importate come antidoto
all’industrialismo, una utopia
ricorrente fu quella della «Terra che torna amica». I maestri esoterici si guardavano
bene dai corrivi esotismi: «il pericolo che minaccia il mondo è l’induismo… C’è
oggi una specie di acqua di rigovernatura religiosa, mista di ingredienti
cristiani e indiani», sosteneva per esempio Stefan George in un colloquio.
Un
opuscolo come Die verfluchte Kultur (La civiltà maledetta) – invettiva di
Theodor Lessing che si accanisce contro la civiltà europea, colpevole di
distruggere la natura, l’ambiente umano, per avidità di progresso, per fede cieca
nel tempo lineare dello sviluppo – è un esempio della nuova religione
apocalittica nell’Occidente anni Venti, carte di un duello con la tecnica nella
«Germania degli ingegneri», dando il la
a tanta filosofia teutonica anche assai distante dagli auspici dello scrittore
ebreo. Scriveva Lessing: «Da quattrocento anni il cosiddetto uomo caucasico è
in procinto di assoggettare la terra […]. Da molto tempo è stata spazzata via e
fatta scomparire l’intera fauna europea. […] Oltre a questo contro gli animali
quale altro inaudito delitto contro il prato e il bosco […]. La Società per azioni di
Copenhagen per l’esercizio economico della pesca alla balena macellò
nell’ultimo anno 300.000 balene […]. Si uccidono ogni anno milioni di foche…».
Nulla di nuovo sotto il sole di questo secolo. Alcune di tali litanie
diventeranno più tardi discorsi ‘politici’.
Ultimi
giorni dell’umanità: è stata questa la sensazione ricorrente per buona parte
del secolo. Una esperienza terribile quanto esclusiva, almeno dopo il
millenarismo medioevale, dove hanno sguazzato le culture estreme e le
sottoculture più popolari. E intanto, linea tremolante all’orizzonte, la
riconciliazione annunciata, la «Terra che torna amica», che si apre mollemente:
nasce da qui quella voluttà funerea di sepoltura accogliente che si accompagna
ai desideri liberty di liberazione.
Regno
delle Madri spostato da Vienna a Mosca, dalla Dublino joyciana alla Oxford
esoterica degli happy few. A
Gerusalemme invece il sionismo strappa i legami materni che resero pavidi i
figli del ghetto nella diaspora.
SOGNI
RICONGIUNTI - «Per ‘rinnovamento’ non intendo in alcun modo un cambiamento
graduale, la somma totale di piccole modificazioni: intendo qualcosa di
improvviso e di enorme, qualcosa che non sarebbe in alcun modo assimilabile a
una progressione, ma piuttosto a una trasformazione, a una metamorfosi» (Martin
Buber). «Senza la tentazione di ‘fare violenza al regno dei cieli’ il futuro
non è affatto un futuro ma solo un passato trascinato per una lunghezza
infinita e proiettato in avanti. Infatti
senza questa anticipazione l’istante non è eterno, bensì qualcosa che si
trascina perennemente oltre sulla lunga strada maestra del tempo» (Franz
Rosenzweig). E, con minimalismo, Lukács nella Teoria del romanzo cerca di redimere almeno la letteratura:
«L’ironia dello scrittore è la mistica negativa delle epoche senza Dio». C’è
una idea apprezzabile di ‘novità’, passiva e poco enfatica, che si ritrova in Kokoschka: «La maggior
parte di coloro che venivano per farsi un ritratto erano ebrei. Si sentivano
meno sicuri che il resto dell’establishment viennese e quindi erano più
disponibili alla novità e più sensibili alle tensioni e alle pressioni che
accompagnavano il decadimento del vecchio ordine…». Insicurezza, paura. Il
trapasso era segnato dalla catastrofe. Un cambiamento ancor più del solito
sotto l’egida della morte. Impensabile all’epoca dei Lumi e anche nel gaudente
Ottocento. La redenzione liberty che sostituirà la fede religiosa richiede non
un semplice atto di assenso, esige il sacrificio della vita, l’etica del
sacrificio. La Rivoluzione
mitica getta milioni di cadaveri in pasto alla Storia. Una rivoluzione che ha i
colori del socialismo, anche nelle sue vesti nazionaliste, di «destra» estrema.
«Destra» e «sinistra» rivaleggiavano in fatto di anticapitalismo, di
rappresentanza dei salariati. I teorici di ambo le parti erano fieri di
ripetere che nel loro schieramento si trovava il migliore socialismo. Oggi
simili miti sono usciti di scena. Mancano parole e pensieri per definire l’onnipotenza
del mercato mentre le ricette socialiste, dopo la disintegrazione del modello
bolscevico, appaiono fuori corso.
Quanta impazienza rivoluzionaria nella destra
europea, quanta accondiscendenza letteraria d’ogni parte verso questa
impazienza simbolo di giovinezza, contrapposta al calcolo degli odiati
politici, quanto estatica ammirazione, sull’altro fronte, per la forza pagana
dei bolscevichi capace anche di strappare il vecchio mondo dalle sue radici
religiose. I rivoluzionari d’ogni colore puntavano al rischio supremo. Una
guerra da combattere in città, distruggendone il cuore antico, le sue abitudini
rilassate, una bella guerra dell’arte, del gusto, una crociata contro le
vecchie delizie della vita, le dimore tranquille, le prose lente, i gesti
solenni.
I
conservatori erano i nemici, non come figura sociale ma come atteggiamento
dello spirito. Irritava quel loro vivere nel presente, senza proiezioni nel
futuro. Bottegai grandi e piccoli, come si diceva con fastidio per il
commercio, per lo scambio (Hermes, colui che separa per ricongiungere
diversamente, rottura della comunità, conflitto, spada mercuriale, spirito
penetrante; questa sequenza nutrì pure l’avversione per gli ebrei – l’alato ai
piedi sembrava la più semitica delle divinità olimpiche), salvo poi arruolare
sotto le proprie bandiere i più incarogniti commercianti. Secondo lo schema, i
conservatori potevano sopravvivere soltanto nella prosaica e perfida
Inghilterra (ignorando il duro spirito aristocratico che animava e lustrava
l’imperialismo dei suoi mercanti, quello che conquistò il globo terrestre). Così la guerra culturale per il trionfo della
tradizione, in nome della fedeltà alle radici e al sangue, passava per una
rivoluzione come mai se ne videro. Céline non profetizzava altro che stragi
stragi stragi.
Dopo la Seconda guerra mondiale,
il sentimento liberty parve resistere soltanto tra i letterati: si appoggiò al
pauperismo delle ultime plebi e in Italia si contrappose per lo più alla
religione ufficiale che allora si rinvigoriva nelle élites uscite sbandate dalla sconfitta. Trascinò con sé le utopie
delle origini, il naturalismo, le affezioni ‘verdi’, la rivolta delle donne, il
gusto femminile, il cristianesimo eretico, il pathos dell’omoios in tutte le sue declinazioni, a cominciare dall’omofilia. L’estetismo
fu sempre il suo sigillo. Ci volle un sentimento struggente per resistere alle
suggestioni del presente, alle comodità dell’epoca con cui si tentava di
dimenticare il sangue versato, che offriva una quantità sconvolgente di merci,
che coniava il termine ‘benessere’ per quasi tutti in Europa. Novelli monaci di
fronte alle sataniche tentazioni del più rapido arricchimento della storia,
alla sospetta epifania della opulenza. La redenzione liberty, benché logora,
restava sullo sfondo con il suo secolare tono ascetico. Addestrava ancora a
fissare il lato negativo del mondo.
La Rivoluzione si fece bella con il gesto mitico, «il cambiamento in sé
diventando quel che conta» (Valéry). Per chi è immerso nell’inferno qualsiasi
segnale di metamorfosi sarà rincuorante, ma una simile politica di disperazione
conduce i suoi militanti a misurarsi ripetutamente con la roulette russa. E a
ogni tentativo ci si aspetta un proiettile in testa.
La
sensazione che i giorni apocalittici siano imminenti si trascina per un secolo.
Come capitò ai primi cristiani che attesero di giorno in giorno Gesù vindice,
mentre si consumavano generazioni e generazioni. La luce opaca trapassava nel
buio. Né il vociare dei veggenti rischiarava il futuro prossimo. Anni dopo anni
si ridusse a «doxa sinistrorsa», come la definì Foucault, maestro della piccola
scolastica parigina.
Stili
di vita e di lotta: la trasgressione come gradino nella scala dell’ascesi.
Pierre Klossowski scruta con i suoi occhi luciferini la metafisica della
sessualità: «non si può essere trasgressivi nell’atto carnale se questo non è
vissuto come atto spirituale». Per secoli la Chiesa di Roma si opponeva a un tale uso
disinvolto dei doni dello Spirito Santo finché, negli ultimi tempi, per semplificazione
dei teologi contemporanei, il Paraclito è scambiato con lo Zeitgeist.
La Rivoluzione si rivela ormai come una fiammata, una giornata frenetica sempre
sconfitta il giorno dopo dalle abitudini prosaiche. In una pagina Heine seppe
tirare fuori tutta la mestizia di questa conclusione: le armate napoleoniche
avevano interrotto per un giorno l’eterna calma della Germania di allora, ma
all’indomani «si tornava a scuola». Contro la Rivoluzione francese e
le sue tante appendici si muoveva invece un rivolgimento sotterraneo e disteso
nel tempo lungo, formato di momenti impercettibili, senza squilli di tromba né
tribunali né vendette né giorni di gloria. Non confondeva, quel procedere dei
conservatori, l’Apocalisse con la politica, la fine del mondo con la propria
depressione psichica. Si perdeva il passaggio cruciale, rischiando di affogare
nella monotonia apparente. Ci si affidava però allo sguardo che sapeva cogliere
crepe sottilissime quanto vertiginose. L’autentico novum non era il negativo del presente. Al termine delle
innumerevoli digressioni dell’odissea politica anche Itaca appare
definitivamente cambiata. Nella letteratura fiabesca la formula «e vissero
felici e contenti» doveva tentare di esorcizzare il lavorio del tempo che qualsiasi
racconto avrebbe reso evidente.
L’artificio
a cui ricorre la
Rivoluzione – secondo la riflessione di Burke –, alla lunga
non regge più: la natura, questa potenza reazionaria, si affaccia in aria di
sfida.
La
tabula rasa apocalittica appare nel caso politico un trucco retorico.
Tocqueville riteneva che al successo rivoluzionario avessero contribuito «dieci
generazioni», ma allora gloria al lavoro secolare e spesso anonimo delle dieci
generazioni piuttosto che alla concitata giornata del 14 luglio.
Il suo
carattere di unicità che la consacra giorno festivo, giubilare, tempo
carismatico, impedisce per ciò stesso di parlare di «rivoluzione permanente»,
impossibile incatenare un evento speciale al tempo ordinario. Ma, per un
secolo, permanente fu l’attesa.
Il
malcontento cosmico oggi sembra rientrato (o degenerato in piccole voglie).
Resta Armageddon, la minaccia nucleare (che corrisponde come potenza al raduno
di tutti gli eserciti profetizzato da Giovanni) ma non è più immagine né letteratura
e, silenziosa, clandestina, non riesce più a incutere terrore, fa parte degli
album nostalgici dei Cinquanta, con i manifestanti anglosassoni in fila
educata, buffi con i loro cartelloni contro la
Bomba H.
UNA
SPECIE DI NEMESI - Gli eroi dell’ultima guerra schierati con la parte
vincitrice sono stati visitati in vecchiaia dalle Gorgoni della Storia che, con
le sue riscritture, vuole riordinare le passioni degli umani. Nessuno, neanche
il tempo, toglie il merito a coloro che oltre a battersi con valore salvarono
donne, bambini e vecchi dagli oltraggi, ma pare che l’epos risuoni meno
trionfale. A furia di raccogliere testimonianze, l’indicibile viene detto, e perciò banalizzato. Negli scaffali
finiscono anche i libri dell’altra parte
e addirittura in Israele si pubblica Mein
Kampf, reso innocuo dalla diversità del mondo attuale. Accadde lo stesso,
negli anni Sessanta, ai vecchi che da giovani erano stati in trincea. Talvolta
venivano irrisi per avere partecipato alla Grande Guerra, criticati come
patriottardi, talvolta magari sbeffeggiati semplicemente perché inattuali, ma
più in generale era il nemico austriaco che aveva perduto ogni credibilità in
fatto di ferocia. Nel migliore dei casi, c’era imbarazzo per l’ossessivo
insistere dei vecchi su una questione che, per quanto tragica, appariva
superata per sempre. I nipotini, invaghiti di Klimt, non davano peso al più
grande duello con la morte della storia moderna, duello affrontato dai loro
nonni screditati.
SCHIAVI
- «Nel capitalismo? Tutto è schiavitù», confidò Kafka in un colloquio. Ma nelle
pagine-chiave del Capitale Marx: «… i
vecchi organismi sociali [quelli pre-capitalistici] sono, sotto il rapporto di
produzione, infinitamente più semplici e più intellegibili che la società
borghese, ma essi hanno per base l’immaturità dell’uomo individuale, di cui la
storia non ha, per così dire, ancora
tagliato il cordone ombelicale che lo unisce alla comunità naturale di una
tribù primitiva, o a condizioni di dispotismo e di schiavitù». In ogni caso,
osservazioni di altre epoche, come quelle che mettevano in luce la brutalità
demoniaca dell’America nella storia di Rossmann. Ormai il capitalismo sembra
diventato una potenza naturale. E in molti, soprattutto tra i marxisti di un
tempo, sembrano rimpiangere i rapporti di produzione «più semplici e più
intellegibili».
BILANCI
- Dice l’uomo della strada o la donna del bus: «Questo secolo ha avuto tante
cose brutte ma anche tante belle scoperte…», mai collegando le une alle altre,
mai subordinando le prime alle seconde in un rapporto di causa ed effetto.
NOVECENTO
- Anche il migliore illuminismo del secolo fu agitato da maghi neri,
febbricitanti, stregati dal mistero, beffardi: Kraus, Valéry, Jung…
ARTE
FUNESTA – Ancora Klossowski, in Un si
funeste désir, libro volto ad arruolare Sade tra gli arcangeli velati,
parla dell’abbandono da parte dell’Occidente del «regno del Logos» e della
conseguente «rottura dell’equilibrio a spese della vita e della fecondità, a
favore delle potenze della morte rappresentate dall’arte e da una dissociazione
tra sentimento e linguaggio». Le «potenze della morte» celebrate nel culto
estetico segnano in modo speciale questo secolo. Da Mallarmé in poi l’arte
diventa liturgia funebre per essiccare la vita in un rito primitivo,
cannibalico.
LA PAURA - «Le nostre
opinioni su quanto ci circonda, ma anche su noi stessi, cambiano tutti i
giorni. Viviamo in un periodo di transizione. Forse, se noi non affrontiamo
meglio di quanto abbiamo fatto fino a ora i nostri compiti più profondi, questo
periodo durerà fino alla fine del mondo. Eppure, quando si sta nello stanzino
buio, non bisogna, come i bambini, mettersi a cantare per la paura. Fingere di
sapere come dobbiamo comportarsi quaggiù è appunto cantare per la paura: puoi
sgolarti da far cadere il soffitto, ma è paura e nient’altro! D’altronde io
sono persuaso che stiamo correndo al galoppo» (Robert Musil). Affinità con
quanto andava dicendo con il suo tono professorale il fondatore della
psicoanalisi: «Sappiamo bene quanta poca luce la scienza abbia potuto
proiettare sin qui sull’enigma di questo mondo, ma tutto il chiasso dei
filosofi non può farci nulla […]. Quando il viandante canta nell’oscurità
smentisce la sua paura ma non vede perciò più chiaro». Jung, in una lettera del
1945 al pastore Buri: «la ringrazio di cuore per avermi inviato il Suo scritto
sul superamento della paura mediante la religione. […] La creatura che perde il
sentimento della paura è destinata alla morte. I primitivi che sono ‘curati’
dai missionari per la loro paura dei demoni, naturale e giustificata,
degenerano. In Africa ne ho visti parecchi, checché ne dicano i missionari. Chi
ha paura ha sempre i suoi motivi. Ci sono non pochi pazienti in cui bisogna
infondere la paura che, per un intorpidimento dell’istinto, li ha abbandonati. Una
persona che non ha più paura si trova sull’orlo del precipizio. Si possono
curare le persone senza causare dei danni solo quando si trovano in uno stato
patologico di paura eccessiva. In secondo luogo, per quanto riguarda le
religioni, in parte esse liberano dalla paura, in parte la generano, come fa
persino il cristianesimo, ed è giusto che sia così, perché alcuni uomini in
questo mondo hanno troppo, e altri invece troppo poco. Liberarsi semplicemente
dalla paura è una vera e propria assurdità. […] Come terapeuta non tento mai di
liberare i pazienti dalla paura. Al contrario, li conduco sino al motivo
profondo che spiega come essa sia giustificata. […] Il far derivare la paura
dalla rimozione è una costruzione nevrotica, apotropaica, inventata a beneficio
di tutti i vili: è una mitologia pseudoscientifica, in quanto considera
inadeguato un istinto biologico fondamentale…».
Canetti
aveva visto giusto quando parlava di Céline come di un impaurito: quei racconti
tremebondi, il balbettio che produce puntini e puntini di sospensione, la
processione degli agonizzanti che si snoda nei passages della Parigi ormai solo capoluogo del secolo, secolo della
paura che non ha più un nome, dei pavidi privi di protezione, delle audacie di
massa effimere che poi suscitano tanti rimorsi…
LA SALUTE
DI GOETHE - Come Montaigne,
per Sergio Solmi, incarna la nostra nostalgia della salute (forse solo dalle
paludi del decadentismo, nel febbrile stato di disordine, si può invocare la salute), così Goethe,
estremo classico nel moderno, attento curatore del proprio ruolo di magister
vitae, si presta in maniera altrettanto superba all’ufficio asclepieo. Paraclito,
consola i moderni, fa il demonologo delle nostre angosce, a cominciare da
quelle della vecchiaia, che lenisce con galanteria settecentesca: «’Lustrum’ è
una parola straniera! / Ma se diciamo: abbiamo portato / otto o nove ‘lustri’/
e goduto e vissuto / e qualche volta amato / chi ansioso cerca l’uguale / sarà oggi
dei nostri». Goethe eccelle tra i poeti, che in genere distendono il velo nero
del rimpianto, ed elogia invece la longevità, amerebbe raggiungere il secolo,
trova che «a ottant’anni possiede vantaggi che non vorrebbe cambiare con quelli
dell’età meno avanzata» (ricorda in un saggio Curtius), si spinge ad abbracciare
i millenni, ragiona per secoli piuttosto che
per decenni. Alla sua scuola Ernst Jünger sembra averlo superato ed
eccede – come tutti gli epiloghi anche se di rango –, spingendosi fino alle ère
geologiche, negli scenari dove la sua figura si impicciolisce al punto che
perde ogni dolore umano e ogni morale (affine come funzione terapeutica a
quella del dottor Benn), ma poi nei bilanci del novantesimo compleanno (nell’anno 1985) sembra ossessionato
dalla durata della sua fama: si conforta
con la gloria postuma che gli deriva
dall’avere dato il proprio nome a un insetto che resisterà dunque «tanto quanto
il sistema di Linneo», più a lungo della celebrità letteraria; si preoccupa
della possibile fine di Omero: pochi millenni: niente. E se Omero scompare dalla
memoria umana, figuriamoci Jünger. Una disperata fiducia nella sopravvivenza
affidata a un’opera, a un nome. Materialismo magico per consolare dello sbiadirsi
della gloria. Altri elementi terapeutici: le soffitte «dove il tempo passa più
inavvertito», gli orologi a sabbia… Ma farmaci furono anche il distacco dal
pathos storico ostentato nei Diari dell’occupazione di Parigi. Gli esercizi di
stile che permettono di non soccombere alla febbre devastante: l’eleganza è
tonificante e abbassa la temperatura. La salute di Jünger: chi scrive in modo
davvero algido raggiunge i cento anni e li oltrepassa. A Venezia qualcuno vuole
rovinargli la festa forse infastidito dalla sua condanna di tutti i massacri. Ancora nel 1979 un
buon germanista fiorentino, pur diretto allievo di Heidegger, si indignava per
l’accostamento jüngeriano della macelleria tedesca con quella del «dispotismo
asiatico» che il professore chiosava con preoccupazione: «si tratta – diceva
con linguaggio di quei tempi – del campo socialista». Nella bizzarra festa in
Laguna un vecchio senza tempo sbucato dal tunnel degli orrori del secolo
potrebbe essere attaccato dagli appassionati del «dispotismo asiatico», tanto
pateticamente innocenti da non possedere neanche un briciolo di quella crudeltà
che pure li esalta. Un altro professore,
un saggio antichista di Bari, pretende da Jünger una pubblica ammissione delle
stragi germaniche a danni del popolo ebraico. Ma nei Diari si trovano numerose
testimonianze di prima mano sull’argomento, e tutte fornite spontaneamente,
senza alcun ricatto od obbligo di legge, perché l’autore si voleva fedele alle
regole militari cavalleresche che quelle stragi violavano. I suoi libri così
sono la migliore smentita a chi mette in dubbio i tentativi di sterminio. Vi si
racconta che in alcuni villaggi polacchi, perfino dei tedeschi, finiti nei
ghetti ad acquistare a buon prezzo le case degli ebrei ma sbagliando forse i
tempi, furono scambiati per discendenti di Mosè e avviati ai campi delle
carneficine. Alle loro veementi e poi tragiche proteste i militari avevano
risposto: «Da queste parti tutti negano di essere ebrei». Quanto a un non
lontano incontro pubblico tenutosi a Roma e a cui allude il professore, chi
ebbe la ventura di esserne testimone ricorda bene le parole del letterato
tedesco: a Parigi venne a sapere della eliminazione degli ebrei in corso «nelle
zone orientali»; tra gli altri, disse con aria grave, suo figlio – l’amato
figlio perso sulle scogliere di marmo italiane, in una impresa punitiva con cui
pagò una eroica denuncia – gli aveva
scritto in proposito da quei luoghi infernali…
LA PAURA/2 - «Con le altre paure terrestri getteremo lungi da noi
anche la paura del tempo: il presente diventa per noi sempre più misterioso e
chiaro invece il presagio di una presenza superiore»: Hofmannsthal riassume e
intreccia le questioni della paura, del tempo mitico e della redenzione.
L’AVVENIRE
SCANDINAVO - Se da ragazzo si obiettava che nel Nord d’Europa c’erano dei
sistemi politici che evitavano il sangue e le cattive maniere, trattando in fin
dei conti abbastanza bene i cittadini, in famiglia ribattevano con il luogo
comune conservatore: quanti suicidi lassù! Un sistema che produce tanti morti
di noia, di vuoto, di routine, di piattezza borghese (che scandalizzava
Kierkegaard), di socialismo pantofolaio, di materialismo soffocante che fa
arricchire gli psicoanalisti… I morti di eroina, anche nelle stamberghe di
Palermo, erano di là da venire. Si replicava in quei lontanissimi tempi: alla
luce della ragione sobria (non dei Lumi, generica clarté) si trovava non tanto
un paradiso scandinavo quanto un giardino d’inverno, un modello da prendere in
considerazione, un posto da preferire agli italici purgatori se non inferni. Poi
le critiche conservatrici alla sicurezza sociale ben si adattarono ai gusti
adolescenziali per il precariato e prepararono il terreno alla feroce irrisione
comunista della socialdemocrazia. Domani, di moderatismo in moderatismo, si
potrebbe arrivare a costruire un adattamento mediterraneo di quella gabbia di
sicurezza sociale. Addio ai sogni, coltivati in provincia, di sconvolgere il
mondo con il ‘caso italiano’? Al macero la irriducibilità machiavellica, il
realismo cattolico, la teatralità meridionale, l’ideologia della dolce vita?
PASCAL
PATRONO DEL MODERNISMO - I nani scalzano i giganti: «la nostra vista ha
maggiore estensione [di quella degli antichi che] non conobbero quanto noi che vediamo più di loro»,
sosteneva Pascal. Il cristianesimo prende definitivamente coscienza della sua
importanza storica, il Nuovo Testamento si contrappone all’Antico, gli
evangelisti smentiscono Bernardo di Chartres, scendono dalle spalle dei profeti
e camminano sulle proprie gambe. È solo un problema di occhi, dunque, non di
punto di vista da cui si guarda. Il novum
è davvero il cristianesimo? L’Eternità si incarna così nel Moderno, nelle mode,
nella effimera spazzatura dei grandi eventi. Talvolta lo stile arcaicizzante è soltanto
una forma di pudore.
DRAPPELLI
SULLA SPIAGGIA - La concezione militare dell’«avanguardia», rilanciata al
cabaret svizzero dei dadaisti, fatta propria dalla strategia bolscevica in
parallelo con la guerra estetica degli artisti del Novecento, si perpetua nelle
comitive elette che frequentano le migliori stazioni balneari del Mediterraneo.
La coscienza di anticipare i tempi, di avere ragione contro le smentite del
presente, porta questi militanti sui generis a prediligere un motto: «Il tempo
sarà dalla nostra parte» (versione laica di quella divisa che si fregia di Dio
al posto del tempo). Certezza di incorporare, benché occultato, un qualcosa di
sacro, forse l’anima segreta della storia che un giorno o l’altro verrà fuori e
stupirà gli ignavi. La religione del futuro (niente a che vedere con il
Futurismo) che diventa l’oppio del presente. L’illusione che le chiacchiere
sulla spiaggia spostino le pesanti faccende del mondo.
BIG
BANG - Le origini povere, sembra, del pomposo ateismo moderno: stadio supremo
dell’Illuminismo o scarto delle procedure tecnologiche? Comunque un simile
affrancamento dalle potenze celesti avviene senza un libro basilare, Marx e
Darwin trattano la faccenda in modo marginale. Neppure una data quindi che
segni la presunta emancipazione del genere umano, il trionfo dell’opera di
Prometeo. Date, libri e pensatori espliciti ce ne sono a schiera per l’avvento
del teismo mentre per il più impegnativo ateismo ci si deve accontentare di
personaggi minori, di allusioni, di frammenti da ricostruire come nelle
rivelazioni religiose. L’ateismo occidentale (lasciamo da parte quello
orientale, imposto con la forza dallo Stato e precipitato poi con esso) sembra
allora essersi affermato come un movimento di opinione, una fede generica che
in pochi saprebbero argomentare dignitosamente, una pigrizia mentale, forse
conseguenza della faciloneria morale in voga. Un tedesco ha scritto che la
strada che porta a Dio nei nostri tempi si è persa «in una smisurata
lontananza». Una specie di sentiero del bosco, tracce difficili, impenetrabili
alla storia. E già questa rappresentazione mette in crisi il cattolicesimo che
si vuole dentro la storia degli uomini.
(1. - continua)
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