sabato 13 marzo 2010

Anacronismi

~ SI PARLA TANTO SUI GIORNALI DELLA MOSTRA RAVENNATE DEI PRERAFFAELLITI MA NON SI FA PAROLA DEI NAZARENI, I LORO ANTESIGNANI GERMANICI CHE RILANCIARONO IL CULTO DEL REVIVAL. ~ PICCOLA RIFLESSIONE IN MARGINE SUL GUSTO RETROGRADO, COSÌ SIMMETRICO A QUELLO AVANGUARDISTICO ~

«Non scherniamo anche noi assieme a Cam
la nostra propria natura e la nudità del nostro padre
nei barbari, nei selvaggi, ecc.?»
J. G. Hamann, Meditazioni sul Trattato di Newton

Nei numerosi interventi giornalistici in occasione della mostra dei Preraffaelliti appena inaugurata a Ravenna, compresi i lunghi inserti che si usano per promuovere il pacchetto turistico, si citano a piene mani Garibaldi e Ruskin, mazziniani in esilio e regina Vittoria, ma non si fa parola in genere dei Nazareni. L’austro-tedesca confraternita dei Lukasbrüder precedette di circa un trentennio la confraternita di Rossetti e, più direttamente legata al romanticismo, riscoprì il medioevo pittorico, rifiutò la plasticità rinascimentale, teorizzò il ritorno all’affresco, la piattezza anti-illusionistica, la pittura religiosa, il culto di Dante, l’Italia dei sogni. Come si vede, tutti i motivi dei Preraffaelliti furono agitati dai Nazareni. A cominciare dal rapporto complicato con Raffaello. Ma soprattutto i britannici devono alla gilda germanica il gusto retrogrado (nel senso etimologico: che si volge all’indietro).

L’«esule estetico», in volontario esilio dalla sua epoca, è alla ricerca di altre età, altri stili. Chi, come Hölderlin, si rivolse ai greci e chi ai Quattrocentisti italiani.

Uno storico dell’arte interessato al fenomeno della fuga dal classico, dell’arretramento infinito verso l’imperfezione arcaica, Lionello Venturi, decretò: «La scoperta dei primitivi fu opera internazionale compiuta in Italia»[1]. La pratica del ritorno ai primitivi ebbe per teatro Roma. I Nazareni, tra gli altri, ne furono gli artefici. Tra le cause: erudizione, collezionismo, spirito archeologico, culto del revival dopo che la storia aveva chiuso un ciclo, distrutto il passato (come fosse una lunga e barbarica preistoria), indicato un futuro che, appena realizzato, già deludeva. Allora, appunto, ritorno a

In principio, alla fonte del primitivismo, fu Giovan Battista Vico. Lo sostiene un filologo come Erich Auerbach, e certo gli «stupidi, insensati e orribili bestioni»[2], via via selvaggi quanto poetici, è un attraente manifesto del primitivismo. Ma non era tornato indietro di secoli anche il nostro Rinascimento? E il medioevo forse guardava avanti? Una mostra che si apre in questi giorni ai Musei Capitolini, dedicata alla nascita del linguaggio artistico nella capitale mediterranea tra il III e il I secolo a.C., mette in evidenza la predilezione per l’arcaico che i conquistatori dei greci ostentano dopo le mode ellenistiche.

Rincorsa al primitivo, all’arcaico, che non ha fine. Fidia aveva posto «l’intelligenza divina in una forma umana», l’artista cristiano colloca «l’intelligenza divina in una forma divina», e siccome quella forma è «emanazione di Dio», l’opera d’arte «è santa, non più condannabile». Scompare dunque il verismo, il naturalismo, la ricerca prospettica, i concetti classici di perfezione: «la presenza di Dio permetteva a ogni artista di raggiungere d’un subito, con uno slancio mistico, la perfezione»[3].

Alberto Savinio, che visse in un’epoca in cui il gusto dei primitivi era moda snob, annotò con lucidità che «la stilizzazione del gusto è segno di gusto incerto. La stilizzazione del gusto ha marciato di concerto con la stilizzazione delle arti»[4]. La bramosia del primitivo scoccava quando le incertezze paralizzavano l’artista e l’arte. Ricercare il ‘primitivo’ significava anche avversare l’arte ‘storicamente realizzata’, praticata per secoli dai massimi artisti, definita nella civiltà occidentale, per sondare a grande profondità un qualcosa di incerto ma sicuramente diverso dall’arte quale è stata, una confusa miscela col religioso, con l’animistico. Fino al trasformarsi, nelle avanguardie, in vera avversione nei confronti dell’arte, sua negazione.

Winckelmann aveva prefigurato anche i preraffaellismi, e gridava allo scandalo per la corruzione che segue Fidia come Raffaello. Ispirarsi a coloro che vissero «prima di Raffaello», prima della Grande Corruzione, prima della Grande Empietà (Fichte). Solo con il Raffaello pittore di Madonne anche il cuore protestante si sentiva commosso e, almeno sulla soglia del XIX secolo, non temeva quell’idolatria della madre di Dio che sospettava sempre accompagnare le devozioni cattoliche. Del resto, i teologi cristiano-ortodossi russi, ancor più ostili alle immagini cattoliche, si erano lasciati soggiogare dalla raffaellesca Madonna Sistina, ma gridavano contro i quadri del Rinascimento italiano che, con l’introduzione della prospettiva, avevano aperto le porte a un’arte illusionistica, dell’inganno. Uno di loro, straordinaria figura di scienziato oltre che pope, teologo, filosofo e studioso d’arte, Pavel Alexandrovic Florenskij, insegna, ancora negli anni del Novecento, che «la scenografia vuole, per quanto possibile, sostituire la realtà con la sua apparenza[…], è inganno, anche se seducente; mentre l’arte pura è, o per lo meno vuole essere, innanzitutto verità della vita, che non sostituisce la vita, ma si limita a indicarla simbolicamente nella sua più profonda realtà»[5]. Dunque, i quadri che contano, secondo il teologo-estetologo, sono quelli che «indicano simbolicamente» gli aspetti più profondi della realtà, quelle icone che la millenaria tradizione bizantina mette al centro della sua teologia. Una simile concezione non può non avversare l’arte italiana del Rinascimento che ha spezzato la tradizione allegorica medievale, riportando il quadro a una geometria illusionistica. C’è però una illustre eccezione in questo rogo ‘savonaroliano’ dei nostri grandi: appunto, Raffaello. Infatti se «la pittura religiosa dell’Occidente, incominciata col Rinascimento, fu una radicale falsità», anche laggiù c’era chi si ricordava di riconoscere come «di origine celeste e non terrena ciò che è veramente degno di devozione e di venerazione. Un esempio capitale è Raffaello»[6]. Nello stesso saggio, Florenskij cita una racconto che Raffaello avrebbe fatto a Bramante su una sua visione giovanile della Madonna e su tale racconto avvalora la leggenda di un Raffaello pio e quasi santo. Sennonché la testimonianza di Bramante è falsa[7], apocrifo che fa nascere una consonanza tra russi e tedeschi.

Parlando di La visione di Ezechiele, un’opera di Raffaello conservata alla Galleria Palatina di Firenze, padre Florenskij scriveva: «In questo dipinto, come in molti altri di Raffaello, c’è l’equilibrio di due princìpi, quello prospettico e quello non prospettico, corrispondente alla coesistenza pacifica di due mondi, di due spazi. Questo non sbalordisce, commuove, come se il velo di un altro mondo si aprisse silenziosamente davanti a noi, e ai nostri occhi si presentasse non una scena, non una illusione di questo mondo, ma un’altra realtà autentica, anche se non irrompe nella nostra. Un allusione a questa sua spazialità Raffaello la fa nella Madonna Sistina, per mezzo di alcuni tendaggi rialzati»[8]. Le tende verdi[9] diventano le cortine della liturgia bizantina, l’iconostasi che nasconde il rito segreto, i sacri misteri, che si svelano per alcuni istanti, epifania del divino circonfusa di incenso.

Furono gli inglesi Thomas Patch (cui risale, nel 1770, la prima importante pubblicazione di capolavori del Tre-Quattrocento, 26 incisioni riproducenti opere di Giotto, Masaccio e Filippino Lippi), Hugford e Ottley a diffondere per l’Europa le immagini dei pittori italiani dimenticati, dei ‘minori’ da rivalutare. Alcuni di loro, come Ottley, veneravano Dante e idolatravano Giotto. Poi vennero i fratelli Riepenhausen che fecero conoscere Beato Angelico e altri preraffaelliti ai tedeschi. Overbeck ne fu folgorato a sedici anni. L’aver visto la pittura italiana del Quattrocento sub specie di incisione ha probabilmente influito sulla linearità dei Nazareni, ma c’è anche una ragione morale: nella polarità lineare/pittoresco, «le dessin est la probité de l’art» sosteneva Ingres.

Francesco Milizia arriverà a dire che «Raffaello sorride, come Newton ai filosofi suoi predessori»[10]. C’è la superbia dei moderni convinti che lo scienziato inglese abbia cancellato la faccia religiosa del mondo, dimenticando le sue devozioni all’Apocalisse che attende con fede e scienza profondissime. Comunque i «newtoniani» credono fermamente nel ‘non ritorno’ (altra faccia del progresso inarrestabile) e subiranno la demolizione delle loro astratte credenze a opera dei romantici: nulla è definitivo, dopo Kant si riaccendono le religioni più dogmatiche.

Astratto Winckelmann, che amava lo stile dell’arte classica prima ancora delle singole opere, astratti i suoi nipotini ribelli, quei Lukasbrüder (Confratelli di San Luca, secondo il nome ufficiale che si danno i Nazareni) amanti dell’arte religiosa pre-raffaellita e raffaellesca.

Prima della comparsa del neoclassicismo, erano stati gli italiani, e si può facilmente intuirne il motivo, ad apprezzare l’imperfezione ‘primitiva’. C’era per esempio l’interesse (religioso) per le catacombe, l’attenzione seicentesca per i mosaici, diligentemente ricopiati. Inoltre – è ancora Venturi a venirci in aiuto – si ebbe una nobile gara nei comuni della Penisola a chi possedesse le pitture più antiche, cercando di dimostrare l’esistenza di maestri anteriori a Cimabue. Si finì così con il rivalutare stanchi artisti tardo-bizantini. Fu quindi la volta del giovane Goethe che esaltava il Duomo di Strasburgo per rovesciare il disprezzo italiano nei confronti del rigido gotico tedesco.

Nell’Ottocento positivista si ride della credulità dei devoti del misticismo trecentesco: dopo la peste del 1348 ci si voleva stordire a ogni costo, Boccaccio raccontava bene quel clima e prima ancora Dante si indignava per la corruzione del clero, mentre i grandi cronisti dell’epoca narravano di licenziosità, lusso, scherzi, incontinenze, sessualità. Anche di violenza parleranno gli storici, di veleni e pugnali perfino nei conventi, tra gli intimi dei santi. Conoscevano tutto ciò i pii artisti tedeschi? Risponde Venturi: «la pretesa che il pittore mistico sia incensurabile ne’ suoi rapporti sociali confonde la vita del sentimento con la precettistica morale. D’altronde la questione era stata preceduta e risolta dallo Hegel: senza dubbio, nel tempo in cui la fede era piena e intera, l’artista non aveva bisogno d’esser ciò che si chiama comunemente un uomo pio; e raramente, in ogni epoca, gli artisti sono stati gli uomini più pii. Ma bastava che il contenuto della sua opera fosse essenziale per l’artista, costituisse la più intima verità della sua coscienza e gli facesse sentire l’assoluta necessità di rappresentarlo. Perché l’artista produce così come la forza della natura, il suo talento è un talento naturale […]. Qualunque sia stato il numero dei delitti, esso non ci impedirà mai di sentire nel verso di Dante un valore religioso che manca al verso di Ariosto»[11].

Però aggiunge: «Oggi sembra molto strano che si sia potuto supporre che il valore religioso della pittura primitiva dipendesse da un disegno, come se da una deficienza potesse scaturire la più alta delle attività spirituali, come se chiunque, ignaro di disegno, per il fatto stesso ch’egli lo ignora, potesse facilmente raggiungere l’arte di Giotto o dei Lorenzetti. Ma conviene ricordare che nel periodo positivistico la ripugnanza per il valori ideali, il sacro rispetto per la materia assunta a ‘diapason’ della verità, avevano raggiunto una intensità tale che oggi non sappiamo neppure spiegare, quasi vivessimo in un mondo diverso»[12]. L’«oggi» che segue di ottant’anni le parole di Venturi vede quel mondo ideale ancora più remoto, anzi quasi non lo vede più.

Nella religione del Primitivo che si comincia a diffondersi nel tardo Settecento, c’è un santuario: il Camposanto di Pisa. Ludwig Tieck sarà tra coloro che ne istituiscono il culto. Rudolf Borchardt lo userà come uno squisito grimaldello per scardinare la storia dell’arte medievale e far uscire vincitrice la Pisa imperiale e germanica. Buonamico Buffalmacco, Giovanni Pisano, Benozzo Gozzoli («il Raffaello del suo secolo» secondo alcuni) gli autori che scoprono nel cimitero che affianca il foro imperiale pisano. Koch è entusiasta del Trionfo della Morte, così Ingres, William Ottley, John Ruskin, il cardinal Newmann…

Perfino uno dei maggiori cultori del Rinascimento italiano nell’Ottocento-Novecento ammette che, «con la mentalità del moderno dilettante, e col nostro gusto arcaistico, siamo assai mal preparati ad apprezzare […] i capolavori della forma [idest le opere del Rinascimento aureo]». Così Heinrich Wölfflin sul finire del secolo XIX, nella Introduzione del fortunato libro (che ripubblicherà con aggiustamenti e nuove prefazioni fino al 1940) Die klassische Kunst. Eine Einführung in die italienische Renaissance[13]. Aggiungendo: «Godiamo del periodare duro, infantilmente goffo, dello stile spezzettato, di corto respiro, mentre la frase sapientemente architettata e sonante non viene apprezzata e resta incompresa»[14]. Qui si dice con qualche anticipo del sincopato jazzistico, delle scoperte di arti e musiche etniche, delle predilezioni Novecento. Delle voglie del primitivo, dell’interesse ‘nordico’ per il pittoresco. Del resto Wölfflin sembra spiare nell’arte italiana accenni di dissonanze che mal si conciliano con il puro godimento del classico. Le trova in Michelangelo quando preannuncia il barocco: anche il cultore dell’incanto rinascimentale sembra agitato dalla ricerca di una perversa dissoluzione della bella forma, dal sentore di una catastrofe incombente nell’arte. E si interroga su Raffaello, scoprendo un candore colloquiale cui non siamo abituati con il professorale storico dell’arte: «lo spirito di un mordace moderno si trova veramente impreparato dinanzi a opere d’arte come la Scuola di Atene o a figurazioni simili, tanto che l’imbarazzo è naturale. Non può irritarsi se qualcuno, in silenzio, si domanda perché Raffaello non abbia dipinto piuttosto un mercato di fiori a Roma o la serena scena dei contadini che si fanno radere la barba a piazza Montanara la domenica mattina[15]». A noi che non è dato ammirare la scenetta del barbiere all’aperto anche per via della demolizione della piazzetta e dei Borghi nel frattempo avvenuta, viene maggiore irritazione per la tolleranza benevola dello studioso di fronte a una domanda insensata, e teutonica, sui soggetti di Raffaello. Avrebbe dovuto rispondere all’insolente benché tacito interlocutore che Raffaello non poteva dipingere banchetti di frutta e tosatori di contadini. Bastava dirgli della «sublimazione ‘ideale’ della realtà che è avvenuta qui» come Wölfflin accennerà più avanti. Ma è chiaro che quella domanda si insinuava in cuor suo. E infatti l’eccellente illustratore della ‘classicità’ italica rinascimentale si esibisce in un escamotage rivelatore, dove la pura gioia visiva si raggela in una malinconica similitudine: «Si potrebbe paragonare l’arte classica al rudere di un edificio incompleto, la cui forma incompleta deve essere integrata da molti frammenti sparsi ovunque e da tradizioni incomplete»[16]. Quel cimitero di marmi spezzati, di raccolta pietosa di sparpagliate testimonianze, mondo di frantumi, di relitti, di reperti dagli emblemi incerti e misteriosi, ossario senza riparo, che il gusto archeologico ha stabilito essere l’immagine della modernità. In altre parole è il «dramma barocco» messo in scena da un pensatore tedesco del Novecento.

Le «tradizioni incomplete» vengono integrate con i camuffamenti della «tradizione inventata» sulla quale con lo sguardo disincantato degli storici marxisti argomentano Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger. Se la tradizione dà segni di debolezza sotto i colpi dell’immenso lavoro dell’illuminismo, si cerca un autorevole testimone, una passe lacaniana, nei gruppi sociali più arcaici, per esempio nei contadini «depositari della continuità storica», spiega Hobsbawm. «Persino i movimenti rivoluzionari puntellarono le loro rivoluzioni facendo riferimento al ‘passato del popolo’ (i Sassoni contro i Normanni, ‘nos ancêtres les Gaulois’ contro i Franchi, Spartaco), alle tradizioni rivoluzionarie (‘Auch das deustsche Volk hat seine revolutionäre Tradition’, dichiarava Engels nelle prime righe della sua Guerra contadina in Germania) ai loro eroi e martiri»[17]. Ma l’esperimento più imponente di reinvenzione della tradizione fa ricorso all’arte. Da Winckelmann in poi, articolandosi nella militanza dei Primitifs o Barbus – la setta presieduta da Maurice Quaï, nata nel rifiuto dei modelli viventi, a favore delle copie dei vasi greci (i pretesti per le ribellioni nell’arte sono i più vari, ma spesso le conseguenze coincidono) – e subito dopo dei Nazareni.

Forse i primi sfacciati falsari della tradizione in questo campo sono James Macpherson, il traduttore di Ossian, e il reverendo John Macpherson, parroco di Sleat sull’isola di Skye. «Da soli, ma attraverso due atti distinti di audace contraffazione, riuscirono a creare una letteratura indigena della Scozia celtica e, a suo indispensabile puntello, una nuova storia»[18]. L’ ‘Omero celtico’, come quello greco, riempirà l’immaginazione degli artisti a cavallo tra Sette Ottocento, il Sogno di Ossian vibrerà nelle tele di Ingres come di alcuni Nazareni, attrazione del magnete nordico. Tanto poté il gusto del primitivo che Madame de Staël giudicò i versi ‘ossianici’ alla pari con quelli omerici.

Vienna, capitale di una tradizione reinventata. Da decenni, sconfitta regolarmente dalla Prussia nuova protagonista della storia germanica, fa invece la parte della vincitrice assoluta, mostra la maestà dell’impero, stabilisce la Santa Alleanza dei difensori del cristianesimo, mescolando potenze eretiche e cattoliche. Metternich però non si illudeva e diceva a proposito dei Borboni, ma la frase potrebbe riferirsi all’intero mondo uscito del Congresso di Vienna: «Il ritorno a quello che si chiamava ‘antico regime’ era impossibile, perché del regime del passato non rimaneva che il ricordo della sua decadenza»[19].

È strano, il mondo della tradizione non aveva bisogno di tener viva la nostalgia del passato, il progressismo moderno si aggrappa invece al passato e al futuro, dimentica il presente, istituisce i musei come morgues della memoria, officia il culto della memoria, innalza i monumenti per ricordare ai posteri, si affanna per parlare ancora ai figli dei figli. Come se gli mancasse il terreno sotto i piedi.

Nella corsa agli anacronismi che tutte le avanguardie intraprenderanno – chi in direzione del futuro e chi del passato – , bisogna tener presenti le parole del critico britannico Gurlitt a proposito del Lukasbund: «Non è possibile liberarsi completamente della temperie della propria età, ricreare di sana pianta un’età passata, e in particolare ricuperare una qualità così rara come l’innocenza primitiva. La differenza fondamentale tra i Nazareni e i primitivi che essi cercarono di emulare, fu forse che mentre i primitivi credevano, gli altri sapevano»[20].

Ben prima di queste ricerche degli storici, gli antropologi si erano accorti della più impressionante invenzione di una tradizione: durante la Rivoluzione francese, quando si prende a ripensare la morte. Nascono nuovi riti per congedarsi dalla vita. L’arte dell’epoca sarà una eco fedele della grande liturgia laica per la sepoltura. Arte funeraria fu infatti per gran parte e per tonalità, carattere luttuoso che sovrintende allo stile neoclassico come al romantico[21]. Persino i cimiteri furono sottratti, dall’ordinanza napoleonica, all’ombra del campanile, e ridotti a musei etnografici dell’Occidente, con le masse di mummie senza più un’anima. Monumentalità in onore della morte. Nessuna pompa funebre barocca fu così sconsolata. Struggenti appaiono i richiami alla sapienza antica, ai segreti egiziani, ai muti segni etruschi, alle parole stoiche, alla araldica massonica. Risuona grave la facile profezia del visconte di Chateaubriand: «A forza di declamare contro la superstizione, si finirà con l’aprire la strada a ogni crimine. Quello che stupirà i sofisti sarà il fatto che, in mezzo ai mali causati da loro, non avranno neppure la soddisfazione di vedere un popolo laico. Quando infatti questo cesserà di sottomettere il proprio spirito alla religione, si farà delle convinzioni mostruose. Sarà colpito da un terrore che gli sembrerà tanto più strano quanto non ne conosce l’oggetto: tremerà in un cimitero dove è inciso che la morte è un sonno eterno; e con l’aria di disprezzare la potenza divina si metterà a interrogare il ciarlatano e a cercare il destino nel colore di una carta da gioco». Due secoli dopo, un Occidente incredulo presta fede come mai agli indovini. Più sintetico era stato Novalis: «dove non esistono gli dèi governano gli spettri».

[1] L. Venturi, Il gusto dei primitivi, 1926, qui citato nella edizione Einaudi, Torino 1976, p. 102.

[2] Con fantasia barocco-napoletana, Vico descrive nella Scienza nuova i selvaggi giganti delle origini che vagavano sulla terra «per campare delle fiere, delle quali la gran selva doveva ben abbondare, e per inseguir le donne, ch’in tale stato dovevan esser selvagge, ritrose e schive, e sì sbandati per truovare pascolo ed acqua, le madri abbandonando i loro figliuoli, questi dovettero tratto tratto crescere senza udire voce umana nonché apprender uman costume, onde andarono in in uno stato affatto bestiale e ferino. Nel quale le madri, come bestie, dovettero lattare solamente i bambini e lasciargli nudi rotolare dentro le fecce loro propie, ed appena spoppati abbandonargli per sempre; e questi – dovendosi rotolare dentro le loro fecce, le quali co’ sali nitri maravigliosamente ingrassano i campi; – e sforzandosi per penetrare la gran selva, che per lo fresco diluvio doveva esser foltissima, per gli quali sforzi dovevano dilatar altri muscoli per tenderne altri, onde isali nitri in maggior copia si insinuavano ne’ loro corpi; – e senza alcuno timore di dèi, di padri, di maestri, il quale assidera il più rigoglioso dell’età fanciullesca; – dovettero a dismisura ingrandire le carni e l’ossa, e crescere vigorosamente robusti, e sì provenire giganti…» (Scienza nuova, in Opere Mondadori, Milano 1990, tomo I, pp. 564-565).

[3] Venturi cit., p. 50.

[4] Savinio circonda la frase con questo discorsetto: «Al tempo di Stendhal, la pittura di Giotto era una pittura di cui non si parla. La conoscenza di Giotto è di fresca data. Essa dipoi è diventata amore, e infine è degenerata in mania. Alla conoscenza di Giotto, e così a quella di Piero della Francesca, di Masaccio, si opponeva il gusto più che le archeologiche difficoltà.[…] Al tempo di Stendhal, il gusto ingenuo e naturale mirava al centro ‘maturo’ delle cose, che in pittura è Paolo Veronese, ma non a Giotto, che è pittore periferico. Giotto o lo si guardava ‘per curiosità’, come ora si guarda il graffito di un convento dell’Aghion Oros, o non lo si guardava affatto. Doveva passare un secolo perché la parola ‘primitivo’ perdesse quel significato peggiorativo che faceva guardare i ‘primitivi’ al modo che un adulto guarda un bambino, un gigante guarda un nano. […] Per Stendhal la pittura pompeiana è un sottodomenichino. Doveva passare un secolo perché si sviluppasse il gusto del primitivo, il gusto del crudivorismo, il gusto delle cose non arrivate a maturità». Poi, con arguzia, aggiunge in nota una considerazione di buon senso: «Rimane da dire che il ‘giottismo’ d’oggi è meno la scoperta di una verità che una ragione pratica, perché è più facile rifare Giotto che Raffaello» (A. Savinio, Ascolta il tuo cuore, città, Bompiani, Milano, 1988, pp. 60-62). Nota a una nota: non è proprio vero che ai tempi di Stendhal non si parlasse di Giotto, anzi si può dire che il suo culto cominci proprio allora, ma Savinio non fa lo storico, si fida del romanziere francese e lo usa come un barometro del gusto.

[5] P. A. Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti, La Casa del libro, Roma, 1983, p.82. A Mosca, all’inizio del secolo, i rappresentanti più esuberanti dell’avanguardia dialogano con un giovane matematico, che sa parlare con sapienza di medicina, di biologia, di fisica, di linguistica, che stupisce con le sue invenzioni, che conosce come pochi la filosofia occidentale e sa riassumere tutta la tradizione patristica. Un giorno, l’eruditissimo interlocutore entra in seminario a studiare sistematicamente teologia e diventa prete, ma continua a parlare con rivoluzionari politici e artistici. Dopo la presa del potere dei bolscevichi, padre Pavel Alexandrovic Florenskij viene mandato a insegnare alla VChutemas, una scuola moscovita che voleva essere il corrispettivo sovietico del Bauhaus. Il nostro pope ha la cattedra di Analisi della spazialità nell’opera d’arte (specializzazioni vertiginose) e la onora con corsi dove il vorticismo della avanguardie entra in consonanza con la teologia bizantina. Ma pochi anni dopo, il geniale arciprete viene arrestato, poi inviato in un Lager e qui trovò la morte nel 1937, a 55 anni.

[6] P. A. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, a cura di E. Zolla, Adelphi, Milano, 1977, pp. 63-75. Vale la pena riportare più estesamente il brano che sintetizza l’ostilità dei teologi ortodossi nei confronti dell’arte religiosa occidentale, anche perché ha sorprendenti somiglianze ai discorsi dei romantici tedeschi (ambedue prendevano spunto da un’opera postuma di Wackenroder): «La pittura religiosa dell’Occidente, incominciata col Rinascimento, fu una radicale falsità artistica e pur predicando a parole la prossimità e fedeltà alla realtà raffigurata, gli artisti non avevano niente a che fare con quella realtà che pretendevano e ardivano di rappresentare, non ritenevano nemmeno opportuno osservare le norme della pittura di icone tradizionale, cioè la conoscenza del mondo spirituale quale era trasmesso dalla Chiesa cattolica. Viceversa la pittura di icone è la rocca delle figure celesti. […] Le icone, mediante questi testimoni che sono i pittori di icone, ci offrono le immagini - είδη, είκόν – delle loro visioni” (Ibidem).

[7] Zolla, curatore dell’opera, liquida in nota la faccenda: «Florenskij riferisce di un supposto manoscritto del Bramante. Si è tradotto con un discorso indiretto, non risultando il testo tra le collezioni consultate di scritti bramanteschi» (Ibid., p. 77). E men che mai in quelli raffaelleschi, raccolti attentamente nel volume a cura di Vincenzo Golzio, Raffaello nei documenti - nelle testimonianze dei contemporanei e nella letteratura del suo secolo, Città del Vaticano, 1936. Zolla non accenna neppure che la presunta esperienza mistica del grande pittore è nient’altro che la fantasia di uno scrittore romantico tedesco su una frase di Raffaello.

[8] P.A. Florenskij, La prospettiva rovesciata cit., p. 103.

[9] Secondo gli storici occidentali, le tende semiaperte, a somiglianza dei monumenti sepolcrali coevi, e i cherubini, che spesso venivano rappresentati sui sarcofaghi, indicherebbero una originaria destinazione funeraria del quadro.

[10] F. Milizia, Opere complete, Bologna 1826, vol. I, p. 260.

[11] Venturi, op. cit., pp. 47-48.

[12] Ibid., p. 48.

[13] Trad. italiana: Sansoni, Firenze1941-1978.

[14] Ibid., p. 9.

[15] Ibid., p. 8

[16] Ibid., p. 11.

[17] E. J. Hobsbawm - T. Ranger, The Invention of Tradition, trad. it. Einaudi, Torino 1994. p. 15. Va notato en passant che Engels parla di revolutionäre Tradition, speculare ossimoro del più celebre konservative Revolution.

[18] Hugh Trevor-Rope, «La tradizione delle Highlands in Scozia» in The Invention of Tradition cit., p. 21. Appena inventata, si traduceva in esotico abito ‘tradizionale’ con il quale, a Roma, Pompeo Batoni ritraeva sir Gordon con tanto di gonnellino scozzese sullo sfondo del Colosseo.

[19] Metternich, Mémoires, trad. it. Einaudi, Torino 1943, p. 217.

[20] Citato in Keith Andrews, The Nazarenes. A Brotherhod of German Painters in Rom, Oxford at the Clarenton Press, Oxford 1964.

[21] Si potrà obiettare che il gusto per sinistri luoghi, tombe rovine e cimiteri, è già degli inglesi, del pre-romanticismo, in anticipo sullo scoppio della Rivoluzione francese, dimenticando che la fine dell’universo tradizionale non fu dovuta esclusivamente agli avvenimenti dell’estate parigina dell’89, che da qualche decennio in Gran Bretagna era in corso una rivoluzione senza squilli di trombe. Strappava gli uomini alla terra, quel sommovimento modificava il lavoro, lo spazio, il tempo, la vita dunque. Un protagonista del neoclassicismo come John Flexman già lavora per una fabbrica dominata dalla rigida divisione del lavoro, la Etruria ceramiche d’arte: ci sarà pure una differenza vitale tra il creare per un signore aristocratico, complice e mecenate con cui competere in fatto di gusto, e un anonimo pubblico da conquistare attenendosi alle regole commerciali o sottomettendosi ai cicli delle mode. Leggiamo in Die Wahlverwandtschaften di Goethe: «Questo è il guaio – esclamò Edoardo – , ora non si può imparare niente che valga per tutta la vita. I nostri avi si attenevano all’istruzione ricevuta in gioventù; ora invece dobbiamo rifarci da capo ogni cinque anni se non vogliano essere assolutamente fuori moda» (tr. it. Utet, Torino, 1933, p. 58). Per la prima volta nella storia umana il senex veniva spogliato di ogni virtù.

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