~ LA TECNICA INDUSTRIALE, LA PSICOANALISI E L’ARTE MODERNA: ECCO I NEMICI DELL’IMMAGINE SECONDO CARL SCHMITT. ~ RIECHEGGIATO DA JAMES HILLMAN CHE PARLA DI «SIMULACRI, FANTASMI, INCUBI, MANIPOLAZIONI DELLA MENTE» A PROPOSITO DELLA NUOVA EFFIGIE ~
Al Nodo di Gordio di Jünger, Carl Schmitt replicò con un saggio uscito negli scritti celebrativi per i sessant’anni dell’amico. In elegante confronto con la polarità Est/Ovest ricordata su questo «Almanacco» l’altro giorno (L’enigma occidentale, 2 marzo 2010), il giurista propose la sua Die geschichtliche Struktur des heutigen Welt-Gegensatzes von Ost und West. Un dialogo a distanza che, in un secondo tempo, diventò un unico libro (in italiano edito da Il Mulino, 2004). In questa specie di appendice schmittiana troviamo altri spunti per riflettere sull’arte del nostro tempo. Uscendo anzitutto dallo schema facile per cui l’Occidente custodirebbe le immagini che agli antipodi vengono combattute.
Come già in Jünger, non si tratta infatti di una contrapposizione geografica tra due poli rigidi bensì di simboli in cui la stessa conflittualità psichica degli umani si può riflettere. Però, in piena ‘guerra fredda’, uno scienziato del diritto non voleva lasciarsi conquistare integralmente dai simbolismi, in guisa dello scrittore ‘alchemico’, confratello nei segreti esilî. Schmitt si àncora allora alla storia. Sulla scia del geografo ebreo-ucraino-francese Jean Gottmann, egli parla di «iconographie régionale», dove le «differenti immagini e concezioni del mondo scaturite da differenti religioni, tradizioni, dal passato storico e dalle organizzazioni sociali, costituiscono spazi peculiari». «Iconografia» sembra al giurista di Plettenberg una «parola nuova» che può sostituire il termine logoro di «ideologia». In luogo di astratte visioni, di punti di vista, i repertori di immagini storicamente date. Ma la tecnologia sta già irrompendo e devastando le «iconografie tradizionali». Di passaggio, quindi, l’autore del breve scritto sfiora le avventure dell’immagine occidentale.
«Quando parliamo di iconoclastia – spiega Schmitt – immediatamente vien fatto di pensare ad avvenimenti della storia di Bisanzio, alla disputa sulle immagini sotto l’imperatore Leone, all’avversione dell’Antico Testamento e dell’Islam per le immagini e, di contro, al riconoscimento del culto delle immagini da parte di Carlo Magno». Più o meno, questo si studia nelle nostre scuole. Ma il concetto di «iconographie» introdotto da Gottmann rende tutto più sfumato. Schmitt se ne impadronisce da rapace qual è: «ovunque esistono icone e iconografia […] si presenta anche la possibilità di un’iconoclastia. Tutto ciò non è affatto limitato a Bisanzio e all’Islam». Comincia così l’excursus. «Proprio in Occidente hanno manifestato il loro spirito iconoclastico i seguaci di Wycliffe e di Hus, le sette battiste e i Puritani, riformatori religiosi o semplificatori razionalisti». Ancora una volta, per l’autore della Teologia politica, i fenomeni della secolarizzazione rivelano la trama religiosa. «La grande lotta politica mondiale che esplose all’epoca delle scoperte e della conquista di quello che era allora il Nuovo Mondo – prosegue il pensatore tedesco –, ossia il primo conflitto globale della storia mondiale, nelle rappresentazioni tradizionali appare un conflitto tra dogmi confessionali, una lotta tra Cattolicesimo romano e Protestantesimo nordico, o, più esattamente tra gesuiti e calvinisti. Il criterio crittografico ci spinge qui a una visione più approfondita…».
Il Professore si diverte a scompaginare i manuali di storia. «Le guerre civili di religione in Europa, compresa la Guerra dei Trent’anni combattuta tra il 1618 e il 1648 su suolo tedesco, in realtà furono motivate dall’atteggiamento ostile o favorevole al medioevale culto cattolico della Madonna, all’immagine di Maria. Dobbiamo allora considerare l’avversione dei Puritani inglesi per le immagini un tratto specificamente orientale di fronte al culto delle immagini professato in Paesi cattolici come la Baviera, la Spagna o la Polonia?». Si potrebbe rispondere che comunque il cattolicesimo mantiene un saldo legame con quella cultura romana, classica per antonomasia, che elaborò un atteggiamento avverso a tutti i fumosi misticismi e al culto dell’interiorità orientali; che perfino la contrapposizione Pietro e Paolo, accennata negli Atti degli apostoli, mette in luce una linea gerosolimitana vs quella greca, ma Schmitt qui maneggia i contrasti storici per definire piuttosto il conflitto tra America e Urss, ormai costretto a osservare da spettatore, confinato in un villaggio di una Germania vinta. Perciò insiste: «la disputa sulle immagini che si svolse a Bisanzio ebbe, come sfondo teologico, il dogma cristiano della Trinità, e come realtà spirituale la profonda distinzione iconografica tra Unità compatta e Triplicità divina. Anche qui non è possibile affermare che il dogma della Trinità fosse una faccenda essenzialmente occidentale e il monoteismo astratto una essenzialmente orientale». Di contro lo slancio islamico, orientale, verso un monoteismo astratto che separa terribilmente Dio e mondo, che allontana a distanze siderali creatore e creatura, senza mediazione alcuna, Schmitt con pedante erudizione porta esempi contrari, dai Padri della Chiesa siriani che abbracciano la formula Filioque nel Credo cristiano agli «ariani di stirpe tedesca» che negarono la natura divina di Cristo. Nella disamina delle immagini storiche contraddittorie non sembra sfiorato dal dubbio che gli echi ‘orientali’ si possano ritrovare in tutto quello che si oppone, qui in Occidente, a Roma, nei teologi nullisti germanici come nei rivoluzionari del puritanesimo inglese. Ma l’intento dell’autore, val la pena ripeterlo, è un altro, la storia delle immagini occupa appena due paginette del suo saggio.
Quello che qui ci interessa è l’osservazione che sta al centro delle considerazioni schmittiane sull’immagine. Riferendosi ad Alessandro che scioglie il nodo gordiano, scrive: «Manifestamente, la psicoanalisi è un’irruzione iconoclastica in una vecchia iconografia. Manifestamente, la pittura moderna – sia essa realmente astratta o conservi ancora qualche residuo di oggettività – fonde la distruzione dell’antico mondo delle immagini e dell’antico modo di rappresentazione con il tentativo di creare qualcosa di nuovo». Con la precisione cui ci ha abituato, coglie quel taglio decisivo che gli apologeti dell’arte moderna, pur nell’enfatica esaltazione del carattere «rivoluzionario», tendono poi sempre a negare, cercando anzi una continuità con le figure dei massimi artisti della nostra storia e con le loro pratiche. «Distruzione» del mondo delle immagini, «distruzione» della rappresentazione sono tutt’uno – dice giustamente - , così come il nuovo, o meglio «il tentativo» di nuovo radicale sta a significare la fuoriuscita dalla millenaria storia dell’arte. Ecco dunque le tre iconoclastie d’oggi: la psicoanalisi, la nuova arte e la «tecnicizzazione industriale». Quest’ultima è «come la spada che taglia il groviglio delle antiche immagini e tabù…». Non è scontato che il giurista sia schierato dalla parte degli iconofili – anche se certi commenti favorevoli alla metanoia cattolica del suo amico Hugo Ball, fondatore del dadaismo e poi studioso delle vite dei santi e delle magnificenze bizantine, la dicono lunga in proposito – , va comunque rilevato il suo equilibrio e la sua esattezza nel presentare la situazione delle immagini a metà del Novecento, nonostante i segnali contraddittori che si avvertivano, nonostante le innumerevoli deformazioni ideologiche in corso.
Resta il dubbio sulla iconoclastia della psicoanalisi. Inganna forse il titolo della rivista freudiana, «Imago», la parola latina sta invece a indicare le immagini mentali, quanto di più lontano da quelle prodotte dall’arte. «Purtroppo la psicoanalisi ha pochissimo da dire sulla bellezza», confessò Freud nel Disagio della civiltà. Lo psicologo di scuola junghiana James Hillman, in una conferenza a Ferrara di una decina di anni fa, dunque circa mezzo secolo più tardi del dialogo Jünger-Schmitt, parlava dell’«interiorizzazione soggettiva della psicanalisi a scapito del contatto con la realtà concreta». A scapito pure delle immagini. Parlare di iconoclastia parrebbe tuttavia paradossale: non viviamo forse nell’èra delle icone d’ogni tipo, e la psicoanalisi non è l’interpretazione più corrente, spesso corriva, di questo immaginario? «Non siamo forse sommersi – si domanda anche Hillman – da ondate di immagini provenienti da schermi, cartelloni, video, vetrine, riviste? Il XX secolo non è forse l’era della Kodak? Iconofilia – non c’è dubbio. Se il nuovo ordine mondiale generato dagli Stati Uniti si potesse sintetizzare in una sola caratteristica, non sarebbe l’ubiquità dei media dell’immagine? Ma questi fenomeni non sono immagini. Sono simulacri delle immagini, fantasmi, incubi senza anima che dilagano come le tenebre del Sottomondo, alla ricerca di sangue ed emozioni umane e ci rendono immagine-dipendenti. Come se l’inondazione di immagini alla quale non possiamo sottrarci fosse una vendetta delle immagini stesse, milioni e milioni di immagini che tornano dopo secoli di repressione iconoclasta e, come Furie, chiedono riconoscimento e addirittura sacrificio. Sono numerose e onnipresenti perché vengono trascinate per i capelli nel baratro creato dall’espulsione delle vere immagini. Di qui la loro rapidità e fugacità». Il Giorno del Giudizio Postmoderno, un vortice dannato di figure un tempo assai avvenenti che ora si contraggono in una smorfia suprema.
Viene da pensare alle parole di Baudrillard sulle immagini-simulacro, alla sua suggestiva formulazione: «Come i barocchi, noi siamo creatori sfrenati di immagini ma segretamente siamo iconoclasti. Non di quelli che distruggono le immagini ma di quelli che ne fabbricano una profusione dove non c’è niente da vedere». (Immalinconiti dalla loro scarsa eloquenza – nell’attuale riproducibilità tecnica –abbiamo rimosso anche quella nella testata di questo «Almanacco», perché già troppe di esse cadono nella rete imbavagliate, mute, inespressive nonostante tutto l’Expressionismus di ritorno, brutte: malgrado lo splendore abbagliante dello schermo non ci sembra facilmente rintracciabile una bellezza elettronica, una luce diversa da quella della réclame. Segni, non immagini, secondo una vecchia e saggia distinzione).
Davvero un commento alle parole di Schmitt sulla iconoclastia del freudismo risultano queste riflessioni di Hillman: le immagini psicoanalitiche «sono state private dell’anima. Vanno alla deriva, prive di riferimenti all’immaginario, e della loro autentica sostanzialità; meri servi delle manipolazioni della mente, nominalisti anonimi, significanti privi di significato, forme immaginifiche delle sigle e delle astrazioni della neolingua».
L’iconoclastia non si limita a distruggere le immagini, «quello è il danno minore, contingente. La catastrofe più grande, ontologica, consiste nell’eliminazione di quel terzo spazio dell’immaginazione compreso tra le funzioni dello spirito e le sensazioni del corpo».
Al Nodo di Gordio di Jünger, Carl Schmitt replicò con un saggio uscito negli scritti celebrativi per i sessant’anni dell’amico. In elegante confronto con la polarità Est/Ovest ricordata su questo «Almanacco» l’altro giorno (L’enigma occidentale, 2 marzo 2010), il giurista propose la sua Die geschichtliche Struktur des heutigen Welt-Gegensatzes von Ost und West. Un dialogo a distanza che, in un secondo tempo, diventò un unico libro (in italiano edito da Il Mulino, 2004). In questa specie di appendice schmittiana troviamo altri spunti per riflettere sull’arte del nostro tempo. Uscendo anzitutto dallo schema facile per cui l’Occidente custodirebbe le immagini che agli antipodi vengono combattute.
Come già in Jünger, non si tratta infatti di una contrapposizione geografica tra due poli rigidi bensì di simboli in cui la stessa conflittualità psichica degli umani si può riflettere. Però, in piena ‘guerra fredda’, uno scienziato del diritto non voleva lasciarsi conquistare integralmente dai simbolismi, in guisa dello scrittore ‘alchemico’, confratello nei segreti esilî. Schmitt si àncora allora alla storia. Sulla scia del geografo ebreo-ucraino-francese Jean Gottmann, egli parla di «iconographie régionale», dove le «differenti immagini e concezioni del mondo scaturite da differenti religioni, tradizioni, dal passato storico e dalle organizzazioni sociali, costituiscono spazi peculiari». «Iconografia» sembra al giurista di Plettenberg una «parola nuova» che può sostituire il termine logoro di «ideologia». In luogo di astratte visioni, di punti di vista, i repertori di immagini storicamente date. Ma la tecnologia sta già irrompendo e devastando le «iconografie tradizionali». Di passaggio, quindi, l’autore del breve scritto sfiora le avventure dell’immagine occidentale.
«Quando parliamo di iconoclastia – spiega Schmitt – immediatamente vien fatto di pensare ad avvenimenti della storia di Bisanzio, alla disputa sulle immagini sotto l’imperatore Leone, all’avversione dell’Antico Testamento e dell’Islam per le immagini e, di contro, al riconoscimento del culto delle immagini da parte di Carlo Magno». Più o meno, questo si studia nelle nostre scuole. Ma il concetto di «iconographie» introdotto da Gottmann rende tutto più sfumato. Schmitt se ne impadronisce da rapace qual è: «ovunque esistono icone e iconografia […] si presenta anche la possibilità di un’iconoclastia. Tutto ciò non è affatto limitato a Bisanzio e all’Islam». Comincia così l’excursus. «Proprio in Occidente hanno manifestato il loro spirito iconoclastico i seguaci di Wycliffe e di Hus, le sette battiste e i Puritani, riformatori religiosi o semplificatori razionalisti». Ancora una volta, per l’autore della Teologia politica, i fenomeni della secolarizzazione rivelano la trama religiosa. «La grande lotta politica mondiale che esplose all’epoca delle scoperte e della conquista di quello che era allora il Nuovo Mondo – prosegue il pensatore tedesco –, ossia il primo conflitto globale della storia mondiale, nelle rappresentazioni tradizionali appare un conflitto tra dogmi confessionali, una lotta tra Cattolicesimo romano e Protestantesimo nordico, o, più esattamente tra gesuiti e calvinisti. Il criterio crittografico ci spinge qui a una visione più approfondita…».
Il Professore si diverte a scompaginare i manuali di storia. «Le guerre civili di religione in Europa, compresa la Guerra dei Trent’anni combattuta tra il 1618 e il 1648 su suolo tedesco, in realtà furono motivate dall’atteggiamento ostile o favorevole al medioevale culto cattolico della Madonna, all’immagine di Maria. Dobbiamo allora considerare l’avversione dei Puritani inglesi per le immagini un tratto specificamente orientale di fronte al culto delle immagini professato in Paesi cattolici come la Baviera, la Spagna o la Polonia?». Si potrebbe rispondere che comunque il cattolicesimo mantiene un saldo legame con quella cultura romana, classica per antonomasia, che elaborò un atteggiamento avverso a tutti i fumosi misticismi e al culto dell’interiorità orientali; che perfino la contrapposizione Pietro e Paolo, accennata negli Atti degli apostoli, mette in luce una linea gerosolimitana vs quella greca, ma Schmitt qui maneggia i contrasti storici per definire piuttosto il conflitto tra America e Urss, ormai costretto a osservare da spettatore, confinato in un villaggio di una Germania vinta. Perciò insiste: «la disputa sulle immagini che si svolse a Bisanzio ebbe, come sfondo teologico, il dogma cristiano della Trinità, e come realtà spirituale la profonda distinzione iconografica tra Unità compatta e Triplicità divina. Anche qui non è possibile affermare che il dogma della Trinità fosse una faccenda essenzialmente occidentale e il monoteismo astratto una essenzialmente orientale». Di contro lo slancio islamico, orientale, verso un monoteismo astratto che separa terribilmente Dio e mondo, che allontana a distanze siderali creatore e creatura, senza mediazione alcuna, Schmitt con pedante erudizione porta esempi contrari, dai Padri della Chiesa siriani che abbracciano la formula Filioque nel Credo cristiano agli «ariani di stirpe tedesca» che negarono la natura divina di Cristo. Nella disamina delle immagini storiche contraddittorie non sembra sfiorato dal dubbio che gli echi ‘orientali’ si possano ritrovare in tutto quello che si oppone, qui in Occidente, a Roma, nei teologi nullisti germanici come nei rivoluzionari del puritanesimo inglese. Ma l’intento dell’autore, val la pena ripeterlo, è un altro, la storia delle immagini occupa appena due paginette del suo saggio.
Quello che qui ci interessa è l’osservazione che sta al centro delle considerazioni schmittiane sull’immagine. Riferendosi ad Alessandro che scioglie il nodo gordiano, scrive: «Manifestamente, la psicoanalisi è un’irruzione iconoclastica in una vecchia iconografia. Manifestamente, la pittura moderna – sia essa realmente astratta o conservi ancora qualche residuo di oggettività – fonde la distruzione dell’antico mondo delle immagini e dell’antico modo di rappresentazione con il tentativo di creare qualcosa di nuovo». Con la precisione cui ci ha abituato, coglie quel taglio decisivo che gli apologeti dell’arte moderna, pur nell’enfatica esaltazione del carattere «rivoluzionario», tendono poi sempre a negare, cercando anzi una continuità con le figure dei massimi artisti della nostra storia e con le loro pratiche. «Distruzione» del mondo delle immagini, «distruzione» della rappresentazione sono tutt’uno – dice giustamente - , così come il nuovo, o meglio «il tentativo» di nuovo radicale sta a significare la fuoriuscita dalla millenaria storia dell’arte. Ecco dunque le tre iconoclastie d’oggi: la psicoanalisi, la nuova arte e la «tecnicizzazione industriale». Quest’ultima è «come la spada che taglia il groviglio delle antiche immagini e tabù…». Non è scontato che il giurista sia schierato dalla parte degli iconofili – anche se certi commenti favorevoli alla metanoia cattolica del suo amico Hugo Ball, fondatore del dadaismo e poi studioso delle vite dei santi e delle magnificenze bizantine, la dicono lunga in proposito – , va comunque rilevato il suo equilibrio e la sua esattezza nel presentare la situazione delle immagini a metà del Novecento, nonostante i segnali contraddittori che si avvertivano, nonostante le innumerevoli deformazioni ideologiche in corso.
Resta il dubbio sulla iconoclastia della psicoanalisi. Inganna forse il titolo della rivista freudiana, «Imago», la parola latina sta invece a indicare le immagini mentali, quanto di più lontano da quelle prodotte dall’arte. «Purtroppo la psicoanalisi ha pochissimo da dire sulla bellezza», confessò Freud nel Disagio della civiltà. Lo psicologo di scuola junghiana James Hillman, in una conferenza a Ferrara di una decina di anni fa, dunque circa mezzo secolo più tardi del dialogo Jünger-Schmitt, parlava dell’«interiorizzazione soggettiva della psicanalisi a scapito del contatto con la realtà concreta». A scapito pure delle immagini. Parlare di iconoclastia parrebbe tuttavia paradossale: non viviamo forse nell’èra delle icone d’ogni tipo, e la psicoanalisi non è l’interpretazione più corrente, spesso corriva, di questo immaginario? «Non siamo forse sommersi – si domanda anche Hillman – da ondate di immagini provenienti da schermi, cartelloni, video, vetrine, riviste? Il XX secolo non è forse l’era della Kodak? Iconofilia – non c’è dubbio. Se il nuovo ordine mondiale generato dagli Stati Uniti si potesse sintetizzare in una sola caratteristica, non sarebbe l’ubiquità dei media dell’immagine? Ma questi fenomeni non sono immagini. Sono simulacri delle immagini, fantasmi, incubi senza anima che dilagano come le tenebre del Sottomondo, alla ricerca di sangue ed emozioni umane e ci rendono immagine-dipendenti. Come se l’inondazione di immagini alla quale non possiamo sottrarci fosse una vendetta delle immagini stesse, milioni e milioni di immagini che tornano dopo secoli di repressione iconoclasta e, come Furie, chiedono riconoscimento e addirittura sacrificio. Sono numerose e onnipresenti perché vengono trascinate per i capelli nel baratro creato dall’espulsione delle vere immagini. Di qui la loro rapidità e fugacità». Il Giorno del Giudizio Postmoderno, un vortice dannato di figure un tempo assai avvenenti che ora si contraggono in una smorfia suprema.
Viene da pensare alle parole di Baudrillard sulle immagini-simulacro, alla sua suggestiva formulazione: «Come i barocchi, noi siamo creatori sfrenati di immagini ma segretamente siamo iconoclasti. Non di quelli che distruggono le immagini ma di quelli che ne fabbricano una profusione dove non c’è niente da vedere». (Immalinconiti dalla loro scarsa eloquenza – nell’attuale riproducibilità tecnica –abbiamo rimosso anche quella nella testata di questo «Almanacco», perché già troppe di esse cadono nella rete imbavagliate, mute, inespressive nonostante tutto l’Expressionismus di ritorno, brutte: malgrado lo splendore abbagliante dello schermo non ci sembra facilmente rintracciabile una bellezza elettronica, una luce diversa da quella della réclame. Segni, non immagini, secondo una vecchia e saggia distinzione).
Davvero un commento alle parole di Schmitt sulla iconoclastia del freudismo risultano queste riflessioni di Hillman: le immagini psicoanalitiche «sono state private dell’anima. Vanno alla deriva, prive di riferimenti all’immaginario, e della loro autentica sostanzialità; meri servi delle manipolazioni della mente, nominalisti anonimi, significanti privi di significato, forme immaginifiche delle sigle e delle astrazioni della neolingua».
L’iconoclastia non si limita a distruggere le immagini, «quello è il danno minore, contingente. La catastrofe più grande, ontologica, consiste nell’eliminazione di quel terzo spazio dell’immaginazione compreso tra le funzioni dello spirito e le sensazioni del corpo».
2 commenti:
Forse per estrema ellissi non è chiaro l'accenno al contrasto Pietro e Paolo: se Gerusalemme si oppone ad Atene, Roma che c'entra? O - tento di ricostruire la parte mancante - si vuol associare, in modo un po' paradossale,Gerusalemme a Roma contra le astrazioni greche?
Sì, più o meno. Grazie per la ricostruzione della parte mancante.
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