domenica 4 aprile 2010

La notte delle concordanze

~ LA VEGLIA PASQUALE IN UN ANGOLO DELLA ROMA RINASCIMENTALE, TRA LA GIOIA DIONISIACA DEGLI AFRICANI E LA FORMA MISURATISSIMA DEL RITO GREGORIANO. ~ E ALCUNI PENSIERI DI UNO SCRITTORE DISPERATO ~

Stanotte, tra i primi scampanii, diretti alla Trinità dei Pellegrini per partecipare alla veglia pasquale, alla cerimonia per eccellenza dell’anno liturgico, che tutte le riassume e genera, attraversando i vicoli del quartiere rinascimentale tra Campo de’ Fiori e il fiume, si poteva udire una specie di canto, modulazioni di arcaiche sonorità di gola, voci maschili aspre e muggenti, stridule voci femminili di rimando, acustica africana nel cuore della città eterna. Giravi l’angolo e scoprivi una folla di eritrei in abiti da festa celebrare la Pasqua fuori l’antica chiesa di San Salvatore in Campo, concessa al rito copto: già era stato dato l’annuncio della resurrezione, e tutti si abbracciavano e cantavano osannando. Festa che manteneva radici dionisiache ma, diversa dall’annullamento della persona prodotto da ogni mito, prometteva a ciascuno la vittoria individuale sulla morte. In tanto giubilo contagioso, veniva da pensare alla passione di Léon Bloy, scrittore cattolico francese, che alla data 12 aprile 1914, giorno di Pasqua, annotava nel suo diario: «La fine della Quaresima mi è sembrata molto dura. Oggi ho eccezionalmente l’anima in pace. La Domenica di Pasqua spesso l’ho vissuta dolorosamente, perché sono tra quelli che il lunedì piangono ancora, assieme ai discepoli di Emmaus. Il passaggio dall’immensa tristezza alla piena gioia risulta troppo brusco». A ogni Pasqua egli tornava a parlare del proprio dolore: il Venerdì santo sembrava specchiarsi nella sofferenza del suo Dio ma il Sabato non riusciva a partecipare della sua vittoria. Del resto confessava: «Noi sentiamo la liturgia come certi esseri sensibili avvertono il cambiamento d’atmosfera». Chissà se la contentezza africana, l’evento anche extra-liturgico che si spandeva per le strade antiche di Roma, avrebbe trascinato sia pure per una notte il Romanziere Povero con questi cristiani festanti?

Oggi si commemorano quelle ore incerte che precedono l’alba in cui si sarebbe assestato un colpo speciale alla morte. Fatto che avvenne nella storia, sotto il controllo del più pragmatico dei poteri, lo Stato romano, ma i cui dettagli sono affidati a figure umili. Può l’orgoglio di un occidentale maschio e sapiente piegarsi alla testimonianza decisiva di alcune donne ebree?

Nella chiesa della Trinità, parrocchia concessa per grazia di Benedetto XVI ai fedeli del rito in latino, la forma classica contiene l’esuberanza di questa notte speciale. Un canone precisissimo di parole e gesti, di intonazioni e accenti. Le norme rigorose attraverso le quali si annuncia la sconfitta della morte sembrano evocare la precisione del diritto romano. Si parte dalle origini, si rappresenta la cosmologia cristiana, si benedicono i suoi elementi, il fuoco e l’acqua. La natura è convocata per l’evento messianico, ma temendo la tradizione latina ogni concitazione, ogni misticismo confuso, la si sottopone a regole minuziose che si tramandano da millenni, a formule che invocano a ogni passo il Dio «dei secoli dei secoli», che sconfigge il tempo. Si passa quindi alle letture, alla Genesi, alle pagine che aprono il Libro, lette nella lingua sottratta al tempo, nella luce flebile delle candele. E si accende la volontà puntigliosa, notarile, di stabilire le concordanze tra Antico e Nuovo Testamento, per dimostrare la legittimità messianica di Gesù di Nazareth. Ritorna perciò insistente il nome di Israele da parte di chi gli si vuol fare figlio adottivo (il che spiega la speciale preghiera del Venerdì santo, l’incompreso atto d’amore per i padri che non hanno capito i tempi davvero moderni, messianici). Nel buio del tempio si ricordano altre tenebre, ancor più fitte, rotte nel sistema sensoriale dal profumo di alloro sparso nella navata, secondo il rito bizantino, come nella chiesa cattolico-greca di Sant’Attanasio al Babuino, che ospitò per anni, prima dell’indulto ratzingeriano, coloro che si trovavano a disagio nelle forme contemporanee del Triduo pasquale. Poi al Gloria, la massima raffigurazione della felicità: dalle parole, promettenti, alla musica solennissima e piena, alle immagini che si svelano; nel nostro caso quella della Trinità dipinta dal soave Guido Reni.

Basterà una giornata piovigginosa, in luogo di una primavera lucente che fa rinascere la natura, per lasciarsi confondere, per ricadere nelle angosce, nell’abbattimento umano, nell’uniformarsi al mondo animale senza speranza? Torna alla mente un altro pensiero cupo di Bloy che risuona come il basso continuo dell’epoca nostra: «La miseria dei morti, in un secolo privo di fede, è un arcano di dolore da cui la ragione è oppressa». Stanotte scorrono nel mondo alcune immagini per indebolire la potenza della morte. Nelle medesime ore, a San Pietro, il papa tedesco si rivolge al pubblico della platea televisiva: «Sì, l’erba medicinale contro la morte esiste. Cristo è l’albero della vita reso nuovamente accessibile. […]Per questo canteremo in questa notte della risurrezione, con tutto il cuore, l’alleluia, il canto della gioia che non ha bisogno di parole».

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