lunedì 17 gennaio 2011

Arso vivo

~ NOTE IN MARGINE A UN VOLUME SUL PENSIERO VEDICO ~

L’uomo sull’altare è una locuzione che evoca il sogno illuminista di sostituire Dio, offrendo all’adorazione la creatura mortale; le cinquecento pagine circa che compongono L’ardore di Roberto Calasso fanno intravedere invece l’uomo sull’ara sacrificale, ucciso in olocausto per gli dèi. La conoscenza religiosa in questo libro dove si parla dell’India vedica e dell’«innominabile attuale» è ormai presentata in forma di letteratura, vi figurerebbe bene in esergo un noto racconto jiddish: «Quando il Baal-Schem si trovava di fronte a un compito difficile, andava in un certo luogo del bosco, accendeva un fuoco e meditava pregando, e sempre fu eseguito quel che egli aveva deciso. Una generazione dopo, quando il Magghid di Meseritz si trovò di fronte al medesimo compito, andò allo stesso posto del bosco e disse: “Accendere il fuoco noi non possiamo più, ma le preghiere possiamo ancora dirle”, e quel che desiderava divenne realtà. Ancora una generazione più tardi, Rabbi Moshé Leib di Sassov, di fronte a un analogo impegno, andò anche lui nel bosco e disse: “Non siamo più in grado di accendere il fuoco e non conosciamo più le meditazioni segrete che fan parte della preghiera, ma il posto del bosco dove tutto questo avvenne lo conosciamo, e questo dovrebbe bastare”. E infatti bastò. Ma quando un’altra generazione dopo, Rabbi Israel di Richine si trovò di fronte al medesimo dovere, si sedette sulla sua poltrona dorata nel suo castello e disse: “Il fuoco non siamo più in grado di accenderlo, le preghiere non sappiamo più dire e neppure conosciamo più il posto preciso, ma possiamo tuttavia raccontare il fatto come in realtà è avvenuto”…». Così, spenti da tempo immemorabile i fuochi vedici, un letterato del terzo millennio d. C. prova a raccontarli. Non a caso, facendosi cronista di riti impossibili incrocia più volte Kafka.

Pierre Klossowski preferì tradurre un libro cinese, il Jeou-P’ou-T’ouan, ou La Chair comme tapis de prière di Li-Yu, scrittore oscuro del XVIII secolo, forse lavorando su un testo tedesco, congetturando assai, alla maniera di Ezra Pound che ridava vita ai classici confuciani, per offrire una versione personale del buddhismo, virato – viene da sospettare – nella teologia perversa delle Lois de l’hospitalité. Ben più neutro sembra essere il punto di vista dell’Ardore, il suo autore ha già sciolto diverse rigidezze filologiche per narrare in modo piano degli dèi greci come degli idoli moderni. Non è comunque lecito relegare il suo palinsesto in sette tomi, ruotanti tutti intorno al tema del sacrificio, sotto la categoria del «sincretismo», ché la fede qui non è in causa.

Alla maniera di una novella, l’incipit rimanda a popoli antichissimi, assai più antichi dei nostri antichi, nella cui civiltà l’invisibile prevaleva sul visibile, mentre la loro vita veniva avvolta da un reticolo fittissimo di riti, di formule, di prescrizioni. Ogni capofamiglia era tenuto a celebrare innumerevoli cerimonie private quotidianamente, a santificare – anche se il termine è approssimativo in questo caso – ogni atomo dello spazio e del tempo. «La loro mente pullulava di immagini» ma non scolpivano né ritagliavano figure del proprio Olimpo. Non lasciarono memoria di conquiste e di imperi, soltanto scritti liturgici, inni, racconti della divinità. Ci si riferisce ai Veda ma sembra che in filigrana appaiano i kabbalisti dell’Europa orientale, il loro arcipelago di comunità di frenetici del culto, di maniaci dell’etichetta religiosa; senza storia né politica. (Quando più avanti ci viene offerta un’altra immagine, quella della comunità ebbra con al centro l’animale legato al palo e forse un uomo, una vittima comunque pronta per il sacrificio, non c’è bisogno di scivolare nella Storia e magari pensare ai notturni tedeschi illuminati dai bagliori preordinati da Leni Rifenstahl, spunta piuttosto un ricordo letterario, il Bergroman di Hermann Broch, «romanzo religioso», secondo il suo autore: in un villaggio tirolese, un medico si astrologa per fermare l’epidemia pagana, per trovare un vaccino amuletico, ma non riesce a interrompere un sacrificio umano che ricompone la comunità; Girard lo chioserebbe facilmente.)

L’ultimo capitolo del libro è un sermone sull’«innominabile attuale» che nomina molte cose perfino troppo attuali, quasi nelle cadenze della moda, messo a confronto con il pensiero Veda. Nell’esposizione il cristianesimo finisce con l’essere un’eco dissonante dei remoti Arya o un’arroganza dei moderni. Si accenna magari al ‘liberarsi dal mondo’ che risuona ossessivo nel pensiero indiano e lo si accosta al motivo della salvezza cristiana, lasciando nel fondo quella radicale differenza tra la liberazione dal mondo e l’evangelica liberazione del mondo. Gli Stoici volevano liberarsi dal corpo, i seguaci di Gesù pretendevano liberare il corpo dalla morte.

Colui che officia il sacrificio vedico identifica morte e tempo, ignora l’eternità come tempo che non distrugge, non brucia. La liturgia cui ci ha abituati e legati il cattolicesimo – quella che incantava Cristina Campo – consacra il tempo, lo sottrae alla corsa furiosa, rispecchia l’eterno presente del Cielo.

Ricorrendo a Guénon, si parla dell’«odio del segreto» su cui si sarebbe fondato l’Occidente. E gli Arcana imperii? Fuori del cerchio magico del mentale, dello spazio gnostico, esiste il cerchio mondano con i nodi gordiani politici dove si andò a incarnare il Dio biblico.

Talvolta si mostra qualche assonanza con il cristianesimo, la «kenosis» paolina per esempio a proposito dello «svuotamento» di Prajapati; stranamente non c’è menzione esplicita delle tante figure kabbaliste che meglio risponderebbero alla cosmologia gnostica. Ed ecco la creazione come artigianato come processo che si fa e si disfa, senza gesto fatale e sovrano, opere demiurgiche dunque, al punto che non ci stonerebbero la rottura dei vasi, i mondi malriusciti e la fuoriuscita del Male.

Come si concilia l’estrema interiorità e la ritualità esasperata che caratterizza i Veda? Il rito, il gesto, la parola sacramentale sono per eccellenza atti esteriori, cui si addice il «mistero palese», una formula goethiana citata nel libro, una cifra dell’Occidente (che potrebbe smentire un’altra volta Guénon). La risposta che ci viene data ha la forma di una clessidra, la parte superiore e quella inferiore sono perciò equivalenti, interiorità ed esteriorità, invisibile e visibile la riempiono, nella strozzatura passa «il granello di senape unpanişadico (ed evangelico)». Su quella strozzatura si fissarono i romantici tedeschi che, portando a termine l’èra protestante, annegavano nell’interiorità e cancellavano definitivamente i riti millenari, anche i pochi sopravvissuti alla Riforma, degenerati nelle cerimonie private, i tè in salottini Biedermeier del Pietismo. Ma poi Novalis sapeva dire squisitamente della nostalgia dell’universo liturgico nella Catholica.

La rilkiana «Herzens Verschwendung», la dissipazione del cuore, rappresentava l’elegante processo di interiorizzazione che spettava al poeta e ai suoi amici. Oggi un simile esercizio si è diffuso a tal punto da risultare ordinario. Si prova imbarazzo per ogni esteriorità, per l’aspetto fisico, per i corpi. Questi non hanno più speranza di redenzione, ci si affanna a cancellarli. La sapienza dell’Adelphiano gli evita certi tranelli mentre l’insipienza degli adepti di un corrivo Oriente nelle periferie del mondo li porta a consolarsi facilmente con lo yoga pubblicizzato alle fermate della metro.

Così in una pagina si ammette, raccontando un mito, quel che nascondono tutti gli spiritualisti in voga: «Gli uomini sarebbero sì diventati immortali, ma senza il corpo. Quelle erano le spoglie per sempre abbandonate a Morte. E questo è il punto che ha sempre reso dubbia ogni promessa di immortalità. Gli uomini infatti preferivano quel loro corpo caduco agli splendori dello spirito. Diffidavano delle anime disincarnate, entità vagamente tediose e sinistre. Così il compromesso tra gli dei e Morte fu percepito come un inganno» (L’ardore, Adelphi, p. 114). Un tale inganno nell’ultimo secolo, cerebrale, spiritico e spiritista, è rimasto di nuovo in ombra, ma un esegeta del Rosa Tiepolo conosce la speranza dei corpi cui la pittura italiana ha assicurato una gloriosa incarnazione.

«Morte non muore», «Morte che sta dentro l’immortale», formule vediche che testimoniano l’arduo confronto con il tema supremo, fanno pensare alle dialettiche piroette di Hegel. Una delle tante intrusioni del nostro tempo, dell’«innominabile attuale» nella lettura di un libro sul pensiero religioso di tremila anni fa. Capiterà all’autore, in un altro punto del racconto, alle prese con i riti dei bramhana, di scrivere del «misero stato» della liturgia cattolica, conseguente al Concilio Vaticano II. Inserisce però tale approdo in un «progressivo, crudele alleggerimento dei gesti e delle parole intrecciate ai gesti» che contrassegnerebbe la storia bimillenaria della Chiesa di Roma. La meticolosa codificazione gregoriana – della liturgia e della musica – o quella tridentina sarebbero passaggi-chiave di una spoliazione del rito? Se i Brahmana sono «uno degli esempi più antichi di prosa indoeuropea», i loro eredi moderni sono allora i sacerdoti universali di luterana ascendenza, gli uomini della strada, i padri di famiglia, i pompieri dell’arte che compiono riti minuziosi per riprodurre la più piatta quotidianità, inconsapevoli di celebrare riti ma fieri di maneggiare la prosa.

L’art pour l’art sarebbe quel che resta del rito, si farebbe forte nel suo campo della formula sacramentale «ex opere operato». Ma audace è l’accostamento: solo nella recente pretesa dell’arte di essere la religione del nostro tempo – e nella conseguente autoproclamazione degli artisti – può darsi una qualche efficacia di simili riti. Forse non metteva in guardia su questo punto il Kafka della Colonia penale, pur seguace di Flaubert, spiegando il tramonto della liturgia estetica?

Certo è che, affine ai riti segreti dell’arte per l’arte, è tutta la religiosità moderna, quel generico sentire che rifiuta la rivelazione e i suoi dogmi per prediligere un rituale confuso, cerimonia celibe, dedicata a un «destinatario assente». Questo sì che risulta discendere dall’operare vedico tradotto dai nostri contemporanei.

Il moderno disprezzo per gli antichi riti sembra produrre il declino estetico: «il gesto libero era sempre più goffo, più impreciso, rispetto al gesto canonico». Ci si riferisce all’ ‘espressionismo’ che ha travolto l’’Occidente da più di un secolo?

La conoscenza di sé degli umani non può essere mai del tutto esaltante: si giubila guardandosi, ma spingendo lo sguardo più a fondo si resta atterriti quando ci si accorge che il sé non è appunto immortale come la 'sostanza degli dèi'. Il culto gnostico della conoscenza dice soltanto la prima parte, contempla la superficie divina degli umani. Incarnare tale superficie divina, tale forma divina: questo è il problema del cristianesimo.

In un altro punto del racconto il tempo, più simile all’eterno, sembra rimandare a un continuo che allontanerebbe la morte. La personificazione della Grande Avversaria riesce a infilarsi soltanto nelle fessure temporali, soltanto dove viene meno la continuità. Alla radice della consacrazione del mondo c’è il tentativo di garantirne il continuum. E il brusio che avvolge la liturgia dei misteri dimostrerebbe la preferenza per l’indistinto.

«Ciò che l’uomo vuole imitare è soprattutto il processo con cui si conquista la divinità. Ed è altamente significativo, che per farlo in modo efficace, l’uomo voglia imitare la ‘forma’ dei gesti compiuti dagli dèi. Questo diventerà, un giorno, il fondamento di quell’attività sovrana che è l’arte» (p. 292). In che giorno la liturgia diventò arte? Non è sospetto che sia così a ridosso del tempo in cui i sarti cominciarono a chiamarsi ‘creatori’ e i senza talento ‘creativi’?

Il gesto rituale è sicuramente imitazione dei gesti divini, ripetizione di quanto fece il Dio autore della Genesi.

Vittima e nudità. Meditando su questa relazione non si sfiora soltanto il fondamento di molti nascondimenti viziosi, si scopre la paura che accompagna il nudo vanamente ricoperto di ideologie libertine, o peggio della naïveté salutista, si ritrova l’essenza dell’arte cristiana. L’animale con gli abiti è buffo, l’essere umano senza vesti è drammatico. Eloquente quella nudità che segna la vittima. Casomai c’è da interrogarsi sui nudi spesso rassicuranti e possenti, che non pare tradiscano riferimenti alla vittima, della pittura rinascimentale.

Ritorna regolarmente in vari passi, pur senza dare troppo nell’occhio, la questione dell’arte, come se questo volume ricorresse al pretesto vedico per affrontare l’immane svolta nella storia umana dell’art pour l’art. Basterebbe ricordare subito che questo salto metafisico ha poi prodotto, nella purezza estetica abbacinante, una paradossale non-arte, resti desolanti di un sacrificio.

La Bibbia si interpone spesso nella ricostruzione del sapere Veda che l’autore mette a fondamento del nostro mondo. «Noè aveva celebrato un olocausto, dove l’animale veniva totalmente bruciato. Più che perdere la vita, scompariva dalla scena terrestre» (p. 328). Sarà per questa ansia di sparire definitivamente, poco sperando nella resurrezione della carne, che in Occidente avanza la pratica di incenerire i cadaveri. Quanto alla parola religiosa scelta per indicare una carneficina laica, non si può non concordare con quanto è scritto nel capitolo finale sull’inquietante tempo attuale: «…quell’impresa nella quale gli Ebrei erano stati le vittime, veniva designata con il termine [olocausto] che gli Ebrei stessi, in quanto officianti, avevano usato per certe cerimonie gradite a Jahvè. L’immensità di quel malinteso fu il segno che la storia era entrata in una fase dove la commistione e l’equivocazione fra l’arcaico e l’attuale si sarebbero spinte molto lontane, più che mai prima» (p. 437). (In questo «Almanacco» non troverete una sola volta riportata la parola biblica per raffigurare uno sterminio moderno e confondere così le cose.)

I riti cosiddetti laici sono il succedaneo di quelli religiosi. I sacrifici per la patria, per le ideologie rivoluzionarie e reazionarie, per la scienza e il progresso prendono il posto di quelli offerti agli dèi. Manca perciò il patto con la divinità, il fumo sale verso un cielo vuoto. Milite ignoto e dio ignoto.

Se il divino «fosse esistente» – si chiede con tono burocratico il resocontista che pur ha trascorso la vita nei pressi del regno sovrumano, a seguirne tracce ed epifanie – come si spiegherebbe la sua accettazione di continui atti cruenti? Girard obietterebbe che soltanto la Bibbia offre una risposta, che lì è scritto che Dio non gradisce quell’ardore che arrostisce talvolta gli umani, che un angelo discese dal cielo per fermare con enfasi l’azione di Abramo. Ma Girard in questo libro è dannato tra coloro che mostrano la «baldanza del demistificatore», frutto della laicizzazione occidentale. La teoria della violenza diffusa che si scatena sul capro espiatorio, l’innocenza della vittima nascosta dai miti e dagli dèi, sarebbe un rifiuto della metafisica, la conseguenza della società secolarizzata. Eppure lo scandalo biblico tra tutte le religioni, già rilevato da Nietzsche, non è confinabile negli ultimi tempi, attraversa i secoli, muove guerra agli dèi e ai miti da millenni. È il partito della vittima ben prima di Girard. Prova a rovesciare la tesi dei Brahmana per cui «il mondo si fonda sul sacrificio che si compie quando il sovrappiù di energie disponibili viene bruciato» (p. 434). L’entropia come metafisica?

Léon Bloy proponeva altre soluzioni del mistero della sostituzione o, meglio, lo inseriva in un diverso contesto. Il romanziere francese scorgeva spesso nei necrologi e nel giro delle amicizie parigine delle figure di mediatori, di intercessori, che offrivano la loro vita affinché qualcun altro restasse ancora su questa terra a redimersi. Ma in tale fede nella sostituzione lo scrittore cattolico seguiva l’insegnamento della Chiesa per cui ogni fedele che sale al cielo diviene avvocato per coloro che stanno quaggiù, e soprattutto i meriti dei singoli sono patrimonio della Chiesa tutta, dei morti e dei vivi, che essa ridistribuisce secondo i bisogni. Per Bloy dunque non solo il sacrificio della vita permetteva altre vite, ma tutti i piccoli sacrifici quotidiani salvavano anime distanti e magari future. Nella modernità sconsacrata, la superstizione immagina gli umani alla mercé di un Moloch ingordo che bisogna placare con vite umane. Si deve mantenere un equilibrio tra i due mondi come ci fosse un malthusianesimo metafisico (gli antropologi dei prossimi millenni interpreteranno in tal senso le montagne di feti abortiti?).

Beninteso, solo nell’accezione redistributiva di Bloy, all’interno di un’unica Chiesa che abbraccia la terra e l’aldilà, la teoria della compensazione universale sfugge alla magia. Nei Vangeli, Gesù ammonisce a non stabilire un rapporto di causa effetto tra le colpe e i mali fisici, tra le colpe e la morte (ed evidentemente anche tra i meriti e la salute): «In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei per avere subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertirete perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertirete perirete tutti allo stesso modo”» (Lc, 13, 1-5) Il medesimo insegnamento si ricava da Gv 9,3. Inoltre, simili testimonianze evangeliche sembrano dissolvere il metodo calvinista di ricavare i segni della benevolenza divina dal buon raccolto ottenuto nella vita. Prima dei Vangeli, il grido di Giobbe esprime lo sdegno per la vita beata concessa su questa terra ai malvagi e le sofferenze imposte a non pochi giusti: non c’è alcun rapporto tra virtù e vantaggio mondano, alcun legame magico.

Perfino l’Islam, che talvolta assume ancora maschere sanguinarie, nasconde sul modello kosher il sangue dell’animale macellato. Incruento appare il mondo post-cristiano che ha bandito il sacrificio pur moltiplicando le vittime. Il Glossatore di riti e miti Veda, arrivato alle ultime pagine del libro, non può non denunciare l’occultamento del supremo sacrificio: «Venne il momento in cui Lutero non riuscì a contenersi e, con la sua connaturale veemenza, dichiarò che intendere la messa come sacrificio era “l’abuso più empio (impiissimus ille abusus)” e ogni insegnamento in tal senso produceva “mostri di empietà (monstra impietatis). Quel momento segnò lo spartiacque, nella storia occidentale del sacrificio. […] Ma altrettanto inflessibile fu la Chiesa romana. Qui non si trattava di deprecare o rivendicare le indulgenze, questione riconducibile a vizi umani, troppo umani. Qui era in gioco l’intera liturgia, quindi l’intelaiatura stessa della vita religiosa. Così, quarantadue anni dopo che Lutero aveva pronunciato le sue terribili parole, il giorno 17 settembre 1562 il Concilio di Trento promulgò nove canoni, il primo dei quali così suonava: “Anatematizando chi dirà che nella messa non si offerisca vero e proprio sacrificio a Dio”, mentre il terzo condannava con puntigliosa fermezza “chi dirà che la messa sia sacrificio di sola lode o ringraziamento o nuda commemorazione del sacrificio della croce, e non propiziatorio, overo giovi solo a chi lo riceve e non si debbe offerire per li vivi, per i morti, per li peccati, pene, satisfazzioni et altri bisogni”. Non era dunque soltanto la negazione del sacrificio a essere rigettata ma anche quella forma di eufemizzazione che consisteva nel trasformare la messa nella commemorazione di un sacrificio. Perché commemorare non è compiere, non appartiene più all’ambito dei gesti che agiscono. Qui riaffiorava, dopo tante dispute vane, l’arcana e arcaica sapienza della Chiesa romana, la sua capacità di riconoscere dove era in gioco un fondamento della sua stessa esistenza» (pp. 446-447). Tocca a un letterato sedotto dai gesti essenziali ricordare quello che i vescovi hanno dimenticato; e citare Stefan Orth che ha concluso una sua recente indagine con queste parole: «molti cattolici sono [ormai] d’accordo con il verdetto e le conclusioni del riformatore Martin Lutero, secondo il quale parlare di sacrificio della messa sarebbe “il più grande e tremendo orrore” e una “maledetta idolatria”». L’allora cardinale Joseph Ratzinger riportava la medesima citazione di Stefan Orth e avvertiva: «non ho certo bisogno di aggiungere che io non appartengo a questi “molti cattolici”» che concordano con Lutero nel rifiuto del sacrificio. Il relatore di riti vedici chiosa a sua volta il teologo Orth: è «come se la pressione del mondo obbligasse la Chiesa a ritirarsi anche da questa dottrina. Senza la quale però l’intero edificio di San Pietro non potrebbe che cedere» (p. 448). Si dà però il caso che adesso anche il papa regnante la pensi così. E a differenza di quanto viene detto nelle pagine successive dell’Ardore, il sacrificio testimoniato dal Vangelo non è relegabile a una «condanna a morte ribadita da un plebiscito». Dopo avere esteso all’estremo i confini della forma sacrificale, la si vuol negare proprio a quella morte in cui la vittima agonizzante parla, ribadisce la sua innocenza in nome di Dio e si offre al Padre per l’intera umanità?

1 commento:

Anonimo ha detto...

Condivido alcune annotazioni in margine al nuovo libro di Roberto Calasso pubblicate su questo Almanacco e mi permetto di aggiungere una piccola chiosa alla illuminante apparizione televisiva dell’autore nel corso di un programma che è il festival del luogo comune e quindi luogo deputato per decretare il successo della merce editoriale in libreria. Premetto che la registrazione dello spettacolo è su Youtube, quindi tutti possono controllare quel che dico. Davanti a un intervistatore che appare sempre in estasi, qualsiasi personaggio incontri, e che non fa domande, limitandosi a mugolii di compiacimento, il nostro sapiente si presentava entrando subito in sintonia con il genere televisivo e con il pubblico della terza rete Rai. Guardandosi bene perciò dal parlare di “sacrificio”, tema centrale del volume, ma per tacito accordo con l’intervistatore lasciato da parte benché assai ghiotto, e accomodandosi a introdurre i Veda come un popolo di tolleranti e pacifisti. Altro che quei bellicosi degli occidentali, razionalisti e cristiani, gli antichi ariani sacrificavano qualche uomo ai loro dèi, scannavano i viventi al palo dei riti ma non erano arroganti come i Montaigne! È vero, niente a che fare con i rinascimentali, per esempio, però somigliano tanto ai nostri contemporanei, almeno nel ritratto che viene fuori nel riassunto televisivo. La loro civiltà risale a 3500 anni fa, “quanto di più distante da noi”, dice a effetto l’autore dell’“Ardore”, ma nella ricostruzione c’è una impressionante aria di famiglia: dallo yoga al trionfo dell’invisibile, dell’immagine astratta, della civiltà di parole ma effimera, che non lascia cose imperiture. A prova della loro eccezionalità si vantano i grandi numeri, le centinaia di milioni di fedeli agli dèi indiani, mentre i greci pagani – si aggiunge – sono scomparsi (o forse si sono trasformati nel cristianesimo). La “boria”, naturalmente, è quella nostra, dice il divulgatore del pensiero Veda, dell’Occidente arrogante (che però è l’unico a parlare dei propri limiti, l’unico capace di autocritica). C’è un solo condottiero al mondo, insiste con le iperboli televisive, che poi si è pentito della guerra vinta e sarebbe il re Ashoka, il quale avrebbe proclamato in un’altra occasione: “dobbiamo rispettare tutte le religioni”, quindi tollerantissimo e perfino sincretista come un qualsiasi funzionario dell’Onu. Perché mai questo sovrano invitava con tanto ardore alla tolleranza? “Perché altrimenti distruggiamo anche la nostra religione”. Non sembra un motivo nobile come gli insegnamenti evangelici sull’amore verso il prossimo, ma tant’è. Quando sullo schermo appare la statua di una fanciulla senza testa, ecco che si ricorda come i giainisti, un tardo derivato del Veda, asceti della non-violenza e vegetariani (musica per l’orecchio del telespettatore del Tre), pur non credendo che una donna potesse avere una illuminazione, concessero in quella occasione, bontà loro, che forse un caso sì remoto si era verificato. Che nessuno si permetta di dipingere negativamente quei sapienti, mica come i barbari ebraico-cristiani oscurantisti, con la loro bigotta religione di schiavi, che fantasticano addirittura di una giovinetta ebrea nel rango di deipara.
(Il libro resta tutt’altra cosa dalla sua réclame televisiva. Ovvero, che bisogna fare per vendere il pensiero arcaico!)
P. V.