venerdì 19 luglio 2013

Tristi arti

~ FLAUBERT E I SIMPSON PER DISTOGLIERE
DA UNA VISITA ALLA BIENNALE,
NONOSTANTE IL PADIGLIONE DI SUA EMINENZA ~

«Il Corriere della Sera» in un sussulto encomiastico ha pubblicato una stroncatura del pensiero critico conservatore, quello che resiste agli ultimi colpi inflitti dalla Modernità (sia pure in modo maldestro per i troppi traumi subìti). E con la confusione delle polemiche giornalistiche si strizzava l’occhio al lettore, cercandone la complicità dal momento che prendeva di mira l’intellettuale (che invero è una figura progressista) e ne sottolineava con facile gioco l’aspetto macchiettistico, il tutto per ripetere quella «glorification historique de tout ce qu’on approuve», come sintetizzava, al solito splendidamente, Flaubert a Louise Colet, una delle prime volte in cui provò a parlare all’amante del suo Dictionnaire des idées reçues. Del resto che altro può fare il più venduto dei giornali italiani se vuole mantenere il suo gigantesco pubblico? Deve appunto dimostrare che «le maggioranze hanno sempre ragione e le minoranze torto», immolando democraticamente «i grandi a tutti gli imbecilli, i martiri a tutti i carnefici, e questo in uno stile spinto all’eccesso» (citiamo sempre della lettera flaubertiana che risale al 1853). Anche nelle pagine culturali si ritrova la stessa «apologia dell’umana canagliata». È ancora il romanziere a spiegarlo: «Così, per letteratura, il che verrà facile, stabilirò [nel Dictionnaire] che il mediocre, risultando alla portata di tutti, è il solo legittimo, e che bisogna dunque disonorare ogni genere di originalità come pericolosa, insensata, ecc.». Figurarsi nelle arti che non si vogliono più belle, nel visivo che pretende tralasciare il legame con i sensi (vista compresa) per saltare nel concettuale: probabilmente Flaubert troverebbe troppo malinconico un dizionario di tali gesti e ancor più delle parole che li commentano.

Se un giornalone ambisce a cancellare ogni soffio critico, un piccolo «Foglio» può rilanciare, replicando ai venditori del progressismo; magari per evitare d’essere accomunato ai cavillosi messi alla berlina dal «Corriere», Alfonso Berardinelli replica concordando con il fastidio provato da tutti nei confronti delle contorsioni intellettuali e perciò taglia corto, forse un po’ troppo corto per i nostri gusti, secondo un metodo leggermente avanguardistico, definitorio, assertivo, proclamante alla maniera dei ‘manifesti’ di un tempo, ma la sostanza è sottoscrivibile: «in materia di belle arti sono così ‘moderno’ da ritenere che dopo il 1960 nessun artista, in nessuna delle arti tradizionali (letteratura, musica classica o d’avanguardia, pittura e scultura) abbia superato un regista come Stanley Kubrick. Ma non riesco a considerare graffiti e tatuaggi come una novità artistica e di costume paragonabili alle avanguardie di primo Novecento, per quanto potessero scivolare ogni tanto in una geniale imbecillità. […] Mi pare per esempio che una serie televisiva come ‘I Simpson’ sia superiore al novanta per cento dell’arte (suppostamente d’élite) offerta al pubblico della Biennale di Venezia».

Discutibile la data cui fa risalire l’inizio del male contemporaneo, discutibile coinvolgere direttamente la letteratura e la musica, ma come non essere d’accordo sul fatto che viviamo in un periodo di arti fragili e tristi in ogni campo, con risultati estetici assai miseri. Checché ne pensi l’Eminenza culturale del Vaticano che ha voluto partecipare alla «canagliata» veneziana, una visita alla Biennale è esercizio frustrante, volto a ingannare i semplici che, convinti dagli altri media della nefandezza televisiva, dello strumento che l’altro ieri li alfabetizzò, accorrono in cerca di nuove forme di pellegrinaggio, di altri feticci da venerare.

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