~ BEN PIÙ
TERRIBILI DELLE DUE GUERRE MONDIALI
SONO I CAMBIAMENTI
CON I QUALI LA TECNOLOGIA
STRAVOLGE LA VITA E LA MORTE ~
Si erano appena consumate le stragi della Guerra mondiale n.2, e già gli schieramenti in campo si andavano riformando nella società civile. Almeno nella parte occidentale d’Europa, ché in quell’altra i carri dell’Armata rossa procedevano alla occupazione militare, ridisegnando le carte geografiche, disdegnando le magne carte costituzionali, reprimendo le chiacchiere parlamentari e private. A Ovest invece si chiacchierava molto. Grandi speranze alimentavano discorsi e scritti che, a seconda delle fedi, puntavano alla vittoria finale planetaria o, tra i vinti, alle vendette della storia, ai corsi e ricorsi. Pareva così che fosse all’ordine del giorno, in Italia come in Francia, il bolscevismo affermatosi in Russia e uscito vincitore al suo primo scontro internazionale, oppure l’americanizzazione definitiva che avrebbe instaurato per sempre la democrazia nell’aristocratica Europa, o il cattolicesimo neobarocco (il primo a dissolversi repente), e più in generale il successo dello scientismo sul pathos cruento del primo Novecento, la pace in terra o la catena delle faide che non doveva finire mai. Qualcuno in Italia si attardava su temi già secolari come monarchia e repubblica mentre nei paesi si radunavano le folle in piazza per assistere ai duelli verbali tra un prete e un professore marxista su ateismo ed esistenza di Dio.
E simili aspettative dominarono i decenni successivi fino a invadere il tardo Novecento, ad apparire come unico orizzonte nel quale ci formammo e maturammo, confondendoci alquanto, noi e le generazioni dei nostri padri e dei nostri figli. Finché quel vociare ormai rituale andò a sbattere sul muro che segnava la frontiera dei secoli, accorgendosi così, quasi tutti, che il Novecento era proprio finito, secolo lunghissimo nella seconda parte, interminabile, ripetitivo, ruminante slogan, strascicando intere esistenze per agitare all’estremo temi di un’ideologia già sepolta a Jalta.
Neppure tra i reduci napoleonici e i loro avversari durò tanto, anzi sarebbe suonato ridicolo in quel secolo borghese e pratico mettere in scena negli anni ottanta dell’Ottocento un antibonapartismo militante o vedere britannici, tedeschi e russi concelebrare solennemente la vittoria di settant’anni prima a Waterloo (e il rientro a Parigi della salma dello sconfitto, vent’anni dopo, era un funerale di fantasmi). Peggio ancora, sarebbe risultato inimmaginabile un giovanotto del secondo Ottocento guardare al proprio mondo con gli occhi del generale còrso. Invece, come se la guerra civile europea del Novecento si fosse conclusa prima del previsto, nel XX secolo avanzato la si proseguiva in altre forme, senza fine, dal momento che la violenza giustizialista non può trovare un aggiustamento, una pace, considerata sempre iniqua. In pieno Novecento, dunque, parve rinascere il romanticismo politico (che non era mai morto, naturalmente), e già nel 1945 cominciarono ad attendersi rinascite d’ogni genere. Una riforma agraria nel Sud d’Italia era vissuta come la palingenesi, una indipendenza nazionale nell’Africa e nell’Asia erano altrettante palingenesi, la democratizzazione forzata d’Europa, con marchio Usa, appariva la più pop e festosa delle palingenesi.
Invece un combattente valoroso, un eroe delle due guerre mondiali – nelle trincee e negli assalti in quella della gioventù; saggio Ulisse che preparava la pace in quella della maturità –, autore di romanzi cavallereschi che incantavano il tempo e lo sospendevano, prosatore classico delle piante dei cristalli e della zoologia studiata a Napoli, memorialista delle innumerevoli battaglie vissute e interprete della nuova violenza, tornato al suo villaggio e dismessa la divisa della Wehrmacht, si applicò a confrontare la propria intelligenza e il proprio sapere con le questioni di quel tempo ma in modo così acuto che oggi siamo noi i primi a sorprenderci: le vecchie palingenesi si sono sgonfiate, il mondo degli storici e degli storicisti, degli statalisti e dei liberali è come scomparso, i temi agitati per più di mezzo secolo rotolano impiccioliti e insensati verso l’abisso del nichilismo, mentre certe pagine di Ernst Jünger trattano di quello che appena comincia a prendere forma davanti ai nostri occhi.
Aveva invero già dato prova di saper decifrare il moderno. I suoi saggi raccolti in Das abenteuerliche Herz, Il cuore avventuroso, 1929, fissavano il mondo nell’epoca della riproducibilità tecnica. Tre anni dopo ritraeva la figura nuova che tutto dominava: Der Arbeiter. Nel dopoguerra prese a riflettere sul ciclo che si apriva – come Vico e come Spengler parlava di cicli – e non soltanto per effetto del conflitto mondiale, ben più ampie erano le voragini che inghiottivano la tradizione, si intravedevano paesaggi ‘nietzscheani’: era la meditazione An der Zeitmauer, Al muro del tempo (lo citeremo nella traduzione Adelphi, 2000). Jünger sintetizzava Spengler: «‘a partire dal Duemila’, dovremo vivere allora in un’epoca di pace mondiale, in città smisurate […]. Per la prima volta ci sarebbe una sola mano a reggere il globo terrestre; non esisterebbero più ‘margini’, nel senso antico» (p. 77). E aggiungeva che non si trattava solo della impressionante accelerazione subìta dalla storia nell’ultimo secolo e mezzo, era inquietante «constatare come questo accumularsi di fatti presenti senza dubbio anche una sfumatura di qualità. Le cose divengono in tale misura sorprendenti che mancano di eguali» (p. 78). Di fronte a questi avvenimenti mai visti, che si accumulano nello spazio ridottissimo di un anno, quando una sola novità vagamente simile richiese decenni, viene il sospetto che la durata stessa cambi misura, che cambi anche il «tempo del destino». In tali prodigiosi mutamenti, Jünger mette in guardia quanti non si rendono conto di quel che sta accadendo, di chi si ostina a sognare il nazionalismo o l’internazionalismo, la lotta di classe o di razza, l’umanesimo integrale o l’economicismo assoluto: non avete notato come «la specie cominci a trasformarsi visibilmente, sia in sé sia nel rapporto fra i sessi, e in un modo inusitato tanto nella diacronica storica quanto nella sincronia etnografica» (pp. 78-79)? Altro che i femminismi folcloristici delle suffragette britanniche rivenduto con la democrazia a tutti i popoli d’Europa. La tecnologia sta modificando ruoli millenari.
Nonostante la versione Adelphi si rifaccia a quella tedesca del 1981, Al muro del tempo fu pubblicato la prima volta nel 1959, scritto tra il 1956 e il 1958. Impressionante: negli anni cinquanta bonari e familistici (almeno in Occidente), mentre i marxisti hegeliani si accanivano con quelli kantiani, i cultori della dialettica svergognavano i neoempiristi, i seguaci del mito erano ghettizzati dai razionalisti, e in quella che era stata la patria dell’arte si giostrava tra neorealisti ed astrattisti, Jünger parlava della procreazione tecnologica, della fecondazione artificiale, dei figli senza padri, della onnipotenza della scienza medica, delle radiazioni, della vita e della morte sottratte alla natura. Erano questioni, dirà, ben più gravi, ben più sconvolgenti delle stragi belliche appena concluse. «Cominciano a diventare ingannevoli anche le parole che costituivano il fondo inalienabile dell’agire umano e dei contratti – come ‘guerra’ e ‘pace’, ‘popoli’, ‘Stato’, ‘famiglia’, ‘libertà’, ‘diritto’» (p. 85). Il racconto storico diviene parzialmente impotente e ha bisogno di appoggiarsi alla teologia, alla mitologia, alla demonologia.
«L’uomo non dovrà forse compiere sacrifici ancora maggiori di un tempo, non sarà costretto a lasciarsi alle spalle qualcosa di ancora più grande – e, da ultimo, la sua stessa umanità?» (p. 100). Senza il compiacimento di Foucault per la dissoluzione dell’uomo nelle pagine finali di Les mots et les choses, il diagnostico tedesco avverte che la nuova èra in cui siamo entrati richiede sacrifici umani.
Le visioni apocalittiche spaventavano e consolavano al contempo. In chiave religiosa, «la prospettiva della ‘fine di tutte le cose’ può suscitare un grande sollievo, un potente senso di liberazione». Per i cristiani significava che il Regno di Dio stava per realizzarsi. Ma «all’atmosfera da fine dei tempi, così come si è sviluppata ai nostri giorni, manca qualsiasi adeguato contrappeso» (pp. 148-149). «Ben triste» è la fine del mondo senza una metafisica, quando la «fantasia è già atrofizzata» (pp. 152-153). In quel tempo, nel nostro tempo, «anche l’arte vedrebbe sciolto quel nodo che la lega alla libertà, potrebbe diventare prodotto della tecnica» (p. 167). Il senso che qui Jünger presagiva – in anni in cui da noi ci si scontrava nelle Osterie di Piazza del Popolo tra i seguaci di Guttuso e quelli di Turcato – adesso è visibile in ogni museo contemporaneo. Ma questo è un discorso che qui merita solo un cenno.
Finalmente il trattato tocca gli argomenti che diverranno politici mezzo secolo più tardi e che allora erano appena noti agli scienziati della ricerca segreta nei laboratori. Facendo tesoro dei primi segni, scrive: tutti questi «esperimenti – trasfusioni, trapianti, trasformazioni – non solo si estendono fino ai rami superiori dell’albero genealogico, ma hanno anche conseguito importanza pratica. Abbiamo giardini che non solo vengono irrorati d’acqua ma altresì irradiati, al fine di produrre mutazioni. Si incomincia a esercitare le dita con la genetica, sia pure da principianti, così come le si esercita sulla tastiera di un pianoforte» (pp. 225-226). Nazisti e bolscevichi avevano già strimpellato su quel pianoforte. Nel dopoguerra sono i primi sintomi di una inquietante tecnologia biologica. Mettendo sotto la lente tali sintomi ne scorge subito le conseguenze per l’uomo e per le concezioni umaniste. «Oggi la ragion di Stato viene considerata qualcosa di abietto, anche là dove la si mette in pratica, mentre alla ragione che si basa sull’esperimento non si pone resistenza alcuna. Oggi la legge ci difende con maggior vigore da una perquisizione domiciliare che non da una radioscopia totale» (p. 228). Soltanto dalla vecchia Chiesa di Roma venne subito, già con Pio XII, un incoraggiamento alla resistenza verso «ciò che è degradante». «La natura è in procinto di infrangere anche le barriere del diritto; sempre più frequenti sono i casi in cui considerazioni tecniche e biologiche prevalgano su quelle giuridiche» (p. 226). Se non fosse stato per la barriera innalzata dal cattolicesimo, in modo particolare da un papa polacco, il diritto si sarebbe limitato a registrare le pretese della ingegneria genetica con argomenti dell’apologetica illuministica che pure appare un oggetto di antiquariato rispetto ai frutti abnormi della scienza attuale. In quegli anni cinquanta in cui si agitavano le bandiere di una libertà ingenua per salvaguardarsi da soprusi ottocenteschi, Jünger mostrava tra i primi le minacce tecnologiche ai nostri corpi.
Quando sopraggiunse la stagione delle interminabili Dionisie, in cui la politica si faceva araldo della sessualità, la parodia colpiva la politica classica, la critica provava a smontare la scienza onnipotente, e i corpi venivano in primo piano, insomma quando ci si volse alla cosiddetta «sfera della vita», al prefisso «bio», piuttosto che al denaro, ai salari o alle proprietà, si sfiorò per forza di cose il tema che intesseva Jünger, ma lo si riportò alla questione delle rivendicazioni (ancora vendette, come vuole l’etimologia), ai pianti sulle discriminazioni e, su questa china, si diventò paradossalmente apostoli della tecnologia, mitizzata come la forza capace di riportare giustizia, di compensare le disparità imposte dalla natura. Erano del resto quelle feste di piazza, quegli assembramenti eccitati, quelle adunanze violente, liturgie senza religione, paganesimi che pretendevano fare a meno del sacrificio, che anzi ambivano a dissacrare, mancando loro proprio la terribilità del sacro.
Nella «terra senza confini», esposta freddamente dallo scrittore tedesco, nella globalizzazione universale dove vengono strappate le radici, gli scienziati costruiscono l’uomo nuovo. Non si tratta però dell’antico sogno dei rivoluzionari, dell’uomo che taglia i ponti con la borghesia, dell’uomo che dimentica le abitudini ciniche dell’arricchimento per affratellarsi a tutti gli sventurati della terra, né dell’eroe che si ribella all’appiattimento democratico e neppure di chi rovescia i millenari valori cristiani per affermare un egoismo dispotico; è l’uomo che viene fecondato artificialmente, che si rende autonomo dalla natura, lo spettro che agita l’Occidente. La paura che provoca è tuttavia compensata dalla autorità prestigiosissima della scienza, per cui l’opposizione che suscita è «più debole e disorientata di quanto si potrebbe supporre». Il nomos stesso, la legge e il legiferare, vi si piega confuso. Eppure «il principio che anima questo nuovo tipo di riproduzione […] è più gravido di conseguenze, per il nostro destino, di quanto non lo siano state due guerre mondiali, prodottesi nel medesimo arco di tempo in cui si cominciò a praticare» la fecondazione artificiale (p. 231). Mezzo secolo dopo, cioè adesso, quando già i bambini che frequentano la scuola sono talvolta un frutto di tale intervento, i libri di storia e gli insegnanti la fanno lunga sulle guerre e si guardano bene dal mettere al centro di questa nostra epoca la questione della vita e della morte trasformate dalla tecnologia. Un tabù sotterraneo magari impedisce di parlarne, più probabilmente manca la capacità di percepire il colpo decisivo inferto all’umanità da un simile mutamento della specie.
Non è solo un problema di stato civile, di certificati, benché su quelle carte comincino ad apparire forti contraddizioni. Sensibili ai diritti di tutti, compresi quelli assai dubbi degli animali, non ci accorgiamo delle scandalose diseguaglianze dell’epoca. «Il diritto ad avere un padre – spiega Jünger – precede quanto si ha il diritto di esigere da un padre. Un diritto questo, sancito non solo dalla legge ma anche dalla natura. […] a essere in gioco qui non sono né bontà né cattiveria, né legittimità né illegittimità del padre; a essere in gioco sono, in assoluto, il padre e il suo atto di procreazione» (p. 234). In luogo delle leggi di natura, la tirannia dei desideri senza alcun freno, dell’egoismo individuale che gioca con i possenti strumenti degli scienziati (messi magari a disposizione dalla sanità pubblica). Se finora si nasceva dall’amore o quanto meno dall’eros, adesso è la volta della sperimentazione al servizio del desiderio. Pare poco generoso verso i bisogni fisici e sentimentali degli adulti solitari riflettere su questi temi: «ogni essere umano vuol sapere da chi discende. […] Negargli l’informazione o, addirittura, dargliene una falsa non è lecito» (p. 234). Quanti osano ripetere simili osservazioni all’amica che ha deciso di farsi inseminare da uno sperma senza uomo o alla coppia di maschi che schiavizzano un utero per fecondare un essere umano figlio del capriccio?
Jünger non era un esteta del trionfo del nulla, non raccontava, a maggior gloria dell’espressionismo, il romanzo del fenotipo e i bagliori che fuoriescono dai laboratori di genetica, come il medico-poeta Gottfried Benn, e non era neppure un profeta, non chiamava alla conversione (profeta era Ivan Illich), non si poneva problemi morali, riteneva che spettasse al saggio annunciare quanto stava accadendo, descrivere l’«inquietante» che scuoteva il genere umano, il giudizio sarebbe venuto successivamente. Ora però il mondo preferisce evitare anche la descrizione del mutamento genetico, limitandosi a celebrare la licenza sconfinata resa possibile dall’artificiale.
Osservando pittura e scultura del suo tempo, Jünger sapeva cogliere quello che sfuggiva alla critica fatua: «nell’arte contemporanea l’avversione nei confronti della testa ricorre con tale frequenza che è lecito annoverarla tra i sintomi generali» (p. 239). Anche qui insomma si riverberava il disumano, l’orrido dell’epoca tecnologica.
Si erano appena consumate le stragi della Guerra mondiale n.2, e già gli schieramenti in campo si andavano riformando nella società civile. Almeno nella parte occidentale d’Europa, ché in quell’altra i carri dell’Armata rossa procedevano alla occupazione militare, ridisegnando le carte geografiche, disdegnando le magne carte costituzionali, reprimendo le chiacchiere parlamentari e private. A Ovest invece si chiacchierava molto. Grandi speranze alimentavano discorsi e scritti che, a seconda delle fedi, puntavano alla vittoria finale planetaria o, tra i vinti, alle vendette della storia, ai corsi e ricorsi. Pareva così che fosse all’ordine del giorno, in Italia come in Francia, il bolscevismo affermatosi in Russia e uscito vincitore al suo primo scontro internazionale, oppure l’americanizzazione definitiva che avrebbe instaurato per sempre la democrazia nell’aristocratica Europa, o il cattolicesimo neobarocco (il primo a dissolversi repente), e più in generale il successo dello scientismo sul pathos cruento del primo Novecento, la pace in terra o la catena delle faide che non doveva finire mai. Qualcuno in Italia si attardava su temi già secolari come monarchia e repubblica mentre nei paesi si radunavano le folle in piazza per assistere ai duelli verbali tra un prete e un professore marxista su ateismo ed esistenza di Dio.
E simili aspettative dominarono i decenni successivi fino a invadere il tardo Novecento, ad apparire come unico orizzonte nel quale ci formammo e maturammo, confondendoci alquanto, noi e le generazioni dei nostri padri e dei nostri figli. Finché quel vociare ormai rituale andò a sbattere sul muro che segnava la frontiera dei secoli, accorgendosi così, quasi tutti, che il Novecento era proprio finito, secolo lunghissimo nella seconda parte, interminabile, ripetitivo, ruminante slogan, strascicando intere esistenze per agitare all’estremo temi di un’ideologia già sepolta a Jalta.
Neppure tra i reduci napoleonici e i loro avversari durò tanto, anzi sarebbe suonato ridicolo in quel secolo borghese e pratico mettere in scena negli anni ottanta dell’Ottocento un antibonapartismo militante o vedere britannici, tedeschi e russi concelebrare solennemente la vittoria di settant’anni prima a Waterloo (e il rientro a Parigi della salma dello sconfitto, vent’anni dopo, era un funerale di fantasmi). Peggio ancora, sarebbe risultato inimmaginabile un giovanotto del secondo Ottocento guardare al proprio mondo con gli occhi del generale còrso. Invece, come se la guerra civile europea del Novecento si fosse conclusa prima del previsto, nel XX secolo avanzato la si proseguiva in altre forme, senza fine, dal momento che la violenza giustizialista non può trovare un aggiustamento, una pace, considerata sempre iniqua. In pieno Novecento, dunque, parve rinascere il romanticismo politico (che non era mai morto, naturalmente), e già nel 1945 cominciarono ad attendersi rinascite d’ogni genere. Una riforma agraria nel Sud d’Italia era vissuta come la palingenesi, una indipendenza nazionale nell’Africa e nell’Asia erano altrettante palingenesi, la democratizzazione forzata d’Europa, con marchio Usa, appariva la più pop e festosa delle palingenesi.
Invece un combattente valoroso, un eroe delle due guerre mondiali – nelle trincee e negli assalti in quella della gioventù; saggio Ulisse che preparava la pace in quella della maturità –, autore di romanzi cavallereschi che incantavano il tempo e lo sospendevano, prosatore classico delle piante dei cristalli e della zoologia studiata a Napoli, memorialista delle innumerevoli battaglie vissute e interprete della nuova violenza, tornato al suo villaggio e dismessa la divisa della Wehrmacht, si applicò a confrontare la propria intelligenza e il proprio sapere con le questioni di quel tempo ma in modo così acuto che oggi siamo noi i primi a sorprenderci: le vecchie palingenesi si sono sgonfiate, il mondo degli storici e degli storicisti, degli statalisti e dei liberali è come scomparso, i temi agitati per più di mezzo secolo rotolano impiccioliti e insensati verso l’abisso del nichilismo, mentre certe pagine di Ernst Jünger trattano di quello che appena comincia a prendere forma davanti ai nostri occhi.
Aveva invero già dato prova di saper decifrare il moderno. I suoi saggi raccolti in Das abenteuerliche Herz, Il cuore avventuroso, 1929, fissavano il mondo nell’epoca della riproducibilità tecnica. Tre anni dopo ritraeva la figura nuova che tutto dominava: Der Arbeiter. Nel dopoguerra prese a riflettere sul ciclo che si apriva – come Vico e come Spengler parlava di cicli – e non soltanto per effetto del conflitto mondiale, ben più ampie erano le voragini che inghiottivano la tradizione, si intravedevano paesaggi ‘nietzscheani’: era la meditazione An der Zeitmauer, Al muro del tempo (lo citeremo nella traduzione Adelphi, 2000). Jünger sintetizzava Spengler: «‘a partire dal Duemila’, dovremo vivere allora in un’epoca di pace mondiale, in città smisurate […]. Per la prima volta ci sarebbe una sola mano a reggere il globo terrestre; non esisterebbero più ‘margini’, nel senso antico» (p. 77). E aggiungeva che non si trattava solo della impressionante accelerazione subìta dalla storia nell’ultimo secolo e mezzo, era inquietante «constatare come questo accumularsi di fatti presenti senza dubbio anche una sfumatura di qualità. Le cose divengono in tale misura sorprendenti che mancano di eguali» (p. 78). Di fronte a questi avvenimenti mai visti, che si accumulano nello spazio ridottissimo di un anno, quando una sola novità vagamente simile richiese decenni, viene il sospetto che la durata stessa cambi misura, che cambi anche il «tempo del destino». In tali prodigiosi mutamenti, Jünger mette in guardia quanti non si rendono conto di quel che sta accadendo, di chi si ostina a sognare il nazionalismo o l’internazionalismo, la lotta di classe o di razza, l’umanesimo integrale o l’economicismo assoluto: non avete notato come «la specie cominci a trasformarsi visibilmente, sia in sé sia nel rapporto fra i sessi, e in un modo inusitato tanto nella diacronica storica quanto nella sincronia etnografica» (pp. 78-79)? Altro che i femminismi folcloristici delle suffragette britanniche rivenduto con la democrazia a tutti i popoli d’Europa. La tecnologia sta modificando ruoli millenari.
Nonostante la versione Adelphi si rifaccia a quella tedesca del 1981, Al muro del tempo fu pubblicato la prima volta nel 1959, scritto tra il 1956 e il 1958. Impressionante: negli anni cinquanta bonari e familistici (almeno in Occidente), mentre i marxisti hegeliani si accanivano con quelli kantiani, i cultori della dialettica svergognavano i neoempiristi, i seguaci del mito erano ghettizzati dai razionalisti, e in quella che era stata la patria dell’arte si giostrava tra neorealisti ed astrattisti, Jünger parlava della procreazione tecnologica, della fecondazione artificiale, dei figli senza padri, della onnipotenza della scienza medica, delle radiazioni, della vita e della morte sottratte alla natura. Erano questioni, dirà, ben più gravi, ben più sconvolgenti delle stragi belliche appena concluse. «Cominciano a diventare ingannevoli anche le parole che costituivano il fondo inalienabile dell’agire umano e dei contratti – come ‘guerra’ e ‘pace’, ‘popoli’, ‘Stato’, ‘famiglia’, ‘libertà’, ‘diritto’» (p. 85). Il racconto storico diviene parzialmente impotente e ha bisogno di appoggiarsi alla teologia, alla mitologia, alla demonologia.
«L’uomo non dovrà forse compiere sacrifici ancora maggiori di un tempo, non sarà costretto a lasciarsi alle spalle qualcosa di ancora più grande – e, da ultimo, la sua stessa umanità?» (p. 100). Senza il compiacimento di Foucault per la dissoluzione dell’uomo nelle pagine finali di Les mots et les choses, il diagnostico tedesco avverte che la nuova èra in cui siamo entrati richiede sacrifici umani.
Le visioni apocalittiche spaventavano e consolavano al contempo. In chiave religiosa, «la prospettiva della ‘fine di tutte le cose’ può suscitare un grande sollievo, un potente senso di liberazione». Per i cristiani significava che il Regno di Dio stava per realizzarsi. Ma «all’atmosfera da fine dei tempi, così come si è sviluppata ai nostri giorni, manca qualsiasi adeguato contrappeso» (pp. 148-149). «Ben triste» è la fine del mondo senza una metafisica, quando la «fantasia è già atrofizzata» (pp. 152-153). In quel tempo, nel nostro tempo, «anche l’arte vedrebbe sciolto quel nodo che la lega alla libertà, potrebbe diventare prodotto della tecnica» (p. 167). Il senso che qui Jünger presagiva – in anni in cui da noi ci si scontrava nelle Osterie di Piazza del Popolo tra i seguaci di Guttuso e quelli di Turcato – adesso è visibile in ogni museo contemporaneo. Ma questo è un discorso che qui merita solo un cenno.
Finalmente il trattato tocca gli argomenti che diverranno politici mezzo secolo più tardi e che allora erano appena noti agli scienziati della ricerca segreta nei laboratori. Facendo tesoro dei primi segni, scrive: tutti questi «esperimenti – trasfusioni, trapianti, trasformazioni – non solo si estendono fino ai rami superiori dell’albero genealogico, ma hanno anche conseguito importanza pratica. Abbiamo giardini che non solo vengono irrorati d’acqua ma altresì irradiati, al fine di produrre mutazioni. Si incomincia a esercitare le dita con la genetica, sia pure da principianti, così come le si esercita sulla tastiera di un pianoforte» (pp. 225-226). Nazisti e bolscevichi avevano già strimpellato su quel pianoforte. Nel dopoguerra sono i primi sintomi di una inquietante tecnologia biologica. Mettendo sotto la lente tali sintomi ne scorge subito le conseguenze per l’uomo e per le concezioni umaniste. «Oggi la ragion di Stato viene considerata qualcosa di abietto, anche là dove la si mette in pratica, mentre alla ragione che si basa sull’esperimento non si pone resistenza alcuna. Oggi la legge ci difende con maggior vigore da una perquisizione domiciliare che non da una radioscopia totale» (p. 228). Soltanto dalla vecchia Chiesa di Roma venne subito, già con Pio XII, un incoraggiamento alla resistenza verso «ciò che è degradante». «La natura è in procinto di infrangere anche le barriere del diritto; sempre più frequenti sono i casi in cui considerazioni tecniche e biologiche prevalgano su quelle giuridiche» (p. 226). Se non fosse stato per la barriera innalzata dal cattolicesimo, in modo particolare da un papa polacco, il diritto si sarebbe limitato a registrare le pretese della ingegneria genetica con argomenti dell’apologetica illuministica che pure appare un oggetto di antiquariato rispetto ai frutti abnormi della scienza attuale. In quegli anni cinquanta in cui si agitavano le bandiere di una libertà ingenua per salvaguardarsi da soprusi ottocenteschi, Jünger mostrava tra i primi le minacce tecnologiche ai nostri corpi.
Quando sopraggiunse la stagione delle interminabili Dionisie, in cui la politica si faceva araldo della sessualità, la parodia colpiva la politica classica, la critica provava a smontare la scienza onnipotente, e i corpi venivano in primo piano, insomma quando ci si volse alla cosiddetta «sfera della vita», al prefisso «bio», piuttosto che al denaro, ai salari o alle proprietà, si sfiorò per forza di cose il tema che intesseva Jünger, ma lo si riportò alla questione delle rivendicazioni (ancora vendette, come vuole l’etimologia), ai pianti sulle discriminazioni e, su questa china, si diventò paradossalmente apostoli della tecnologia, mitizzata come la forza capace di riportare giustizia, di compensare le disparità imposte dalla natura. Erano del resto quelle feste di piazza, quegli assembramenti eccitati, quelle adunanze violente, liturgie senza religione, paganesimi che pretendevano fare a meno del sacrificio, che anzi ambivano a dissacrare, mancando loro proprio la terribilità del sacro.
Nella «terra senza confini», esposta freddamente dallo scrittore tedesco, nella globalizzazione universale dove vengono strappate le radici, gli scienziati costruiscono l’uomo nuovo. Non si tratta però dell’antico sogno dei rivoluzionari, dell’uomo che taglia i ponti con la borghesia, dell’uomo che dimentica le abitudini ciniche dell’arricchimento per affratellarsi a tutti gli sventurati della terra, né dell’eroe che si ribella all’appiattimento democratico e neppure di chi rovescia i millenari valori cristiani per affermare un egoismo dispotico; è l’uomo che viene fecondato artificialmente, che si rende autonomo dalla natura, lo spettro che agita l’Occidente. La paura che provoca è tuttavia compensata dalla autorità prestigiosissima della scienza, per cui l’opposizione che suscita è «più debole e disorientata di quanto si potrebbe supporre». Il nomos stesso, la legge e il legiferare, vi si piega confuso. Eppure «il principio che anima questo nuovo tipo di riproduzione […] è più gravido di conseguenze, per il nostro destino, di quanto non lo siano state due guerre mondiali, prodottesi nel medesimo arco di tempo in cui si cominciò a praticare» la fecondazione artificiale (p. 231). Mezzo secolo dopo, cioè adesso, quando già i bambini che frequentano la scuola sono talvolta un frutto di tale intervento, i libri di storia e gli insegnanti la fanno lunga sulle guerre e si guardano bene dal mettere al centro di questa nostra epoca la questione della vita e della morte trasformate dalla tecnologia. Un tabù sotterraneo magari impedisce di parlarne, più probabilmente manca la capacità di percepire il colpo decisivo inferto all’umanità da un simile mutamento della specie.
Non è solo un problema di stato civile, di certificati, benché su quelle carte comincino ad apparire forti contraddizioni. Sensibili ai diritti di tutti, compresi quelli assai dubbi degli animali, non ci accorgiamo delle scandalose diseguaglianze dell’epoca. «Il diritto ad avere un padre – spiega Jünger – precede quanto si ha il diritto di esigere da un padre. Un diritto questo, sancito non solo dalla legge ma anche dalla natura. […] a essere in gioco qui non sono né bontà né cattiveria, né legittimità né illegittimità del padre; a essere in gioco sono, in assoluto, il padre e il suo atto di procreazione» (p. 234). In luogo delle leggi di natura, la tirannia dei desideri senza alcun freno, dell’egoismo individuale che gioca con i possenti strumenti degli scienziati (messi magari a disposizione dalla sanità pubblica). Se finora si nasceva dall’amore o quanto meno dall’eros, adesso è la volta della sperimentazione al servizio del desiderio. Pare poco generoso verso i bisogni fisici e sentimentali degli adulti solitari riflettere su questi temi: «ogni essere umano vuol sapere da chi discende. […] Negargli l’informazione o, addirittura, dargliene una falsa non è lecito» (p. 234). Quanti osano ripetere simili osservazioni all’amica che ha deciso di farsi inseminare da uno sperma senza uomo o alla coppia di maschi che schiavizzano un utero per fecondare un essere umano figlio del capriccio?
Jünger non era un esteta del trionfo del nulla, non raccontava, a maggior gloria dell’espressionismo, il romanzo del fenotipo e i bagliori che fuoriescono dai laboratori di genetica, come il medico-poeta Gottfried Benn, e non era neppure un profeta, non chiamava alla conversione (profeta era Ivan Illich), non si poneva problemi morali, riteneva che spettasse al saggio annunciare quanto stava accadendo, descrivere l’«inquietante» che scuoteva il genere umano, il giudizio sarebbe venuto successivamente. Ora però il mondo preferisce evitare anche la descrizione del mutamento genetico, limitandosi a celebrare la licenza sconfinata resa possibile dall’artificiale.
Osservando pittura e scultura del suo tempo, Jünger sapeva cogliere quello che sfuggiva alla critica fatua: «nell’arte contemporanea l’avversione nei confronti della testa ricorre con tale frequenza che è lecito annoverarla tra i sintomi generali» (p. 239). Anche qui insomma si riverberava il disumano, l’orrido dell’epoca tecnologica.
1 commento:
Peccato non poter sapere se e come Junger oggi avrebbe giudicato lo stato delle cose. Di certo la tecnologia copre l’orrido sul quale pericolosamente si sporge, ci anestetizza riempiendo con promesse di felicità surrogata il vuoto “senza confini” lasciato dal cristianesimo frettolosamente posto in liquidazione.
In effetti, andiamo elemosinando felicità con l’angoscia dell’avaro che crede di averne sempre troppo poca. Lo diceva nell’800 Schopenhauer, uno ossessionato dal bicchiere mezzo vuoto! Nel 2015 è sotto il tavolo riccamente imbandito della tecnoscienza biomedica che ci tocca strisciare e ringraziare, per raccogliere le briciole di qualcosa che ci viene autenticato (con una leggerezza davvero inquietante) come un radioso futuro libero e felice.
Cattolici laici col cappello in mano (quelli che contano), da decenni chiediamo scusa e parliamo d’altro. E sì che, già nel ’63, Fellini metteva in bocca a Tito Masini (il Cardinale confessore di Guido Anselmi) quella bellissima lezione teologica del “…Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?”.
Ma oggi anche i Cardinali sono stati anestetizzati, hanno cambiato linguaggio e forse anche (Dio ce ne scampi) teologia.
Posta un commento