LE
IMMAGINI E BENEDICESSIMO I SENSI ~
Se il cristianesimo è tra gli ‘inventori’ del tempo lineare, nel segno dell’attesa lancinante del ritorno di Cristo, c’è tuttavia in questa religione un tempo ciclico, ed è quello dove le feste ritornano, e con esse la divinità si manifesta nelle sue distinte forme, e con esse i fedeli la celebrano nelle sue distinte forme, tali feste coincidendo con le stagioni dell’anno e con le ore del sole; talvolta, come per stabilire dove cada la Pasqua, anche con le facce, le fasi, della luna. L’anno liturgico è frutto di questa concezione. Quando, come di recente accade, la liturgia viene umiliata, sottoposta cioè all’attualità più caduca, perde quel confortevole simbolismo dove anche la natura e le sue metamorfosi partecipano al sacro calendario. Però il risveglio di primavera, il rifiorire della natura nei giorni della Pasqua, è appena un ornamento armonico, una bella illustrazione del mistero, un privilegio del vecchio continente dove il cristianesimo elaborò il suo messaggio, ché l’evento pasquale si rinnova pienamente anche tra i ghiacci perenni, anche agli antipodi del nostro emisfero.
Nella Settimana santa appena conclusa, in quella che si sta svolgendo nel culto ortodosso, nel cuore cioè dell’anno liturgico cristiano, si addensano i simboli e viene a congiungersi l’Antico e il Nuovo Testamento, l’annuncio messianico, la morte del Dio fatto uomo, la vittoria sulla morte del Dio fatto uomo. Si muore un po’ tutti nel triduo pasquale, si sperimenta un corpo a corpo con la morte, insieme a Cristo si vince il duello. Ecco un tempo ciclico che non somiglia all’eternità malvagia immaginata dai pagani. La luce pasquale è quella lietissima che, come nei migliori sogni degli umani, si accende nelle paradisiache scene di Dante e del pittore domenicano, dell’Angelico, con i giardini di quaggiù che si perfezionano nel cielo, là dove si viene accolti da una folla di angeli e beati, musica circolare, contrappunti vertiginosi, sante e santi bellissimi, toni soavi e discorsi mirabili, acuti ma senza alcunché di oscuro, e incontri, continui incontri di antenati, fino a gradi sconosciuti, in tutti ritrovando però un segno, una somiglianza commovente, se la parola non fosse lassù inopportuna, comportando lacrime sia pure figurate… La festa di Pasqua apre a tali mondi. Vane le critiche di parte bizantina alla liturgia cattolica per un presunto ‘eccesso di dolorismo’. C’è il dolore e c’è la gloria, il modo minore e il modo maggiore.
La mania attuale di smussare ogni asperità della religione, la rilettura del Vangelo «alla luce del mondo», in luogo del confronto tra la luce evangelica e le tenebre del mondo, distrugge anche quegli elementi che proprio i mondani cercano invano: il riflesso metafisico nell’universo corporale. Digiuni e atti penitenziali, esercizi ascetici, frugalità che si alterna alla pienezza, astinenze dalle carni per potere consumare in altri giorni gli agnelli senza sentimento di colpevolezza, colore viola e colore bianco. Tempi di mortificazione e tempi di resurrezione. Anche i bambini nei loro giochi si impongono la penitenza per compensare l’errore, il peccato che ha violato l’ordine ludico. Nulla osterebbe, neppure le disposizioni postconciliari in proposito, che la vecchia usanza di velare le immagini venisse ripresa anche nelle chiese dove si ha in uggia il latino. Sarebbe come minimo un’opera di bonifica. Pierre Klossowski prima di tutti, aveva scritto che l’iconoclastia contemporanea non distrugge le immagini, le moltiplica all’infinito. Avrebbe aggiunto Baudrillard: ne distrugge perciò il senso. Una pausa nell’anno, nella nostra fantasia, nella nostra percezione, sarebbe allora un rito collettivo in grado di aiutare a cogliere il senso della pittura e della scultura occidentali, a marcarne i confini. Forse tornerebbe utile anche agli illustrissimi porporati che preannunciano padiglioni vaticani per le fiere dell’arte aniconica, quasi si fosse obbligati ai precetti veterotestamentari e coranici, dimentichi di quanto hanno predicato loro stessi sulla centralità del corpo nel cattolicesimo.
Tutto l’anno ormai l’immagine viene ferita e offesa dalle pratiche estetiche contemporanee, il rito cattolico propone invece una cancellazione provvisoria, penitenziale, limitata ai giorni del massimo lutto, affinché se ne goda con maggiore consapevolezza nella gioia pasquale. E così per la musica: le armonie e le polifonie e la sonorità, perfino quelle delle campane e dei campanelli, si sospendono il giovedì santo per riapparire nella notte del sabato, rompendo finalmente quel lungo e terribile silenzio. Nel nichilismo della musica colta di oggi il silenzio si impone sempre, eterno lutto dei sensi, il cattolicesimo lo trasforma in un esercizio spirituale, in un'opera di misericordia, in una meditazione sul vuoto che ci attornia e su come l’arte ci possa ancora consolare.
Se il cristianesimo è tra gli ‘inventori’ del tempo lineare, nel segno dell’attesa lancinante del ritorno di Cristo, c’è tuttavia in questa religione un tempo ciclico, ed è quello dove le feste ritornano, e con esse la divinità si manifesta nelle sue distinte forme, e con esse i fedeli la celebrano nelle sue distinte forme, tali feste coincidendo con le stagioni dell’anno e con le ore del sole; talvolta, come per stabilire dove cada la Pasqua, anche con le facce, le fasi, della luna. L’anno liturgico è frutto di questa concezione. Quando, come di recente accade, la liturgia viene umiliata, sottoposta cioè all’attualità più caduca, perde quel confortevole simbolismo dove anche la natura e le sue metamorfosi partecipano al sacro calendario. Però il risveglio di primavera, il rifiorire della natura nei giorni della Pasqua, è appena un ornamento armonico, una bella illustrazione del mistero, un privilegio del vecchio continente dove il cristianesimo elaborò il suo messaggio, ché l’evento pasquale si rinnova pienamente anche tra i ghiacci perenni, anche agli antipodi del nostro emisfero.
Nella Settimana santa appena conclusa, in quella che si sta svolgendo nel culto ortodosso, nel cuore cioè dell’anno liturgico cristiano, si addensano i simboli e viene a congiungersi l’Antico e il Nuovo Testamento, l’annuncio messianico, la morte del Dio fatto uomo, la vittoria sulla morte del Dio fatto uomo. Si muore un po’ tutti nel triduo pasquale, si sperimenta un corpo a corpo con la morte, insieme a Cristo si vince il duello. Ecco un tempo ciclico che non somiglia all’eternità malvagia immaginata dai pagani. La luce pasquale è quella lietissima che, come nei migliori sogni degli umani, si accende nelle paradisiache scene di Dante e del pittore domenicano, dell’Angelico, con i giardini di quaggiù che si perfezionano nel cielo, là dove si viene accolti da una folla di angeli e beati, musica circolare, contrappunti vertiginosi, sante e santi bellissimi, toni soavi e discorsi mirabili, acuti ma senza alcunché di oscuro, e incontri, continui incontri di antenati, fino a gradi sconosciuti, in tutti ritrovando però un segno, una somiglianza commovente, se la parola non fosse lassù inopportuna, comportando lacrime sia pure figurate… La festa di Pasqua apre a tali mondi. Vane le critiche di parte bizantina alla liturgia cattolica per un presunto ‘eccesso di dolorismo’. C’è il dolore e c’è la gloria, il modo minore e il modo maggiore.
La mania attuale di smussare ogni asperità della religione, la rilettura del Vangelo «alla luce del mondo», in luogo del confronto tra la luce evangelica e le tenebre del mondo, distrugge anche quegli elementi che proprio i mondani cercano invano: il riflesso metafisico nell’universo corporale. Digiuni e atti penitenziali, esercizi ascetici, frugalità che si alterna alla pienezza, astinenze dalle carni per potere consumare in altri giorni gli agnelli senza sentimento di colpevolezza, colore viola e colore bianco. Tempi di mortificazione e tempi di resurrezione. Anche i bambini nei loro giochi si impongono la penitenza per compensare l’errore, il peccato che ha violato l’ordine ludico. Nulla osterebbe, neppure le disposizioni postconciliari in proposito, che la vecchia usanza di velare le immagini venisse ripresa anche nelle chiese dove si ha in uggia il latino. Sarebbe come minimo un’opera di bonifica. Pierre Klossowski prima di tutti, aveva scritto che l’iconoclastia contemporanea non distrugge le immagini, le moltiplica all’infinito. Avrebbe aggiunto Baudrillard: ne distrugge perciò il senso. Una pausa nell’anno, nella nostra fantasia, nella nostra percezione, sarebbe allora un rito collettivo in grado di aiutare a cogliere il senso della pittura e della scultura occidentali, a marcarne i confini. Forse tornerebbe utile anche agli illustrissimi porporati che preannunciano padiglioni vaticani per le fiere dell’arte aniconica, quasi si fosse obbligati ai precetti veterotestamentari e coranici, dimentichi di quanto hanno predicato loro stessi sulla centralità del corpo nel cattolicesimo.
Tutto l’anno ormai l’immagine viene ferita e offesa dalle pratiche estetiche contemporanee, il rito cattolico propone invece una cancellazione provvisoria, penitenziale, limitata ai giorni del massimo lutto, affinché se ne goda con maggiore consapevolezza nella gioia pasquale. E così per la musica: le armonie e le polifonie e la sonorità, perfino quelle delle campane e dei campanelli, si sospendono il giovedì santo per riapparire nella notte del sabato, rompendo finalmente quel lungo e terribile silenzio. Nel nichilismo della musica colta di oggi il silenzio si impone sempre, eterno lutto dei sensi, il cattolicesimo lo trasforma in un esercizio spirituale, in un'opera di misericordia, in una meditazione sul vuoto che ci attornia e su come l’arte ci possa ancora consolare.
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