AL POSTO DEI «MERCENARI DELLA
GLEBA»
NEI MÉMOIRES DI CHATEAUBRIAND ~
Era il 1841 quando, nel XLIII Livre dei Mémoires
d’Outre-tombe, Chateaubriand muoveva ai progressisti alcune obiezioni che paiono abbozzare
i caratteri del mondo attuale o quantomeno le sue tendenze più perniciose. Appena
delle domande appuntate, delle frecce di realismo che colpiscono le utopie
uscite dalla Rivoluzione e alla base della futura ideologia di sinistra. Un titoletto
dei capitoli da cui si cita è «L’avvenire - Difficoltà di comprenderlo». Lui lo aveva afferrato bene, lui
«l’incantatore», come lo chiamavano in famiglia, non si era lasciato incantare
dalle promesse della sua epoca. Gli tornava insistentemente nella mente la
vecchia madre in prigione, il fratello e la cognata che finiscono sul patibolo,
ghigliottinati, la morte crudele dei familiari dunque, le teste che rotolano per la
gloria del progresso impediscono di credere alle «magnifiche sorti» che ancora
abbindolano i nostri contemporanei. Una curiosità: il Visconte citava l’esempio
di Omero per esaltare la individualità letteraria quando i suoi confratelli
romantici ricorrevano ai poemi omerici come a una testimonianza eccelsa della
creatività collettiva.
Quando la macchina a vapore sarà
perfezionata, quando unita al telegrafo e alla ferrovia, avrà fatto sparire le
distanze, non saranno solo le merci a viaggiare ma anche le idee. […] Supponete
che le braccia siano condannate al riposo per la molteplicità e varietà delle
macchine; ammettete che un mercenario unico – la materia – rimpiazzi i
mercenari della gleba e della domesticità, che ne farete allora del genere
umano disoccupato? […] L’uomo è meno schiavo dei suoi sudori che dei suoi
pensieri. […] La percezione del bene e del male si oscura man mano che si
rischiara l’intelligenza. […] Il mondo attuale, il mondo senza autorità
consacrata sembra posto tra due impossibilità: l’impossibilità del passato e
l’impossibilità dell’avvenire. […] Nel mondo materiale gli uomini si associano per
il lavoro, una moltitudine arriva prima, e attraverso strade diverse, alle cose
che cerca; delle masse di individui innalzeranno le piramidi […]. Ma nel mondo
morale accade forse la stessa cosa? Si coalizzino pure mille cervelli, non
comporranno mai il capolavoro che esce dalla testa di Omero [...]. La follia
del momento è di arrivare alla unità dei popoli e di trasformare l’intera
specie umana in un solo uomo, e va bene; ma una volta acquisite le facoltà
generali non verranno forse a mancare i sentimenti privati? Addio alle dolcezze
domestiche. Addio agli incanti della famiglia […] L’uomo non ha bisogno di
viaggiare per crescere, già porta dentro di sé l’immensità. […] chi non
possiede dentro di sé questa melodia, la cercherà invano nell’universo.
Sedetevi sul tronco d’albero abbattuto in fondo al bosco: se nel profondo oblio
di voi stessi, se nell’immobilità, nel silenzio, non troverete l’infinito, sarà
inutile smarrirvi sulle rive del Gange.
Che cosa sarà una società
universale senza singoli paesi, né francese, né tedesca, né inglese, né tedesca, né spagnola, né portoghese, né
italiana, né russa, né tartara, né turca, né persiana, né indiana, né cinese,
né americana o, meglio, che sarà di volta in volta tutte queste società? Che ne
risulterà per le sue intelligenze, i suoi costumi, le sue scienze, la sua arte,
la sua poesia? Come entrerà nel linguaggio questa confusione di bisogni e di
immagini prodotti sotto diversi cieli [,,,], sotto quale legge unica se ne starà una simile società? Come
troverete posto su una terra ingrandita dalla potenza dell’ubiquità e
ridisegnata nelle piccoli proporzioni di un globo sondato dappertutto?
Stanchi della proprietà privata,
volete fare dello Stato un proprietario unico che distribuisce alla comunità,
divenuta mendicante, una parte misurata sul merito di ogni individuo? Chi
giudicherà dei meriti? Chi avrà la forza, l’autorità, di fare eseguire gli
arresti? Chi farà valorizzare questa banca di immobili viventi? Tenterete
l’associazione del lavoro? Che cosa apporterà il debole, il malato, il pigro,
lo sciocco nella comunità gravata dalla loro inettitudine? […] Al fondo di
questi diversi sistemi rimane un rimedio eroico, esplicito o sottinteso […].
L’uguaglianza [assoluta] condurrebbe non soltanto alla servitù dei corpi ma
anche alla schiavitù delle anime: si tratta niente di meno di distruggere
l’ineguaglianza morale e fisica degli individui […]. Chi non ha proprietà non è
indipendente […]. La proprietà in comune fa somigliare la società a un
monastero alle porte del quale degli economi distribuiscono il pane […].
L’eguaglianza completa, che presuppone la sottomissione completa, riproduce la
più dura servitù.
(capp. 2-6, passim)
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