venerdì 12 dicembre 2008

Calendario dell’Avvento 12. Tommaso, il presepio

L’invenzione del presepio da parte di Francesco d’Assisi nella rievocazione di Tommaso da Celano, frate e scrittore, autore della prima biografia del santo stigmatizzato. Il racconto della messa a punto della sacra scena di Greccio è contenuto nella Vita prima sancti Francisci.

C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: «Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei fare memoria del Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l'asinello». Appena l'ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l'occorrente, secondo il disegno esposto dal Santo.E giunge il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza! Per l’occasione sono qui convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della regione, portando, ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte, nella quale s'accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine Francesco, vede che tutto è predisposto se- condo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia. Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello. In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l'umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme.
Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero. La selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. I frati cantano scelte lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia. Il Santo è lì estatico di fronte al presepio, lo spirito vibrante di compunzione e di gaudio ineffabile. Poi il sacerdote celebra solennemente l’eucaristia sul presepio e lui stesso assapora una consolazione mai gustata prima. Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali, perché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù, infervorato di amore celeste lo chiamava «il Bambino di Betlemme», e quel nome «Betlemme» lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva «Bambino di Betlemme» o «Gesù», passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole.Vi si manifestano con abbondanza i doni dell'Onnipotente, e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. Gli sembra che il Bambinello giaccia privo di vita nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicina e lo desta da quella specie di sonno profondo. Né la visione prodigiosa discordava dai fatti, perché, per i meriti del Santo, il fanciullo Gesù veniva risuscitato nei cuori di molti, che l'avevano dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria.
Terminata quella veglia solenne, ciascuno tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia.Il fieno che era stato collocato nella mangiatoia fu conservato, perché per mezzo di esso il Signore guarisse nella sua misericordia giumenti e altri animali. E davvero è avvenuto che, in quella regione, giumenti e altri animali, colpiti da diverse malattie, mangiando di quel fieno furono da esse liberati. Anzi, anche alcune donne che, durante un parto faticoso e doloroso, si posero addosso un poco di quel fieno, hanno felicemente partorito. Alla stessa maniera numerosi uomini e donne hanno ritrovato la salute.
Oggi quel luogo è stato consacrato al Signore,e sopra il presepio è stato costruito un altare e dedicata una chiesa ad onore di san Francesco, affinché là dove un tempo gli animali hanno mangiato il fieno, ora gli uomini possano mangiare, come nutrimento dell'anima e santificazione del corpo, la carne dell'Agnello immacolato e incontaminato, Gesù Cristo nostro Signore, che con amore infinito ha donato se stesso per noi. Egli con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna eternamente glorificato nei secoli dei secoli. Amen.

giovedì 11 dicembre 2008

Calendario dell’Avvento 11. Averincev, il puer

Se ne accorsero in pochi, ma nella Russia di Breznev c’era chi insegnava all’università sapientissime interpretazioni dell’universo bizantino e una concezione della storia in cui il cristianesimo aveva un ruolo da protagonista nella nascita della civiltà russa ed europea. «La libertà la portiamo dentro di noi; un buon cervello la realizza in ogni regime», commenterebbe Jünger. E questo ammaestramento veniva impartito negli stessi anni in cui l’Occidente rincorreva perversamente la scolastica marxista per spiegare il mondo. L’anima e lo specchio (Il Mulino), da cui traiamo le pagine di oggi, è una delle poche opere tradotte in italiano di Sergej Sergeevic Averincev (1937-2004), filosofo, storico, critico letterario, poeta; un uomo con i tratti di un bambino entusiasta, testimonia chi lo ha conosciuto. Nato a Mosca poco prima della guerra, attraverso i suoi genitori, specialmente il padre – un professore di zoologia che aveva lavorato all’inizio del secolo a Heidelberg e a Napoli – si sentì legato alla tradizione della vecchia intelligencija russa. Anche nella Russia di Stalin l’ambiente familiare poteva dunque orientare e spezzare le catene della scuola materialista. Laureato in filologia classica, pubblicò nella seconda metà degli anni Sessanta dei saggi su Spengler, Jung, Huizinga, Maritain, temi e toni inimmaginabili nell’ambiente sovietico. Egualmente grande interesse sollevarono le sue lezioni all’Università di Mosca (1969-1971) sull’estetica medievale e sul metodo scolastico. Fece parte del circolo degli amici moscoviti di Michail Bachtin. Appassionato di poesia nelle lingue antiche e moderne, capace egli stesso di recitare versi a memoria per ore intere, pubblicò traduzione in versi della poesia biblica, di inni siriaci e latini, di corali tedeschi dell’età della Riforma, di Hölderlin, Goethe, Claudel. Il suo libro dedicato alla Poetica della letteratura antico-bizantina (che in italiano ha il titolo sopra citato) fu un avvenimento culturale nell’Unione Sovietica degli anni Settanta ma l’Occidente, tutto preso dalle sue mode decadenti, o a rincorrere in chiave umanitaria i ‘dissidenti’, non gli dedicò molta attenzione.
Segnaliamo tra i libri usciti nella nostra lingua:
Dieci poeti. Ritratti e destini (con un saggio su Chesterton), Cose attuali e cose eterne. La Russia d’oggi e la cultura europea (entrambi pubblicati da La Casa di Matriona), Adamo e il suo costato (Lipa), Atene e Gerusalemme (Donzelli).

Nella chiesa, nella comunità cristiana, ogni uomo è un docile bambino a cui viene insegnato tutto. È questo il concetto sviluppato in una quantità di metafore nel Pedagogo di Clemente Alessandrino. […] Il cristiano, dunque, vede se stesso come un bambino. Ed è importante che anche Cristo, il «pedagogo», si presenti come un bambino – e questo avviene nei racconti evangelici sulla sua nascita, nei canti liturgici che hanno per soggetto il Natale, nelle leggende sulle sue apparizioni a credenti, nei monumenti dell’arte figurativa. Ma questo bambino è il Logos eterno che esisteva prima dell’inizio dei tempi, e pertanto in certo modo vecchio (»Antico dei giorni», Dio è chiamato nel veterotestamentario Libro di Daniele): egli è più vecchio del cielo e della terra. «Giovane bimbo, Dio eterno»: così suona il refrain del kontakion sul Natale composto da Romano il Melode. Ma la più espressiva identificazione misteriosa della giovinezza con la vecchiaia viene formulata da un poeta sconosciuto in uno stico esametrico: «Bimbo, Vegliardo, che gli evi precedi, coevo del Padre».

L’immagine di Cristo bambino con il suggello di una misteriosa e austera saggezza su di un’alta fronte sporgente entra assai presto nell’inconografia bizantina: ne è un esempio l’icona a encausto proveniente dal Sinai, icona che raffigura la Madonna col bambino sul trono circondata da due santi guerrieri e da due angeli, e che uno specialista come K. Vejcman ritiene possibile datare al VI secolo. Se egli ha ragione, l’icona può essere confrontata con il kontakion natalizio di Romano il Melode come un prodotto della stessa epoca. Il bambino al di fuori del tempo e infinitamente vecchio passa nell’iconografia successiva alle lotte iconoclaste, e quindi nella pittura russa antica dove il suo aspetto da vegliardo raggiunge la massima espressività nelle icone dell’Odigitrjia e del Salvatore Emmanuele; la sua enorme fronte è talvolta perfino solcata da grandi rughe.

L’identificazione del bambino con il vecchio è un motivo importante per la letteratura antico-bizantina anche quando essa non raffigura Cristo ma l’uomo «cristonimico». L’ideale è che ogni vecchio sia mite come un bambino, ma anche che ogni bambino sia saggio, serio e zelante come un vecchio. L’infanzia e la vecchiaia si scambiano di posto […]. Da sorgente della vita l’infanzia si trasforma in scopo della vita stessa, raggiunto con sforzi coscienti. L’abate Macario nella sua vecchiaia così obietta alle voci di disapprovazione suscitate dall’infantile «mitezza» del suo rapporto con la gente: «Per dodici anni ho servito il mio Signore perché egli mi facesse questo dono, e ora voi tutti mi consigliate di rinunziarvi». Può sembrare che l’ideale dell’assoluta semplicità sia inevitabilmente legato all’abbandono dell’ideale scolastico di un apprendistato a vita. Tuttavia non è così. Volgendo le spalle alle scienze dell’uomo, alla scuola dell’uomo, l’asceta si concentra su di un’altra scienza, partecipa di un’altra scuola, ad un altro tirocinio. […]

La lingua della letteratura sacra antico-bizantina, come quella dei suoi precursori, a cominciare dal Nuovo Testamento, è marcata da un tratto che davvero si può chiamare «infantile», e fors’anche «puerile», e nello stesso tempo «senile», tutto, insomma, tranne che «virile» […]. Un nietzschiano non potrebbe usare i diminutivi, parlando di ciò che ama e che prende sul serio.

mercoledì 10 dicembre 2008

Calendario dell’Avvento 10. M.me du Deffand, duetti

Anche gli illuministi incipriati di cinismo si preparavano al Natale; la storia del Dio nella mangiatoia suscitava invero poche reazioni profonde nel Settecento avanzato, piuttosto si tramutava in una festa invernale, sontuosa occasione per scambiarsi cattiverie in bella forma. Marie-Anne de Vichy Chamrond marchesa du Deffand era già sessantottenne oltre che cieca e ancora civettava con gli uomini e con la scrittura, ottenendo risultati superbi. Horace Walpole, autore neo-gotico di vent’anni più giovane di lei, le scriveva: «se l’amicizia ha tutti i fastidi dell’amore senza averne i piaceri, non vedo nulla che inviti a conoscerla». Lei replicava alternando effusioni e freddezze cerebrali. Con Voltaire, ancor più vecchio di lei, si erano scritti per decenni e, ormai vegliardi, continuavano a mantenere incandescente lo scambio epistolare. Un giorno di dicembre del 1774, la marchesa fa una richiesta all’ottantenne Voltaire: dei versi natalizi. Il dono avrà un seguito di equivoci salottieri. Brillante travisamento del Natale, che nessuno osi paragonare a quelli dei nostri giorni, cui manca del tutto l’eleganza del tono, restando solo l’indifferenza mediocre per i temi cristiani. Le citazioni sono prese da Lettere a Voltaire (Bompiani).

Parigi, 24 novembre 1774
[...] Desidero ardentemente che mi facciate un favore. Tutta Chanteloup cenerà da me la vigilia di Natale, non solo i padroni di casa, ma anche molti amici intimi. […] Vorrei che fosse una serata piacevole, divertente, allegra: mi sono già assicurata Balbâtre, che suonerà al pianoforte una lunga serie di noëls. Mi piacerebbe qualche bel couplet sulla stessa aria per il grand’ papa, la grand’maman e madame de Gramont. Se i couplets vi ripugnano, sostituiteli con un piccolo componimento in versi che passerà per anonimo; sarà presto riconosciuto dallo stile […].
Se quest’idea vi sorride, accogliete la mia richiesta, affrettatevi a soddisfarla, oppure comunicatemi il vostro rifiuto; evitatemi il tormento dell’incertezza. Ma no, voi non mi direte di no. Guardatevi dal rimandarmi ai vostri protetti, mi detestano; e poi non mi occorre la filosofia, mi occorrono grazia, gusto, gaiezza. […]
Parigi, 7 dicembre 1774
Ah sì, terrò il segreto, potrete esserne certo. Mai favore è stato più prontamente concesso, ma più diverso da quello che si sperava. Voi non avete capito la mia richiesta; non si trattava di Gesù bambino, il bue, l’asinello, la sacra famiglia, ma della felicità del ritorno; e poi io non avevo in mente solo dei couplets. Mi sarei accontentata di una breve epistola o di un piccolo componimento in versi. Vedo che ho avuto torto, che ho fatto una richiesta indiscreta, che ho avuto troppa familiarità con il grande Voltaire, e per insegnarmi a stare al mio posto, egli mi ha fatto rispondere dall’Abbé Pellegrin [Voltaire le aveva scritto scherzosamente che aveva «invocato l’ombra dell’Abbé Pellegrin», prete, poeta e librettista, per il suo dono in versi]. Vi sareste divertito davanti alla mia grande gioia e alla mia immediata costernazione. Mi portano la vostra lettera: «Presto, aprite, ci sono dei versi? Sì, quattro couplets. – Cantateli!». Ah, mio Dio! è possibile! Perché mi trattate così, caro Voltaire? […]

9 dicembre 1774
[…] Vi ho chiesto dei couplets sull’aria dei noëls perché tutti li possono cantare, non bisogna sapere la musica né avere la voce; ma non volevo che vi si trattasse dell’Antico e del Nuovo Testamento. Passi per l’antico e il nuovo parlamento, l’esilio, il ritorno, la gioia generale, la mia in particolare, insomma tutto quello che vi poteva passare per la testa, tranne l’evento di millesettecentosettantaquattro anni fa…

martedì 9 dicembre 2008

Calendario dell’Avvento 9. Leone Magno, la vita

Più di quindici secoli fa, a una cristianità sconvolta dalle minacce e dalle atrocità dei barbari, il papa san Leone Magno, che impedì ad Attila di marciare su Roma, che dialogava con gli invasori e rafforzava la supremazia petrina, parlava così del Natale nei suoi celebri sermoni (dal Discorso I per Natale).

«Non c'è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita: una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne. Nessuno è escluso da questa felicità: la causa di questa gioia è comune a tutti perché il Signore nostro, vincitore del peccato e della morte, non avendo trovato nessuno libero dalla colpa, è venuto per la liberazione di tutti. Esulti il santo, perché si avvicina al premio; gioisca il peccatore, perché gli è offerto il perdono; riprenda coraggio il pagano (cioè il miscredente), perché anche lui è chiamato alla vita».

lunedì 8 dicembre 2008

Calendario dell’Avvento 8. Campo, Tota Pulchra

L’otto dicembre 1965, festa dell’Immacolata concezione, la filosofa María Zambrano (1904-1991), allieva di Ortega y Gasset, scriveva una «lettera mariana» a Cristina Campo. Tota pulchra viene invocata Maria in questo giorno; nell’attesa del Natale, la deipara è venerata come concepita senza il peccato di Adamo. Nella lettera di risposta, che qui riportiamo, Cristina Campo allarga il discorso al peccato moderno (Il testo è tratto dal fecondo sito www.cristinacampo.it)

III Domenica di Avvento 1965
Cara,
la tua lettera del giorno dell'Immacolata Concezione, che Elémir mi ha mostrato, mi ha dato molta gioia. […]
Meditando sulla tua bellissima lettera mariana, ripensavo a quale miracolo, possibile solo per virtù di grazia, sia ogni ora di questa nostra vita, sempre più simile alla vita in una foresteria di convento. Intendo: che a queste letture, questi canti, questa feste sia consentito di sopravvivere. Per esempio: come mai si celebra ancora la festa dogmatica dell'Unica Immacolata, mentre
implicitamente si nega, in mille modi, la maculazione di tutti gli altri? In un mondo dove non è più riconosciuto non dico il sacrilegio, l'eresia, la blasfemia, la predestinazione al male - ma il puro e semplice concetto di peccato? Padre Mayer mi disse un giorno di scrivergli tutte le cose che mi turbano nello svolgersi del Concilio; e io gli riposi: «ma non sono che due, sempre le stesse: la negazione della Comunione dei Santi (potenza della preghiera, ruolo sovrano della contemplazione, reversibilità e trasferimento delle colpe e delle pene) e il rifiuto della croce (l'uomo “non deve più soffrire”, restare un'ora sola inchiodato alla croce della propria coscienza o alla porta chiusa di un irrevocabile non licet)». Non parliamo di applicazione della parola del Maestro: rinnegate il padre e la madre (i.e. tutto ciò che vi è stato insegnato prima della mia venuta nella vostra anima); passato, presente, patria, partito - tutto ormai è conciliabile con la Croce (e con ciò che essi pensano lo sia) purché non ci sia mai problema escatologico. A morte il monaco contemplativo che vive già per metà nella «Urbs Jerusalem Beata» -: terrestre dev'essere, questa Gerusalemme e poco importa se somiglierà stranamente alla Torre di Babele alzata nel centro di Sodoma o di Gomorra...). […]

Tu mi ringrazi, cara, del Breviario. Io ti sto ringraziando dal 2 di Novembre per quella meravigliosa cena funeraria che hai saputo raccontarmi come la grande romanziera che sei: con verità perfetta. […]

domenica 7 dicembre 2008

Calendario dell’Avvento 7. Bloy, la notte

Léon Bloy (1846-1917) fu scrittore francese al servizio del cattolicesimo. Criticato dai contemporanei, specialmente cattolici, per il suo integralismo – si direbbe con le formule di oggi –, ossia per la sua voglia di Paradiso nell’inferno dei boulevards parigini e per l’ansia apocalittica che talvolta diventava violenza cherubinica, lasciò dei libri che folgorarono Kafka, Benjamin e Borges. Da noi fu il toscano Domenica Giuliotti a porsi sui suoi passi. Jacques Maritain gli dovette la conversione alla Chiesa di Roma. Il pittore Jacques Rouault fu, grazie a lui, un raro espressionista cattolico tra i molti protestanti che mettevano l’anima sulla tela. Bloy scrisse romanzi e racconti, saggi di apologetica e di polemica, una Esegesi dei luoghi comuni, nella quale, in gara con il geniale stupidario flaubertiano delle «idées reçues», faceva echeggiare in tutto il loro orrore le frasi fatte dei borghesi, soprattutto sulla religione, e otto volumi di un Diario fiammeggiante. In queste pagine – scrive in una nota il curatore della traduzione italiana, Il pellegrino dell’Assoluto (Città Nuova, Roma) – Bloy «infila gli articoli respinti, gli abbozzi, i racconti, i carteggi, i commenti feroci ai fatti del giorno, il dialogo serrato con Dio. È l’unica tribuna ormai consentita alle invettive profetiche. Qui l’ostinatezza del suo essere inattuale subisce pubblicamente i colpi del tempo: la sfida è rilanciata e puntualmente smentita dalle circostanze. […] L’eremita forzato spia il cielo e i fatti della terra per cogliervi i segnali escatologici. Lo strano tradizionalista non vuole un impossibile ritorno al passato, pretende invece di vendicare il passato offeso. La redenzione si estende al di là del tempo, coinvolgendo chi è caduto sotto l’ingiustizia della morte. Scrive spaventato: “La miseria dei morti, in un secolo privo di fede, è un arcano di dolore da cui la ragione è oppressa”. I Diari vogliono testimoniare degli ultimi giorni dell’umanità, ricordando le infinite vittime schiacciate dagli automatismi moderni». Da questa edizione antologica italiana del diario, sono tratte le righe che seguono.


3 dicembre 1894
[…] La nostra vita è sempre dolorosa, anzi impossibile, e sembra un continuo miracolo. Noi non ci capiamo nulla e nessuno ci capisce nulla. Siamo dovuti passare attraverso angosce infinite. Ma siamo attaccati alla mano di Dio […].

14 dicembre
Si cerca il modo di non morire.

25 dicembre
[…] Chi può venire a trovare un uomo infelice? D’altronde sono sempre stato una persona per cui nessuno si scomoda. Anche coloro che affermano di amarmi e che fino a un certo punto me lo provano, hanno mai tentato di disturbarsi?

20 dicembre 1897
Una giovane danese luterana, che vive da noi da diciotto mesi, chiede a sua volta di diventare cattolica. Sarà la quinta abiura ottenuta a casa mia dal ’90, anno del mio matrimonio. È per questo, senza dubbio, che non muoio.

25 dicembre 1900
Natale terribile. Enorme tristezza, uno stagno di tristezza nera, in compagnia del nostro poeta [un belga ospite da molti giorni] e di sua moglie. Sensazione di una solitudine e di un abbandono sconvolgenti.

26 dicembre 1906
Stanotte c’è stata una nevicata e ho sentito sul mio vetro il dolce e terribile rumore. Ma che pena vedere la neve, filtrata dalle fessure e dai buchi, cadere nella mia povera stanza, in una specie di pioggia fine e brillante. Ecco che cosa ci affitta per molto denaro una vecchia e onorevole padrona di casa.

22 dicembre 1910
A una signora che mi ha mandato della frutta:
«Allora, avete pensato a me, mi avete voluto fare questo piacere. È proprio come se mi aveste dato il bacio più affettuoso. Provo l’imbarazzo di non potervi offrire in cambio che l’amicizia di un povero scrittore considerato in genere come una bestia feroce nel mondo affabile e cortese in cui abbiamo la fortuna di vivere. Ma sapendo bene come i giudici qualche volta si sbaglino. Nel mio particolarissimo caso, vi prego di immaginare – se riesce possibile a Saint-A. – un agnello nascosto sotto la pelle di una tigre o, se preferite, un vecchio asino dolcissimo sotto la minacciosa scorza di un rinoceronte. Vi farete così un’idea approssimativa dell’autore di tutti i miei libri…».

17 dicembre 1915
Da moltissimi anni sono il mestissimo spettatore di uno spaventoso e universale imbroglio la cui soluzione finale è al di là delle congetture umane. Che cosa c’entra la letteratura? A eccezione dei miei libri, che possono essere letti solo da qualche matto generoso, non c’è più niente. Si crepa semplicemente, senza alcuna speranza di «resurrezione», né di «purificazione». Attendo un Uomo, una Guida data da Dio, che tarda a venire […].

24 dicembre 1916
Giornata assolutamente vuota. Né lettere, né visite, e mi manca il coraggio per scrivere. […] De Groux [un pittore amico con cui ci fu poi una incomprensione] è ipnotizzato dall’idolatria della propria arte. Non è la prima volta che noto questa propensione più o meno in tutti gli artisti senza eccezione. Essendo degli esseri attorniati da fantasmi e da immagini vane, sono più incapaci degli altri dell’Assoluto. Dio appare loro inutile, e le forme esteriori della pietà, le pratiche della vita cristiana, inferiori ai loro sogni, non ottengono che disprezzo.
Il nostro arcivescovo ha proibito la messa di mezzanotte. Motivo: risparmiare sulla luce. È un mezzo sicuro per mandare i pastori ai caffé e ai ristoranti che saranno sicuramente illuminati per tutta la notte.

25 dicembre
[in una lettera] Saprete sicuramente che il nostro arcivescovo, sempre degno di sé, ha proibito la messa di mezzanotte nella sua diocesi. È una piccola sorpresa che ci ha riservato in attesa di quelle che lo aspettano e che non riesce a prevedere. I pastori di Betlemme, avvertiti dagli angeli, si precipitarono alla mangiatoia media nocte. Il nostro ce lo proibisce espressamente. Necessità patriottica di economizzare la luminaria, ha detto. Che la notte resti la notte e, se è possibile, che sia eterna […]».

sabato 6 dicembre 2008


Calendario dell’Avvento 6. Bettelheim, San Nicola

Questa mattina, i bambini di Molfetta e di altri paesi in provincia di Bari si sono svegliati trovando i doni portati nella notte da San Nicola. Il 6 dicembre è la festa del generoso personaggio cristiano e in questa zona della Puglia, dove il santo vescovo ha trovato da mille anni una seconda patria, dopo che la sua Anatolia fu occupata dai musulmani e le sue spoglie portate in salvo dai marinai baresi, si capisce bene la derivazione folclorica di Babbo Natale da quella di San Nicola, Sinterklaas in Olanda, Santa Claus in America. Non a caso, i protestanti di impianto più puritano mettevano in guardia da questo personaggio «pagano e cattolico», ma Lévy Strauss, in un celebre saggettino (Babbo Natale giustiziato, Sellerio) ricordava un rogo simbolico del rosso personaggio nel 1951, in un villaggio francese, da parte del parroco locale e dai suoi parrocchiani, sia pure a insaputa del vescovo.
Il viennese Bruno Bettelheim (1903-1990), un tempo idolo progressista della psichiatria infantile, è adesso dannato dalle rivelazioni giornalistiche postume che metterebbero in discussione la sua preparazione e le sue teorie. Robert Bazlen, in tempi non sospetti, era molto scettico su questo guru della psicoanalisi e scriveva: «Ognuno non reagisce che contro la banalità che ha in sé. Io non ho massa in me, dunque non mi arrabbio con la massa. Ho in me un’altra banalità, la reazione banale contro la massa. E mi arrabbio con i Bettelheim che reagiscono alla massa con parole diventate di massa». Chi comunque non ha mai prestato fede alle facili spiegazioni della dottrina di Freud non si appassiona neppure alle abiure dei fedeli delle varie sette. Perciò ci piace citare delle pagine di Bettelheim dedicate alla figura di Babbo Natale, nel capitolo finale di
Un genitore quasi perfetto (Feltrinelli).

Quando ero piccolo, in Austria, il giorno di san Nicola veniva celebrato più o meno allo stesso modo in cui lo era stato per secoli; e così viene festeggiato ancor oggi in Austria e in molti altri paesi. Quel giorno, arrivano in ogni casa due uomini: uno impersona san Nicola, ed è paludato come un vescovo; l’altro recita la parte del suo aiutante o servitore, oppure del suo opposto: il nome e il travestimento variano a seconda della località. Come servitore del santo, viene chiamato Ruprecht, e trasporta i regali: più spesso, però, ha nome Pietro il Nero, o Krampus o Grampus, ha la faccia tinta di nero, due corna sulla fronte, la coda, a volte perfino il piede caprino: rappresenta cioè il Diavolo. E il suo sacco non contiene regali, serve a portar via i bambini cattivi; quasi sempre trascina anche delle catene, che fa paurosamente ondeggiare, come una sferza. Ma questo personaggio maligno, dall’aspetto e dalle maniere così feroci, è in realtà sottoposto al potere del buon vescovo Nicola, il quale arriva sempre a fermarlo, così come nella leggenda salvava i bambini in pericolo. Il giorno di san Nicola, dunque, questi due personaggi, che in realtà sono dei vicini compiacenti opportunamente travestiti, bussano di porta in porta, chiedendo ai genitori (che sono d’accordo, ovviamente) se i loro figli sono stati buoni o cattivi. Di solito, la risposta è «il più delle volte buoni, ma non sempre». Allora il Diavolo fa un balzo in avanti e cerca di afferrare il bambino per dargli una buona sferzata con la sua frusta fatta di ramoscelli, ma il bambino riesce quasi sempre a sfuggirgli, tra alti strilli. In ogni caso, dopo qualche tentativo di punirlo da parte del Diavolo, entra in azione san Nicola, che lo rimette al suo posto, facendo capire chiaramente che proteggerà sempre tutti i bambini. Quindi il santo ammonisce il bambino di essere buono e gli dà i suoi doni, cose modeste, di solito frutta e dolcetti. Uno dei suoi doni tradizionali, in particolare, riveste un importante significato: è un ramoscello uguale alla sferza di Krampus, ma dipinto d’oro o d’argento, e con appesi alcuni frutti e dolcetti. Il ramoscello di san Nicola richiama cioè la verga con cui sono puniti i bambini, ma è bello e dolce; è la trasfigurazione di uno strumento di punizione in uno strumento di piacere, cosa molto apprezzata dai bambini. Nel giorno di san Nicola, dunque, attraverso una drammatizzazione che diverte grandi e piccini, viene dapprima con la punizione minacciata o simbolica impartita dalla figura del Diavolo data soddisfazione al lato negativo dell’ambivalenza dei genitori e dei figli (che si sentono in colpa per essersi comportati male o per aver fatto cattivi pensieri); dopo di che può trionfare il lato positivo dell’ambivalenza, e vengono distribuiti piccoli doni, che hanno un valore molto più immediato e reale della punizione simbolica. […]

L’avvento, il periodo che precede il Natale, è un tempo di gioiosa anticipazione, come lo è il periodo che precede la nascita di un bambino; la casa viene preparata per ricevere il nuovo membro della famiglia, così come viene addobbata in preparazione del Natale, la venuta di Babbo Natale nel cuore della notte rimane avvolta nel mistero; così come lo è la nascita dei bambini […].

I genitori di un bambino di sei anni, piuttosto sveglio, decisero che era tempo di spiegargli che Babbo Natale è solo un’invenzione. E quando, nel corso della festa, Babbo Natale fece la sua attesa apparizione, gli spiegarono che si trattava di una persona a lui ben nota, travestita da Babbo Natale. Subito il bambino scoppiò in un pianto disperato: «Perché da me non viene il vero Babbo Natale?».

venerdì 5 dicembre 2008

Calendario dell’Avvento 5. Breza, radiomessaggio del ’56

Uscito nel 1962 da Feltrinelli, La porta di bronzo, diario romano di Tadeusz Breza (1905-1970), ottenne in Polonia il premio per la saggistica laica, idest anticlericale, mentre l’autore veniva considerato un redivivo Stendhal che ironizzava sulla Roma dei papi. A rileggere oggi, a distanza di mezzo secolo, il giornale segreto che un aristocratico spedito a Roma a dirigere l’Istituto culturale polacco tenne negli ultimi anni del pontificato di Pio XII, vi si avverte, dietro la cortina dell’ufficialità, una ammirazione straordinaria per la città eterna, il suo pontefice, la curia, oltre che per le corti della nobiltà nera, dei parroci, dei frati, del popolo romano. Breza, diplomatico e scrittore, aveva lavorato negli anni Trenta all’ambasciata polacca a Londra, negli anni Cinquanta decise di continuare a rappresentare il suo paese anche se nel frattempo al potere erano andati i comunisti. E da diplomatico colto si districò tra il nuovo regime e l’antica istituzione universale: da una parte raffigurò lo splendore della capitale cattolica prima degli ascetismi conciliari, dall’altra si convinse e volle convincere, sbagliando, che il comunismo era un destino d’Europa con il quale anche la Chiesa doveva fare i conti. Un libro così, scovato magari nella rete, può essere un autentico dono di Natale per sé o per le persone amiche.

Roma, 24 dicembre ’56

Il Radiomessaggio natalizio del Sommo Pontefice ai fedeli e ai popoli di tutto il mondo occupa due colonne dell’Osservatore Romano. Un anno fa la Pravda moscovita pubblicò alcuni brani del messaggio natalizio del papa «ai fedeli e ai popoli di tutto il mondo» e alcuni altri ne pubblicò l’Unità: i primi parlavano del divieto di usare la bomba atomica, i secondi si pronunciavano in maniera enigmatica, ma promettente, circa gli accordi e i concordati «tra la Chiesa e i regimi ad essa ideologicamente molto lontani».

Quest’anno nessuno dei due giornali sopra citati pubblica dei frammenti del radiomessaggio. È un discorso interessante. La parte ideologica è condotta con molto garbo intellettuale; leggendola si può intuire quale sarebbe la spina principale del pontificato di Pio XII, se non ci fosse il comunismo: la spina principale, il problema numero uno sarebbe l’America e l’americanizzazione spirituale del mondo. Il papa non ne parla, non la nomina mai chiaramente. Definisce la nostra epoca come l’epoca della «seconda rivoluzione tecnica». Tale rivoluzione fa sì, questo è più o meno il suo pensiero, che ormai ci appaiano vicini gli orizzonti di un’era in cui non solo la natura del mondo non avrà più segreti ma non ne avrà neanche quella dell’uomo, preso sia individualmente che nelle sue connessioni sociali. I gabinetti medici e le cliniche ristabiliranno l’equilibrio morale; i problemi sociali che man mano si presenteranno verranno risolti in un baleno dai cervelli elettronici; non ci sarà più posto per le passioni, per gli impulsi, per l’irrazionale. La scienza umana, sempre più fantastica, troverà per ogni cosa una soluzione tecnica matematicamente esatta.

Tra le righe di tutta questa parte del discorso fa continuamente capolino il pensiero espresso meglio di tutti dal titolo di un romanzo di Huxley, che «il tempo si deve fermare». Più piano! Più piano! Lasciate che l’uomo riprenda fiato! Lasciate che s’abitui. Coloro che accusano la Chiesa di tradizionalismo, prosegue Pio XII, non capiscono che oggigiorno al mondo non c’è niente di più umano della tradizione. Tra i componenti elementari della tradizione egli enumera anche «l’unione sociale nella proprietà privata». La statistica, la tecnologia, la meccanizzazione, l’automazione intese non solo esecutivamente, ma come direttive di ogni pensiero, anche il più generico, sui problemi e sugli interrogativi dell’uomo e del mondo: ecco quale sarebbe la minaccia più grave della nostra epoca per il pontificato di Pio XII, se non ve ne fosse già un’altra, se non più grande, certo più urgente ed immediata.

La tradizione, sempre a detta di Pio XII, non solo ha un valore terapeutico per la piaga della vita moderna, e cioè la rapida e incessante trasformazione del mondo sotto la spinta delle illimitate possibilità tecniche, ma dovrebbe anche venir applicata preventivamente dovunque il progresso non sia ancora arrivato, e dove si propone di arrivare in nome dello sviluppo dei territori depressi. [...]

[Dal discorso] emana una sorta di stoicismo meravigliosamente triste. Il nuovo, il magnifico mondo è un mondo ametafisico, un mondo per il quale la religione, e tutto ciò che ad essa è connesso, non sono cose serie. Proprio su ciò si basa il suo rispetto e la sua tolleranza. Che profondo dolore, un simile alleato, anche se aiuta a combattere un nemico pericoloso!

giovedì 4 dicembre 2008

Calendario dell’Avvento 4. Herzen, la maternità

Aleksandr Ivanovič Herzen (1812- 1870), scrittore e pensatore russo, liberale e populista, avversava il cristianesimo occidentale, cattolico e protestante. Ma colpito dalla celebre Madonna Sistina di Raffaello, conservata a Dresda, pubblicò in un capitolo di
Passato e pensieri, in polemica con il cristianesimo ufficiale, un elogio della maternità, del parto di Betlemme, credendo di scandalizzare gli occidentali con tale esaltazione dell’aspetto carnale di Maria, ignorando forse che proprio questo aspetto è alla base della religione romana. Non a caso, il Raffaello che Herzen amava tanto, e che aveva dipinto una Madonna così umana, era al servizio dei papi, artista ufficiale della corte pontificia.
(Il testo è tratto da
La Madonna di San Sisto di Raffaello di Pier Cesare Bori, Il Mulino)

Il bambino era appena nato, lo portarono alla madre: sfinita, il viso esangue, debole languida, lei sorrideva e posava sul bimbo uno sguardo stanco e pieno di infinito amore. Occorre dire che la vergine-madre non si addice all’astinente religione cristiana. Con lei spontaneamente la vita, l’amore, lo dolcezza irrompono e sconvolgono gli eterni funerali, il giudizio finale e gli altri terrori della teodicea ecclesiastica.

Per questo il protestantesimo ha tolto la sola madre di Dio dai suoi squallidi luoghi di culto, dalle sue fabbriche di parole di Dio. Essa di fatto disturba la gerarchia cristiana, non può separarsi dalla sua natura terrena, riscalda la chiesa fredda e, nonostante tutto, rimane donna, madre. Con un parto naturale riscatta il concepimento non naturale e da labbra monastiche che maledicono tutto ciò che è corporeo strappa lodi al suo grembo.

Buonarroti e Raffaello lo hanno capito con il loro pennello.

mercoledì 3 dicembre 2008

Calendario dell’Avvento 3. Praz, il presepio

«Presepi», di cui offriamo una lettura parziale, è un breve ma sapiente saggio di Mario Praz, del 1938, pubblicato poi nella raccolta Fiori Freschi (Sansoni).

Invero, dinanzi ai presepi, difficilmente ci si può sottrarre all’impressione che questi, per squisiti che siano, sono, in fondo, soltanto balocchi; e non si può dar torto allo studioso di liturgia che li considera tali, come non si può negare che agisca con discernimento, sebbene con severità, lo storico dell’arte che trascura i presepi come poco importanti manifestazioni. Forse per apprezzare pienamente i presepi bisogna mettersi dal punto di vista di quei bravi religiosi del Seicento, che pensavano che anche i trastulli potessero servire alla Fede, come i concetti servivano alla poesia […].

Vanti pure la sua origine nelle lettere di San Girolamo ai suoi amici romani, si sia dapprima chiamato col solenne nome di Domus Sanctae Genitrix nella basilica di Santa Maria Maggiore, sia stato fatto oggetto di speciale culto da San Francesco a Greccio (un nome che sembra, e non è, l’etimo di crèche) e poi, nel Cinquecento, da San Gaetano, è certo che il presepio raggiunse il suo splendore soltanto come spettacolo drammatico, vero e proprio dramma nel Medio Evo,.e quadro scenografico nel Settecento. E sempre con un elemento d’amenità, di farsa; il grottesco intervento d’Erode furore accensus, o dell’Arcisynagogus, o di Balaam col suo asino nella sacra rappresentazione medievale, le scenette di genere nel presepio settecentesco; sicché ci si domanda se questo tipo di spettacolo, ove al mistero divino s’alternano molto e fin troppo umani scherzi, non risalga addirittura a schemi che si perdono nella notte dei tempi, e che si continuano, con diversi culti, sulle rive del Mediterraneo e su quelle dell’Oceano Indiano. Commoventi e alquanto monotone scene drammatiche medievali (quand’anche raggiungano la relativa perfezione della cosiddetta Secunda Pastorum del teatro inglese) impallidiscono ai nostri occhi accanto alla squisita vivezza del presepio di immobili figurette immerso in un malioso gioco di luci. Immobili, o moventisi secondo un ben regolato meccanismo d’orologeria, che le fa girare e atteggiarsi con un rito perfetto come il moto stesso delle sfere; e tra i primi a costruire di questi pii trastulli fu Hans Brabender, nel cui presepio meccanico del 1543, nella cattedrale di Münster, sfilano a mezzogiorno i Magi dinanzi al Bambino Gesù, e s’inchinano mentre il gariglione suona le note di In dulci Jubilo; e fu anche il nostro Buontalenti che pel giovine Francesco, figlio di Cosimo I, costruì un presepio in cui gli angeli scendevano dal cielo, e le figure dei mortali assumevano naturali atteggiamenti; mentre il più complicato trastullo del genere fu congegnato nel 1589 da Hans Schlottheim di Augusta, per esser donato dall’Elettore di Sassonia a sua moglie.

In Germania, grazie anche alla propaganda dei Gesuiti, che non tralasciavano nessuna occasione per giungere, attraverso il dolce dello spettacolo caro ai sensi, all’utile dell’insegnamento religioso, il presepio acquistò enorme popolarità, al punto da figurare non solo in chiese e conventi, ma nei palazzi dei sovrani, nelle case dei borghesi e in quelle dei contadini, e sempre con una nota di paterna tenerezza, sicché San Giuseppe ci appare spesso nella veste d’un Biedermeier avanti lettera, ora pazientemente reggendo la candela, ora facendo dondolare la culla, ora arrampicandosi su una palma per curvare a portata della Madonna un ramo carico di frutti.

La tendenza al domestico, al ravvicinare la scena divina alla scena umana di ogni giorno, contrasta, nei presepi, con l’altra tendenza, che cerca di suggerire il favoloso, il miracoloso: una nota d’oricalchi orientali coi Magi, una nota di locali cornamuse coi pastori e tutta l’umile gente. Sublimi prospettive d’architetture, e addirittura catene e catene di monti riprodotte in presepi boemi; e, a Napoli, tutta la formicolante vita della strada coi suoi tipi, i suoi pezzenti, i suoi umili commerci, la sua moltitudine di persone e di cose. Nessuna scena è mai stata così affollata come quella d’un presepio napoletano; si direbbe che tutta Napoli voglia farsi intorno alla culla per scaldare col fiato il Bambino nato in una gelida notte; e in tanta urgenza di figure e di gesti, e in tanta abbondanza di disparate cose offerte, v’è pure una profonda tenerezza che si scopre a poco a poco al riguardante, quand’abbia superato la prima impressione di eccesso. Un presepio napoletano è come una pagina di Giambattista Basile, ove pur tra la ressa di strampalate metafore e di grotteschi e saporiti tropi, fiorisce non so che semplicità di commovente fiaba. I pastori del Celebrano coi crani calvi e i visi pieni di nèi e di verruche, i ben pasciuti fattori del Gori con le loro rubiconde mogli (spesso in vesti contadinesche, erano personaggi di corte che il Gori ritraeva), gli animali di Nicola e Saverio Vassallo, i lazzaroni del grande Sammartino, il massimo dei figurari, gl’innumerevoli finimenti e suppellettili del Mosca (mandolini accanto a bisacce, paioli, gabbie, provoloni, e ogni genere d’umile civaia), tutto questo è forse fastidiosamente terrestre. Ma in alto si librano gli angeli, reggendo cartigli e ghirlande tra le dita sensitive (che squisite mani sanno formare questi figurari!). Vegliano in scintillanti coorti come nell’Ode alla natività del Milton; e in quest’incontro di mondi, l’umano e il divino, non sta forse la suprema significazione del Mistero commemorato dal presepio e la ragione della sua perenne popolarità?

martedì 2 dicembre 2008

Calendario dell’Avvento 2. Adorno, promessa di felicità

Dal saggio che il filosofo Theodor W. Adorno dedicò a un amico leggendario, vissuto nel silenzio e nella solitudine, acclamato dopo la morte come uno dei maggiori pensatori tedeschi del Novecento: «Profilo di Walter Benjamin» (in Prismi, Einaudi).

Quel che Benjamin diceva e scriveva sonava come se il pensiero facesse sue le promesse dei libri di favole per l’infanzia, anziché respingerle con la maturità ignominiosa dell’adulto, e così letteralmente che persino l’adempimento reale entra negli orizzonti della conoscenza. La rassegnazione era radicalmente bandita dalla sua topografia filosofica. Chi entrava in consonanza con lui si sentiva come un bambino che scorga attraverso le fessure della porta chiusa la luce dell’albero di natale.

lunedì 1 dicembre 2008

Calendario dell’Avvento 1. Rosenzweig, la veglia

Cominciamo una serie di brevi letture di introduzione al Natale. La prima casella si apre sul nome del pensatore ebreo Franz Rosenzweig (25 dicembre 1886 -10 dicembre 1929), autore di Der Stern der Erlösung, La Stella della Redenzione, 1921 (tradotto in italiano da Marietti), un singolare libro che, estraneo all’interiorità protestante, parte dalla liturgia per riflettere sull’ebraismo e sul cristianesimo.

È noto che il Natale è legato ad un punto di inversione del corso annuale del sole; l’invitto dio solare del culto di Mitra celebrava qui la sua rinascita annuale. Ma pur partendo da queste radici estranee, proprio nel popolo guida della cristianità e nei secoli più recenti la festa ha tuttavia subito una evoluzione che l’ha portata ad una certa prossimità rispetto alle feste giudaiche della redenzione. Già quell’aprirsi della casa all’irrompere della natura intatta, cui viene riconosciuto diritto di ospitalità nella camera calda, sotto la veste dell’albero tagliato d’inverno, e poi la mangiatoia di una stalla straniera, in cui viene il redentore del mondo, hanno il loro esatto corrispettivo nel cielo aperto che il tetto di frasche lascia trasparire in ricordo della tenda che concedeva riposo al popolo eterno durante la sua peregrinazione nel deserto. […] Rispetto alle domeniche il giorno di Natale si colloca come il giorno della riconciliazione rispetto ai sabati ebraici. Esso, senza cadere necessariamente di domenica, è proprio la domenica per eccellenza, e cioè, in quanto giorno natale dell’anno liturgico, è ciò che la domenica è per la settimana: nuovo inizio. Proprio come il giorno della Riconciliazione, essendo il giorno dell’ingresso nell’eternità, è nel nostro anno ciò che il sabato rappresenta nella settimana: il compimento. E perciò in entrambi questi giorni si è compiuto questo evento mirabile: la sera della vigilia è cresciuta fino ad assumere la stessa importanza del giorno festivo stesso; la sera della vigilia della festa della Riconciliazione è l’unica vigilia in cui la comunità fa mostra della veste festiva che altrimenti viene portata nel culto principale del mattino; e come grazie a questa vigilia il giorno della Riconciliazione diventa un «lungo giorno», così avviene per la festa cristiana grazie alla santa sera della vigilia e alla sua «lunga notte». Solo un giorno costituito da una notte e da un giorno fino al nuovo irrompere della notte, solo questo è un giorno intero. Infatti il giorno va dall’una all’altra mezzanotte, ma solo la prima è davvero notte, la seconda è luce. E quindi vivere un tale lungo giorno con Dio significa vivere interamente con Dio; vivere il nulla, che sta prima della vita, e la vita stessa, e la stella che sorge sopra il buio della notte al di là della vita. Tale lungo giorno il cristiano lo vive totalmente nel giorno dell’inizio, noi nel giorno della fine. Così entrambe le feste sono venute crescendo al di là del significato che avevano all’origine. […] Il Natale da festa ecclesiastica è divenuta festa di popolo, che affascina e attira perfino gli scristianizzati, anzi perfino i membri non cristiani del popolo. Quel giorno, che anticipa la fine, è così divenuto un segno dell’intima forza che il nostro popolo possiede per mantenersi nella fede; questo giorno, che rinnova l’inizio, un segno della capacità che il cristianesimo ha di espandersi all’esterno nella vita.

mercoledì 26 novembre 2008

minima / Se l’Occidente cancellasse la croce

Nonostante le ultime traversie, l’Occidente è opulento. Brillante, oggi più che mai, dopo aver messo a presiedere gli Stati Uniti (e il mondo) un giovanotto che si presenta da divo, elegante come nessun altro leader di laggiù, dall’aria vincente e dalle radici africane che coronano l’american dream. Militarmente ancora imbattibile, economicamente ancora strepitoso pur con qualche punto in meno, sempre più modello per gli altri, da tempo immemorabile dominatore culturale del pianeta. Orgoglioso perciò, talvolta a ragione. La croce che lo ha accompagnato da millenni nel superbo cammino non è però un simbolo di questo suo trionfo, un marchio identitario come dicono in molti, bensì un poderoso segno del limite: della umana natura e del potere. «Et in Arcadia ego», anche nello splendore occidentale la morte e il dolore, che le si accompagna, vogliono regnare; anche quell’impero romano che è alla base del diritto e dell’organizzazione politica, ha fatto innumerevoli vittime, deicida perfino secondo alcuni. Alla organizzazione umana che si crede imbattibile, alla giustizia di questo mondo, all’impero comunque chiamato, i seguaci della vittima contrappongono la loro Ecclesia. Tuttavia, un grande e faticoso compromesso ha permesso nei secoli all’Occidente di imporre anche allo Stato il simbolo dell’Ecclesia, la contraddizione per eccellenza, l'emblema del capro espiatorio. Sugli edifici pubblici, sulle armi nonché sui patiboli fu posta la croce: non impedì violenze e malvagità ma certamente limitò la natura umana che di per sé è piuttosto sfrenata. In ogni caso produsse una qualche inquietudine, un qualche rimorso.

Ora, se questo mondo aggressivo decidesse davvero di far fuori quel simbolo, cancellasse solennemente ogni accenno alla morte e agli assassinati, non resterebbe che il totalitarismo edonista, di cui la Spagna della movida politico-giudiziaria è ancora soltanto una caricatura. Sappiamo comunque quello che è accaduto nel Novecento una volta buttata la croce alle ortiche, sostituita da un simbolo induista e poi buddista del ‘benessere’, la svastica, e dai simboli del lavoro umano troppo umano con cui i bolscevichi vollero rovesciare il mondo. Se viene a mancare «l’amuleto che placa le passioni», prevedeva Heine con un secolo di anticipo, il mondo sarà paralizzato dal terrore (v. «Almanacco Romano» del 27 settembre). Vennero infatti i Deutsche Christen, marcioniti mascalzoni, che avevano staccato Cristo dalla croce, e sostituito lo strumento di tortura con l’erotica svastica. Volevano pure modificare la vita di Gesù, non solo arianizzato, ma ridotto a un superman
positivo, forte, risorto per energia da scientology. L’importante, secondo loro, era nascondere la sofferenza e la morte. Rimasuglio delle varie gnosi, Gesù veniva trasformato nell’immagine del sano, dell’eroe atletico, del fortunato. Ancora nell’ultimo dopoguerra Pio XII si preoccupava dei pericoli di tali immagini e ammoniva nella enciclica Mediator Dei, intervenendo anche nelle faccende artistiche che si vorrebbero neutrali: «Erra dalla retta via (…) chi impone di rendere l’immagine del divino Redentore sulla Croce in modo che il suo corpo non mostri le acerrime ferite che aveva sofferto», condannando questi errori come «falso misticismo e velenoso quietismo».

lunedì 24 novembre 2008

minima / La paura dei giudici

Il povero giudice di Valladolid e i suoi complici di mezza Europa, compiaciuti sotto i baffi, sono più onesti di molti estetologi che la fanno lunga e difficile sulle immagini insensate ed evanescenti per «rendere visibile» l’invisibile. Smentendo infatti gli spiritualismi iconoclasti, il povero giudice spagnolo e i suoi poveri aficionados, che verso l’astratto e l’«artistico» si chinerebbero riverenti, anzi bigotti, sembrano avere una maledetta paura di una figurina scolpita che rappresenta un ebreo morto molti secoli fa, ucciso con la terribile esecuzione della croce, prevista in alcuni casi dalla pur civile legge dell’Impero romano. Temono dunque che quella riproduzione possa turbare i giovanetti del terzo millennio. Nessuno nutrirebbe i medesimi timori per l’amena
Testa di uomo di Paul Klee o per il brutto e animalesco Angelus Novus che dicono esprima velleità religiose. Quindi le immagini figurative non sono così neutre come ci raccontano da qualche tempo. Inquietano i giudici, per esempio. C’è il rischio – si legge nella sentenza – che lo studente, alzando lo sguardo sopra la cattedra, sospetti che lo Stato sia schierato con quell’uomo sanguinante. Guai a rompere l’equilibrio e dare l’aria di parteggiare per una vittima, anzi la vittima per eccellenza. La neutralità è il mito dei magistrati. Eppure, se venisse in mente a qualcuno di collocare, per ammonire, il ritratto di Anna Frank in ogni scuola europea, nessuno screanzato oserebbe proporne la rimozione. Ma nel caso del crocefisso, la vittima pare che abbia promesso anche il superamento della morte. Una simile notizia ai mortiferi magistrati, forse già morti annegati nel formalismo nichilista, risulta davvero minacciosa.

venerdì 21 novembre 2008


minima / Se la marmaglia sporca il Contemporaneo

«Scrivi nel sangue» si raccomandava il filosofo dionisiaco. I suoi peggiori epigoni ricorsero anche alle lacrime. Liquidi impropri. E pensare che gli inchiostri erano fatti apposta per scorrere sulla carta, brillare e resistere al tempo. Se ne davano anche versioni eccentriche, verde e violetto per animi decadenti. O, in tradizioni maggiormente auliche, si richiedevano piccoli e aggraziati pennelli onde trascinare inchiostri di China e tracciare un segno che si offriva pure a immagine, con una sottilissima scia sonora del liquido che scivola sul foglio e una scia profumata di resine. Specialità dell’Oriente estremo. Nel frastuono meccanico delle macchine per scrivere del Novecento l’inchiostro si tramutava in striscia, le lettere battevano il nastro grasso di colore, mani e dattiloscritti se ne impiastricciavano. Nei nostri epistolari di e-mail ci affidiamo a caratteri che non si posano su alcuna carta e possono scomparire senza lasciare traccia. Evanescenti carteggi per fantasmi. Dai diari dell’età puberale fuoriescono invece crittografie furuncolose dell’egocentrismo per assumere tinte triviali, gonfiarsi nei caratteri come una rana e, non più segreti, marcare la firma sulla pubblica scena, in tentativi di emergere dalla propria mediocrità sporcando il quartiere: questi i cosiddetti writers, gli scrivani del nulla sugli esterni delle case, i decoratori senza decoro, i calligrafi senza kalòs. Sì, è un itinerario tipico dell’estetica attuale: evadere con gestacci dal ghetto della desolazione, tanti piccoli Erostati violenti e accorati per ansia di notorietà.

Si è avuto un sobbalzo, ieri, leggendo su «Repubblica» che a Venezia il ponte appena inaugurato di un ferramentoso architetto spagnolo è stato «sfregiato dai writers». Quelli che il giornale al servizio di ogni conato estetico considera degli artisti, eroi del ‘contemporaneo’, stavolta sono umiliati con il più probabile titolo di imbrattatori. Se ne deduce che si è creativi se si scarabocchia sui muri berniniani del Palazzo di Montecitorio e marmaglia di vandali se ci si permette di maculare il ponte dello scandalo. A chi si mostra irritato perché qualche ragazzotto gli ha rovinato il costoso intonaco della sua proprietà con le scritte da filisteo di borgata, o peggio tatuato le facciate delle chiese e dei palazzi barocchi, le statue e le panchine di marmo, gli archi e le mura antiche, o semplicemente si è permesso di bruciare ripetutamente i suoi occhi con tali inguacchi, come se a Roma non bastasse la peste dei manifesti politici fuor di misura, unici nel panorama europeo, e spesso claudicanti nella ortografia e quasi sempre nella punteggiatura, insomma a questo poveraccio assai innervosito che invoca la galera per i guastatori, le maestrine della cultura rivolgeranno il dito accusatore come Furie: lei non sa chi sono loro, roba da museo, perché non gode invece della fantasia che colora le città e combatte il grigiore urbano? (ma che c’è di più deprimente delle scritte con gli acidi spry industriali? Che direbbe il povero Loos, attento per furia modernista a ripulire le leggiadre metropoli europee dall’ornamento del migliore artigianato, di simili svolazzi sguaiatissimi, di sfregi ai manufatti architettonici, di arabeschi del sempreuguale?). Forse, senza ricorrere alle carceri affollate, basterebbe che i giornali trendy e inventori continui di mode e di abitudini gregarie facessero sentire quelle anime semplici un po’ out e, subito, nel timore di apparire rétro, peggiore di punizioni galeotte, smetterebbero di fare danni.

Si scopre poi, leggendo integralmente la notizia, che «chi ha imbrattato il ponte ha colpito approfittando del fatto che da qualche giorno, passata la preoccupazione iniziale, è stato sospeso il servizio 24 ore su 24 di sorveglianza affidato ai vigili urbani». Dunque, per proteggere l’acciaio e il vetro veneziani si piazzano telecamere e vigili giorno e notte. Ohibò. Ecco spiegato allora perché l’intonaco bianco dell’ecomostro dell’Ara Pacis a Roma resta immacolato nonostante i branchi di grafomani in circolazione. I vigili, diurni e notturni, sono pronti a fulminare qualsiasi zombie che puntasse le sue bombolette su quella specie di garage anni cinquanta. È giusto, a differenza di una autentica architettura che sopporta stoicamente le ferite inferte nei muri e nel marmo – addirittura i millenari obelischi sono scempiati senza alcuna guardia –, le recenti costruzioni di Venezia e di Roma non reggono i graffiti, basta poco, uno striscio, una tacca, un segno osceno, per trasformarsi in un anonimo muro del Bronx dove gli adolescenti infelici scaricano la loro rabbia. Che ne sanno quelli (e i loro protettori accademici) dell’insegnamento terapeutico di Bonaventura per tutti i rabbiosi: ««Sensus tristatur in extremis et in medis delectatur»?

mercoledì 19 novembre 2008

Letture / Il deserto della Terza Roma

NELLA RUSSIA RACCONTATA DA WEIDLÉ VENGONO FUORI LE PREMESSE STORICHE E ARTISTICHE DELLA VIOLENTA RIVOLTA DI MALEVIC E KANDINSKIJ ALL’ALBA DEL NOVECENTO, QUELLA ICONOCLASTIA CHE RAGGIUNGERÀ PRESTO L’OCCIDENTE.
...
Per ben due volte, l’«Almanacco Romano» ha citato un personaggio pressoché sconosciuto al pubblico italiano e adesso, come promesso, cominciamo a tradurre qualche pagina della sua opera. Vladimir Weidlé, nella trascrizione dal cirillico Vladìmir Vejdle (1895-1974), nacque a San Pietroburgo e nella sua città natale, ancora molto giovane, insegnò all’università. Dopo aver lasciato la Russia nel 1924, si stabilì a Parigi. Su proposta del teologo Bulgakov fu assunto all’Istituto di teologia ortodossa come docente di Storia dell’arte. Il filosofo Berdjaev lo invitò a scrivere sulla rivista dell’emigrazione «La voie» e qui pubblicò i primi saggi sulla crisi dell’arte moderna, poi confluiti nel suo libro più importante, Les abeilles d’Aristée (Le api di Aristeo) che influirà non poco sul lavoro di Hans Sedlmayr, l’austriaco che è stato forse il più duro e intelligente avversario dei prodotti estetici contemporanei. Critico, letterato, pensatore della modernità, erudito conoscitore della cultura dell’Occidente, Weidlé scrisse di mosaici veneziani e di icone, di arte moderna e di poesia europea. Diresse anche i programmi della Radio Liberty per la Russia. Morì esule nel 1974.
Avremo modo di tornare anche sugli aspetti biografici di Weidlé quando presenteremo la sua opera dedicata all’arte. In questo primo approccio, partiamo invece da un aureo librino, uscito presso Gallimard nel 1949 e intitolato
La Russie absente et presente, dove lo «storico geniale della Russia» – come lo celebrò il nostro slavista Ettore Lo Gatto – non dedica che pochissime righe ai fenomeni estetici ma ci presenta utilissimi quanto indiretti spunti per ricostruire una storia della iconoclastia moderna, di cui alcuni celebri russi del Novecento furono i protagonisti. Di questo scritto offriamo appena dei piccoli antipasti.
[I titoletti dei paragrafi sono nostri]

FOLKLORE VS. GRANDE ARTE
Gli studiosi tedeschi del folklore, per descrivere quel che succede a una poesia quando si trasforma in canzone popolare, impiegano la parola zersingen; diremo allora che tutta la cultura dell’antica Russia è stata zersungen, è diventata folklore prima ancora di essere rimpiazzata da una civiltà importata dall’Occidente. L’affresco e l’icona in piena fioritura ornamentale del XVIII secolo, l’architettura che non mira ad altro che alla scenografia e non si preoccupa più di spazio e di costruzione, dei racconti d’avventura senza stile e senza approfondimento, tutto questo non può sostenere alcun paragone con la Trinità di Rublëv, con le chiese del XII secolo o quelle della prima metà del XVI, con i sermoni di Cirillo o le Gesta di Igor. La poesia orale e le arti popolari della Russia superano molte altre per la ricchezza delle forme e il calore dell’emozione che esprimono, ma si sono sviluppate a spese della grande arte, dell’alta letteratura, e si sono diluite in meandri e intrecci senza fine.

FIGURINE PER L’ALMANACCO DEI CAVALIERI AZZURRI

Ai tempi di Pietro il Grande. […] In Germania è Tiziano che si scontra, diciamo così, con Grünewald, lo spirito di Leonardo o di Machiavelli che urta quello che aveva ispirato Mastro Eckhart e Jacob Boehme, mentre la cultura in declino, in gran parte già disintegrata, dell’antica Russia ha ricevuto il colpo di grazia in un altro modo. Essa fu sommersa da stampe di terz’ordine e da orribili quadretti olandesi trompe-l’oeil (unica forma d’arte compresa dallo zar), da embrioni a due teste conservati nello spirito di vino, e dai manuali di bon ton che sconsigliavano di costruire un intreccio di ossicini intorno al proprio piatto durante i banchetti ufficiali o di appendersi da una finestra in presenza delle signore.
Così si concludevano sette secoli di vita russa. Non bastava relegarli nel passato, condannarli, rimpiazzarli (in mancanza di meglio) con la paccottiglia; bisognava renderli abietti e ridicoli. Lo zar tagliò lui stesso le lunghe barbe patriarcali ai suoi cortigiani; ordinò a tutti i sudditi, con l’eccezione dei preti e dei contadini, di radersi il mento e di vestire secondo i modi occidentali. Dei costumi che appartenevano completamente alla vita privata furono cancellati, e altri, come l’albero di Natale importato dalla Germania, resi obbligatori. Lo zar amava organizzare delle indecenti parodie delle processioni religiose, alle quali prendeva parte lui stesso, e il suo vecchio precettore Zotov, con una mitria rivestita di una immagine oscena di Bacco, era costretto a interpretare il ruolo del «buffonissimo e molto ubriaco patriarca».

UN NICHILISMO SPECIALE

Le idee rivoluzionarie, quando penetravano in Russia, si ponevano nella prospettiva del nichilismo, che è una attitudine mentale senza niente a che vedere con i principi scettici o relativistici né con le credenze positive che hanno fatto le rivoluzioni d’Occidente, ma che si può definire come una fede ardente nella Negazione o, più esattamente, come l’affermazione appassionata del non valore di tutto quello che era considerato valido nel mondo della religione, dell’arte o della morale. Il nichilista guarda come nullo e come privo di senso tutto quanto non abbia un valore puramente animale relativo a una necessità quale la fame o l’istinto sessuale; ma l’affermazione di questa nullità, la distruzione dei valori, costituisce essa stessa ai propri occhi il valore supremo, per il quale si è pronti a dare la vita, creando così una specie di religione al contrario di cui, nel caso ci si farà martiri. Nella sua qualità di religione al contrario, essa autorizza l’assassinio e in generale non riconosce il carattere sacro della persona umana; ma siccome è pur sempre una religione, essa dà ai suoi adepti la certezza e l’audacia che spingono all’azione, ossia all’azione eroica; i terroristi russi che ha formato sono spesso delle vergini e degli asceti, dei santi dalla spada sanguinante e dall’aureola nera.
Il nichilismo non è altro che la conseguenza diretta di un complesso ideologico, largamente sparso nella cristianità scristianizzata a partire dal XVIII secolo e che si può chiamare oscurantismo razionalista. Ora, l’originalità del movimento rivoluzionario russo consiste proprio nell’avere spinto questa ideologia al suo estremo limite e di averne dedotto quello che altri si erano astenuti dal dedurre. L’oscurantismo razionalista può non esser altro che una espressione relativamente inoffensiva della mediocrità umana che esalta una ragione di cui essa è lungi dall’esserne provvista. Il signor Homais [il farmacista di Madame Bovary, ndt] si preoccupa più del suo benessere che della sua irreligione e trae da questa piuttosto un tema di chiacchiere piuttosto che un principio di condotta. In Francia, soltanto certi eccessi del furore combista [movimento ferocemente anticlericale, ndt] potevano dare una idea di quello che fu in Russia il positivismo militante degli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento. Un russo non può riandare a quegli anni senza rievocare una particolare atmosfera, fatta di materialismo ingenuo e di utilitarismo intransigente, di accettazione obbligatoria delle «idee avanzate» che consistono nel rigettare senza discussione tutto ciò che non può essere dimostrato in tre minuti ai cervelli più limitati e a sostenere che Shakespeare non vale un paio di stivali, che le metafore del linguaggio poetico non sono altro che delle menzogne spudorate. L’idolatria della scienza, corollario inevitabile dell’oscurantismo razionalista, ha prodotto in Russia a quel tempo un atteggiamento spirituale risolutamente ostile alla libera ricerca scientifica. Ciò che non era che una ipotesi in Occidente, si trasformava qui in un dogma, e ogni ipotesi contraria era considerata come una eresia. Per un adepto del darwinismo semplificato, quale quello di Pisarev, un partigiano di Lamarck assumeva i panni del traditore, del fuorilegge. […] Tutta la filosofia, tutta l’arte, tutto l’umanesimo non potevano che essere sospetti a tali spiriti. […] Questa grande pulizia degli spiriti, questa tavola rasa accuratamente sono indispensabili affinché il movimento nichilista possa rivelare la sua forma suprema, il terrorismo. Ma questo sforzo, d’altra parte, necessita di un tale impegno dell’intero essere che ciascuno ne riceve come una consacrazione tragica. Inoltre, non è soltanto la negazione né l’odio che conducono il terrorista all’azione, ma anche qualcosa di positivo che non deriva affatto dal nichilismo teorico. Anche lui, come il ‘nobile pentito’, come il maestro del villaggio o il medico che cura gratuitamente i contadini, come tutta la intelligentsija che si sacrifica a quel che crede essere l’interesse del popolo, agisce, secondo la giusta annotazione di Solovi’ev, mosso da questa strana deduzione: «l’uomo discende dalla scimmia; amiamoci dunque gli uni con gli altri». Grattate il terrorista, troverete il filantropo; continuate a grattare e finirete per trovare il pio cristiano.

L’AMORFO E LA PAURA DELL’ARTE

Ogni forma fissa, ogni idea di regola e di sanzione sono contrari ai desideri profondi del russo. Se vi è una fobia che gli è propria e che si manifesta bene sia nella vita di tutti i giorni che nelle più alte creazioni del suo genio è quella della forma che egli è sempre tentato di considerare come una maschera, come un brillante velo che non può non ingannarci sulla natura reale di quel che esso avvolge. Nessun popolo è meno attratto di lui dalla superficie delle cose, né così pronto a preferirla grossolana affinché si possa esser sicuri di non finire vittima dei suoi artifici. Ogni forma gli è sospetta in quanto affettazione e in quanto reticenza, perché essa esibisce una menzogna e, allo stesso tempo, nasconde una verità. […] Un russo metterà sempre un po’ di ironia nell’attribuire a chiunque sia una «bella prestanza», e d’altra parte, il termine «corretto» non mancherà di sembrargli mortalmente noioso. Una grande riserva evoca necessariamente per lui l’idea di freddezza e non ammetterà facilmente che una autentica cordialità possa andare di pari passo con una impeccabile cortesia. Secondo lui, ogni specie di formalità dovrebbe essere bandita dai rapporti sociali, e l’uomo non dovrebbe mai avere coscienza di stare a interpretare un ruolo. Nulla di meno russo del Paradosso dell’attore, perché in Russia anche l’attore non deve giocare un ruolo ma piuttosto viverlo sulla scena. Non si tratta in tutto questo di un semplice odio dell’ipocrisia, bensì di un istinto per il quale ogni forma appare come una ipocrisia, inutile e fastidiosa. […] Il ministro Stolypin, quando gli fecero notare che aveva commesso un solecismo nel suo discorso al Parlamento, rispose non senza veemenza: «il russo è la mia lingua, ne faccio quel che voglio». Un tale atteggiamento verso la lingua doveva ritardare e rendere incompleto il suo ancoraggio in forme relativamente stabili e sottomesse a un certo controllo. La Russia possiede una lingua letteraria comune soltanto dal XVIII secolo in poi e ancor oggi è per molti versi fluttuante, anche per quello che concerne la pronuncia di alcune parole. Nella struttura stessa del verbo, come in quella della frase, si fa sentire una mancanza di disciplina logica e, per corollario del resto, una elasticità e una libertà di espressione che supera quelle di cui dispongono le lingue occidentali. Le parole vi cercano non tanto il riferimento esatto quanto la risonanza profonda, sono più spesso dei simboli che dei segni. È per questo motivo che la lingua della poesia è meglio dotata di quella della prosa, e la prosa di immaginazione raggiunge un maggior grado di perfezione della prosa saggistica. […]
Il sospetto nei confronti delle forme, il desiderio di neutralizzarle non sono dei sentimenti favorevoli all’artista, e l’arte russa del secolo scorso ha molto sofferto della paura dell’arte. La mancanza di fede nella pittura come tale ha condotto il pittore a utilizzare dei procedimenti tecnici qualsiasi e ad applicarli come un talismano, nella speranza fallace che «l’anima» e il «sentimento» avrebbero avuto ragione di tutte le difficoltà e avrebbero compensato largamente tutte le insufficienze.

IL MOTIVO DELL’ODIO PER LE FORME

Quel che offre la spiegazione di questa rivolta contro la forma è che la Russia antica non l’aveva mai conosciuta. I suoi pittori di icone, i suoi architetti, i suoi predicatori non temevano affatto di aspirare alla perfezione formale; la bellezza che vedevano non sembrava loro avere niente di scandaloso. Ora, se avevano questo atteggiamento, è perché nessuno chiedeva loro di concepirla fuori del suo contesto naturale; essa restava quella che ai loro occhi era sempre stata: un riflesso della gloria divina. Solo la Russia laicizzata degli ultimi due secoli si è vista costretta ad affrontare la bellezza discesa sulla terra, disgiunta dagli altri attributi della divinità, separata dalla beatitudine celeste. Nulla mostra meglio la persistenza del bisogno religioso nell’anima russa del rifiuto che essa oppone a questo nuovo stato di cose. Perché l’odio delle forme – proprio come il timore del diritto – non è nient’altro, nella sua fonte essenziale, che il rifiuto di riconoscere la sovranità di un valore dissociato da altri valori, strappato dall’unione di tutti i valori in Dio.

sabato 15 novembre 2008

minima / I funzionari del sottosuolo

Estremismi feticisti contrapposti nel duello rusticano in corso, ai bordi di Campo Vaccino, tra chi vuole abbattere gli alberi centenari per necrofilia archeologica e chi non poterebbe neppure un ramo marcio per superstizione cloro-filiaca. Fa comunque impressione nella cultura romana di oggi lo strapotere degli archeologi che sovraintendono alla nostra vita quotidiana, non solo per i tagli degli alberi in superficie, quanto per i reiterati veti che nei decenni impedirono le linee metropolitane sottoterra, bloccando i movimenti della città, rubando negli ingorghi ore e ore del tempo assegnato ai viventi, confinando alle sole automobili il trasporto per l’urbe, crimine senza pari anzitutto verso le antichità e le belle arti. Decidono loro sul regno sotterraneo come sul terrestre, forse anche su quello celeste dello skyline, e sempre privilegiano le ragioni del mondo dei morti sull’ambiente dei vivi. Pedanti funzionari del sottosuolo, dell’underground (senza treni), vanno alla ricerca di fantasmi pagani nell’averno che calpestiamo, collezionano vanamente resti, cocci, frammenti indecifrabili della storia, si mobilitano per una villetta sepolta nelle tenebre, archiviano da travet il passato epico. Il che appare straordinariamente paradossale in una classe dominante che rifiuta per principio, e come una faccenda ridicola, ogni richiamo alla tradizione. È il complesso dei domestici che hanno ereditato casualmente dai padroni e, timorosi, non toccano niente, ma contemplano in punta di piedi il patrimonio sotto vetro che si impolvera inutilmente. Quando la tradizione era legge, i degni eredi, i papi, prelevavano le dee e le convertivano in sante o saccheggiavano i marmi imperiali per farne templi cristiani, consapevoli che il mondo era a loro disposizione. Allora Borromini sottraeva la bronzea porta all’antica Curia, la inchiavardava a San Giovanni in Laterano e tempestandola di stelle a otto punte la tramutava in un ingresso trionfale della cattedrale dell’universo.

giovedì 13 novembre 2008

minima / Giochi contemporanei all’ospedale

Il 25 ottobre quest’«Almanacco» ricordava gli ospedali svuotati degli infermi, cui la tradizione li aveva destinati, per essere trasformati in musei. Ieri l’Enel, mecenate delle imprese estetiche contemporanee, porta una installazione al Policlinico di Roma, una incursione museale nel luogo del dolore. Arte del conforto che parla al cuore e alla mente dei doloranti? The Waiting Room, così si intitola il piccolo circo alimentato da pannelli fotovoltaici, invocando i luoghi comuni ecologici, si mette a giocare con fungoni violacei e sfere di plastica, secondo le più scontate fantasie del genere. Ma chi sta chiuso in quel purgatorio ha davvero voglia di spiritosaggini ludiche? O saranno i familiari dei malati a distrarsi con simili puerilità? Piuttosto il piccolo pubblico di tali mostre avrà trovato uno spazio più hard per i suoi balocchi. Ovvero, lo spettacolo della morte e del disfacimento, sottratto al tragico e ridotto a performance. Installatore e azienda elettrica che fa da patronessa dell’iniziativa parlano cinicamente di «energia nuova».

sabato 8 novembre 2008

De Chirico alla Casa delle Muse

Il 19 NOVEMBRE, NELLA ROMANA GALLERIA NAZIONALE D’ARTE MODERNA, CHE TANTO LO OLTRAGGIÒ IN VITA, SI INAUGURA UNA MOSTRA DI OPERE DEL PICTOR OPTIMUS IN DIALOGO CON I MAESTRI DELLA TRADIZIONE. LEGGIAMO LE SUE PAROLE COME VIATICO PER QUESTO VIAGGIO NEL MUSEO IMMAGINARIO CHE SI TENTA DI RICOSTRUIRE

«O Ebdòmero, disse, io sono l’Immortalità…»

Le folle che vengono trascinate per mostre e musei, a maggior esaltazione del consumo turistico, dovrebbero tenere a mente le parole che Giorgio de Chirico scriveva nelle prime pagine delle sue spumeggianti Memorie della mia vita (anche in tascabile, Bompiani 2002) a proposito di una faticosa gita per chiese e pinacoteche di Venezia: «penso che quella noia che mi fu imposta allora che ero un ragazzo, tante persone adulte d’ogni Paese e d’ogni razza, benché indipendenti e padrone delle loro azioni, se la impongono volontariamente, quello che prova l’infinità stupidità umana. Io allora se avessi potuto fare quello che volevo, invece di andare tutto il giorno in giro per i palazzi e le gallerie a faticarmi in quel modo, avrei passato le mie giornate al caffè Florian a consumare paste con la crema e gelati di cioccolata». Valéry, sdegnoso dei musei per gusto gaudente, avrebbe concordato.

Ma i saggi frequentatori dei caffè nonché golosissimi della cioccolata si alzino una volta tanto dalle loro poltroncine il 19 novembre, mercoledì, per recarsi in un museo moderno, in quella Gnam come si chiama oggi per vezzo infantile la post-risorgimentale Galleria nazionale d’arte moderna, onde assistere alla inaugurazione di una mostra del Pictor Optimus del Novecento. Gli iconofili vi troveranno i quadri del massimo artefice di immagini della italica modernità («Giorgio de Chirico ha inventato l’Italia» diceva Fellini) mentre dialoga con i maestri del passato, la prova vivente che le figure possono scaturire anche nel nichilismo del nostro tempo, nonostante il pessimistico borbottio di filosofi e teorici vari, in sfida audace e difficile al nichilismo. Quanto a coloro che sono attaccati alle terrasses dei bar e allergici alla polvere dei musei, due sole eccezioni si richiedono: Bellini e de Chirico bastano per l’inverno romano.

Si intitola «De Chirico e il museo» la mostra che ha scelto come tema il rapporto con la tradizione nell’opera di un artista che le avanguardie avrebbero tanto voluto dalla loro parte, tentando di allestire un museo immaginario dei suoi quadri che meditano sull’antico, che intrecciano le maniere. Chissà se si racconterà in catalogo delle innumerevoli offese inferte dal museo, dalla Gnam in questione, al pittore quando era in vita e già venerato in mezzo mondo. De Chirico ne accenna nella sua autobiografia, è buono ricordarle, non per confortare i falliti della loro oscurità, quanto per punire il vizio provinciale sempre riaffiorante nella cultura del dopoguerra, la mesta cecità nei confronti delle meraviglie d’Italia.

Quando si smise di giudicare quello che si faceva fuori della penisola «con equilibrio e buon senso, senza livori insinceri e ostilità di programma, come durante il fascismo, ma anche senza sdilinquamenti e folli passioni come si fa ora», cominciarono i guai esterofili e si perse la stima degli stranieri. A dire il vero, de Chirico era uno dei pochi ad averla mantenuta sempre intatta, ma nemo artifex in patria, avrebbe potuto confermare Dürer, che si lamentava della barbarie tedesca insensibile alla sua pittura, mentre otteneva la lode dei geniali confratelli al di là delle Alpi: «Hier bin ich ein Herr, daheim ein Schmarotzer».

Della Gnam, che ancora non si chiamava con questo nome dal suono mandibolare, detestava molte cose. Ne ricordiamo qualcuna, per rivederla magari con altri occhi nel giorno della sua mostra lì nei pressi. «Voglio parlare dell’allestimento delle sale della Galleria d’arte moderna a Valle Giulia. La scelta delle opere che vi sono attualmente esposte è fatta in modo oltremodo tendenziosa. Per proteggere, difendere e giustificare la scemenza, l’impotenza e l’ignoranza dei pittori moderni, per poter gettare della polvere negli occhi della gente riguardo il provincialismo e la nullità della pittura moderna, si è voluto rappresentare in quella galleria tutta l’arte italiana del secolo scorso con qualche ridicolo ritratto di Mancini, ove la cartolinesca pittura delle facce contrasta buffamente con il modernismo casalingo d’un mezzo quintale di nero d’avorio inutilmente sprecato per dipingere gli abiti, poi ancora con un altro paio di ritratti di Boldini, legnosi e falsamente eleganti, e con qualche pittura di Spadini, scelte fra le più mediocri, d’un secessionismo di seconda classe. Dove sono le opere di Giacinto Gigante, di Palizzi, di Giovanni Carnovali, di Fontanesi, di Segantini, di Previati, di Vincenzo Gemito?». I nomi che invano egli cercava nelle sale di Bazzani, risuonavano felici nelle sale delle Scuderie del Quirinale durante la recente mostra sull’Ottocento che ha provato a ridare il giusto peso a questa illustre schiera.

Ma la sua avversaria preferita era la direttrice della Galleria: «anche oggi, dopo tanti anni, vedo nella mia memoria la dottoressa Bucarelli guardare quelle mie bellissime pitture con l’espressione fredda, distante e disgustata, simile all’espressione che avrebbe una cuoca d’alto bordo, quelle che i francesi chiamano cordons-bleu, recatasi a far la spesa per un pranzo molto importante e che stesse guardando davanti ad una bancarella alcune rape mezzo marce e bacate. Questo atteggiamento della illustre dottoressa è una delle tante prove irrefutabili della sua profonda incomprensione per quanto riguarda la pittura. Infatti la dottoressa Bucarelli [...] è una ardente sostenitrice di tutte le più brutte, trite, noiose e sceme manifestazioni della cosiddetta arte moderna». Tuttavia, la dottoressa-massaia-al-mercato che non amava davvero la sua pittura fu insignita di un grande omaggio da un altro de Chirico: il ritratto che le fece Savinio, tramandandola assai affascinante nei secoli.

Nel dopoguerra fu costretto a organizzare mostre in casa, le gallerie romane si accendevano per il nuovo, che noi abbiamo poi rapidamente dimenticato, e in una di queste mostre, con i quadri sul divano e sulle poltrone del salottino di via Mario de’ Fiori, fu invitata a prendere il tè tra amici e conoscenti «la dottoressa Palma Bucarelli, direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, galleria che, per antonomasia, molti chiamano il Museo degli Orrori». Tanta divertita ostilità nasceva dal fatto che alla «dottoressa» la pittura dechirichiana non sembrava proprio piacere, ma c’erano anche motivi contingenti: mentre Giorgio de Chirico doveva ingegnarsi in spazi espositivi ricavati alla buona, la Galleria Nazionale metteva a disposizione le capienti sale per le opere del suo rivale di gioventù, Picasso, e la indomita direttrice convinceva il capo dello Stato a presenziare al vernissage dello spagnolo, fatto raro a quei tempi, ma poi nonostante tanta ufficialità, l’artista acclamato non si degnava nemmeno di un viaggio da Parigi per partecipare alla festa che gli si tributava nella città eterna.

Dalla nostra distanza, con il Novecento archiviato, De Chirico appare l’unico che si potesse misurare con Picasso, addirittura con minori concessioni agli idoli del tempo, con minori scorie del Moderno. Due geni del Mediterraneo, provenienti da luoghi ormai periferici, la Spagna e la Grecia. L’artista italiano aveva ripercorso gli itinerari del mito classico per poi inventare la «mitologia moderna» (come ammise Breton) e attraversare indenne ed elegante la rivolta del Novecento, da «gentiluomo del XX secolo», come pure fu definito, a cominciare dalla Monaco di Baviera, prima tappa della sua vita artistica: «‘È il paradiso, il paradiso sulla terra’ pensavo. Però in quel paradiso stava maturando, proprio in quegli anni, una grande calamità: la pittura moderna [...]. E circa un quarto di secolo dopo doveva nascervi una seconda calamità, ben più tremenda della prima: il nazismo». Passò quindi per Parigi, lasciandovi un segno decisivo, si spinse nella culla di questo modernismo, ovvero là dove fu distrutto il regno romano delle belle arti che era sopravvissuto poco tempo al suo ultimo sovrano, Antonio Canova: «A Parigi l’attività dei mercanti per valorizzare ed imporre la pittura decaduta e decadente principiata con l’avvento degli impressionisti fu più accanita e più insistente che in qualsiasi altro luogo».

Si spera che l’impostazione della mostra rifugga ormai le vecchie questioni del prima e del dopo la data fatale, frontiera cronologica imposta per consacrarlo avanguardista di una stagione e dannarlo per i decenni delle altre ‘maniere’. Del resto, chi presentò il mondo in chiave metafisica come un redivivo Platone non poteva essere apparentato agli ‘epicurei e stoici’ delle avanguardie. Se infatti risultò nuovo per la sua unicità, non fu così frivolo da idolatrare la novità per una vita. Preferì inseguire nel tempo la perfezione (idea poco praticata nella sua epoca). Non fu mai ‘rivoluzionario’, infatti, né alla moda e meno che mai alla mercè della opinione altrui. Nato in Grecia, universale come un greco, italiano cosmopolita in epoche di nazionalismo acceso, celebre a Parigi come a New York, scelse Roma per vivere e lavorare. Abitava nel centro della città – e quindi «nel centro del centro del mondo, quello che sarebbe il colmo in fatto di centrabilità ed il colmo in fatto di antieccentricità» – diceva salace. Dimorava in una capitale mediterranea, panica, sempre ribollente, torrida, afosa. Nelle sue memorie, torna insistente il caldo romano: «gli americani avevano fatto esplodere su Hiroshima la bomba atomica […] e c’era chi diceva allora che quel caldo opprimente era dovuto all’esplosione cosiddetta termo-nucleare. Anche ora vi sono molti che attribuiscono le anomalie meteorologiche alle esplosioni atomiche effettuate in Russia e negli Stati Uniti. Io però ci credo poco e mi sembra che la situazione meteorologica sia su per giù quella che è sempre stata» (si è classici anche nei dettagli). Di Roma accettò le miserie novecentesche, le misure ristrette, vieppiù paesane, i traslochi negli appartamenti ammobiliati, i tragitti brevi e quotidiani, accerchiato da molti sguardi, tra casa sua a piazza di Spagna e il Caffè Greco, negli ultimi anni svuotato di artisti e di personaggi, riempito di anonimi turisti. Era il nume tutelare della città, imponente e beffardo, fissava il nostro povero mondo dei Cinquanta e dei Sessanta. Appunto come una divinità se ne stava sospeso, benché la sua figura fosse grave, sopra le bagattelle locali, le dispute effimere nelle trattorie rissose (aveva già assistito, mezzo secolo prima, a simili controversie bizantine tra i saccenti che si riempivano la bocca di modernità, era déja vu per lui). L’unica volta, crediamo, che firmò un appello, fu quello al papa, promosso da Cristina Campo e sottoscritto da alcuni tra i più prestigiosi personaggi del tempo – da Auden a Borges, da Dreyer a Julien Green, da Benjamin Britten a Marìa Zambrano (scegliendo a caso) – per mantenere la Messa in latino. Restano nella mente delle istantanee con le sue pose solenni, a qualche mostra, da un palco del Teatro dell’Opera alla prima di un Tristan und Isolde messo in scena da un bizzarro pronipote di Wagner, e si sarebbe voluto interrogare quel volto da sfinge per ascoltare un suo arguto commento.

Nella Roma dove riaccese i bagliori di Rubens, «la bestia nera di tutti i modernisti», dove il 20 novembre del 1978, esattamente a trent’anni dal primo giorno di questa mostra, abbandonò la vita terrena per entrare nell’empireo degli artisti beati, restano poche tracce del suo passaggio: la casa-museo a Trinità dei Monti; il gruppo scultoreo di Ettore e Andromaca, davanti all’Aranciera di Villa Borghese, che fu visto attorniato da domestiche immigrate da altri mondi commosse per la scena dell’addio («le mie opere […] in fondo piacciono a tutti, in contrasto con le pitture moderniste che non piacciono a nessuno»), gruppo scultoreo en plein air che fa da guardia a un nuovo museo ‘americano’ dove i suoi quadri sono a contatto sacrilego con i pop; la tomba sotto un altare della chiesa di San Francesco a Ripa, fuori dal tempo ma spazialmente attaccata alla Ludovica Albertoni di Bernini, splendori barocchi che garantiscono reciprocamente l’eternità. Nei suoi quadri però c’è moltissima Roma, la sua luce, la sua trionfale resistenza al tempo.

Soffrì l’ignoranza e l’astio dei funzionari culturali e dei critici. Si legga ad esempio una recensione della povera Quadriennale del 1965, con il tono di sufficienza per i suoi quadri, ripetendo senza vergogna come scolaretti il dogma del déluge dopo il ‘periodo metafisico’ e andando oltre, nell’insulto involuto. Per i giovani che vogliono capire un clima senza troppe lungaggini si riporta, omettendo per pietà il nome dell’autore ora ben noto, un frammento dal periodico «Palatino» (anno X, gennaio-marzo 1966): «…al di là delle stanche e senili presenze attuali di Carrà, di Campigli […] che s’accompagnavano a quella, come ormai da anni volgarmente rinunciataria, di De Chirico nel costituire un lotto di mero significato commerciale, a livello assai basso (la dignità del pittore è anche nel prevenire le conseguenze dell’imbolsimento senile)». Così si esprimevano quegli sgraziati che si affannavano, con periodare penoso, su giornaletti alla periferia del mondo, tra trombonismo pezzente (che invidiava le ricchezze) e il beat incipiente. Del fastidio arrecato da petulanti giornalisti, lui stesso ci ha lasciato invece una ironica e diretta testimonianza nel documentario involontariamente divertentissimo «A tu per tu con l’arte», che può essere rinvenuto, nelle teche online di Rai Click, con qualche colpo di mouse.

Non gli fu conferito un premio, né gli si organizzarono mai grandi retrospettive, gli fu perfino negata (dal ministro fascista Bottai) una cattedra in una qualsiasi accademia di belle arti, ed era la nostra maggiore gloria contemporanea. Vittima della cafoneria esterofila, ma anzitutto dello splendore della sua opera che sconfessava la pittura «informe e deforme», smentiva l’impossibilità moderna di dipingere, si misurava alla pari con gli antichi.

The late Chirico, come sintetizzano gli americani quando vendono tele preziose vere o false dell’italiano, è stato un grosso problema per gli storici dell’arte, un caso. Perciò scavano nelle contraddizioni come fosse un concettuale, contrappongono filologicamente i suoi testi, non le opere, di decenni diversi della sua lunga e olimpica vita, spettegolano di gelosie, rinvengono benevolenze (rare) verso qualche modernista che gli era passato accanto, il tutto pur di svalorizzare quanto lui è andato dicendo e facendo lungo l’arco del Novecento. Incapaci di accettare che un sommo artista possa essere diverso dall’opinione comune, che il talento – nonostante le rassicurazioni democratiche del Bauhaus («si è tutti artisti») – faccia la differenza. Come è possibile – si domandano – che un uomo lontano dalle baruffe storiche che tanto hanno coinvolto questi critici sia poi capace di creare simili opere, negando sonoramente l’impotenza pittorica del nostro tempo?

Così, mai si prese sul serio quel che affermava, nonostante l’abitudine a recepire come parola sacra qualsiasi sciocchezzaio dei contemporanei burloni. Non poteva essere vero né serio che non si avesse fede nelle sorti progressive. E come spiegarsi che l’antimodernista aveva dettato le forme del Novecento, anticipato le architetture e gli snodi delle città innovate, e il clima e i suoni e l’anima insomma? C’era inoltre un problema nel problema, quello per cui colui che dipingeva all’antica, che non voleva saperne di modernismo, che si ispirava alla tradizione, diventava a sua volta una ispirazione per i più estremi contemporanei che, dal re del pop a i nostri scolari di Piazza del Popolo, hanno rifatto a modo loro le icone, come direbbero, dechirichiane. Un bel rompicapo che ridicolizza l’accanimento ‘trasgressivo’ dei finti artisti, o semplicemente dei finti, e quantomeno rende più confuso il confine con la tradizione, sbiadendo quella rottura di cui ci si vanta perennemente (con i vessilli francesi e russi) che si agitano in simili casi, rivendicando la Legitimität der Neuzeit, la legittimità del moderno in versione artistica, che invece è meno lineare di quanto appaia a prima vista. Pertanto, se ancora proviamo il piacere di scrivere e leggere parole, al di là dei media usati, de Chirico ci mostra che il piacere della pittura su una superficie, del racconto per immagini, è ugualmente legittimo e possibile. «Tel est notre bon plaisir». Ecco lo scandalo.

Spiegava la fedele Isabella Far: «Era l’epoca in cui nasceva lo ‘spirito moderno’ con una marea di teorie, di tendenze e di nuove scuole. Lo spirito moderno costruiva tutta una nuova impalcatura di parole e frasi che falsavano il significato di molte concezioni, convinzioni e rappresentazioni, quel consenso di ragione e spirito che alcune forti intelligenze avevano saputo elaborare e conquistare. Ai nuovi profeti diventavano intollerabili persino i trofei della nostra cultura morente. Ciò che a loro conveniva di più era distruggere. La loro lotta ebbe successo, dato che essi riuscirono perfettamente nella distruzione, ma molto, molto meno nella costruzione. Così, la realtà dell’arte era una delle loro bestie nere; bisogna dire un po’ per giustificarli, che la confusione e il disorientamento in pittura erano stati prodotti dall’assenza di pittori importanti che facessero almeno dell’arte…».

Naturalmente va sempre precisata la differenza tra una mascherata nella storia e il tentativo vittorioso di sconfiggere il tempo. C’era chi si inebriava della corsa temporale, che si eccitava del carattere effimero celebrandolo e chi – come lui – bramava l’eternità, provava «il brivido dell’eternità». Il «sentimento originario» in luogo dell’«originalità», l’«emozione primordiale» che rincorreva in Hebdomeros (1929). La citazione allora non era mai uno sberleffo, un segno anzi un segnale come nella produzione moderna, piuttosto un sacramento dell’antico che consacra l’eternità.

Creatore e restauratore dell’antico, guardava al mondo del passato come a un mistero ormai, poetico anche per la distanza, il che può evocare il panpoetismo di Novalis ma pure la devozione per l’antichità che nutrì l’umanesimo italiano di un Ghirlandaio. Un classico non più sereno, tuttavia, secondo la lezione di Nietzsche, ma senza il chiasso dionisiaco: anche l’apollineo manca della piena serenità e si tinge di malinconico come la natura degli umani che mai trova sferica pienezza.

Si era incuriosito ai miti classici e addirittura arcaici forse per dono degli dèi, per evenienza familiare che lo portò in un angolo della Tessaglia a contatto con le reliquie dell’antico in un piccolo museo locale e tra i profumi mediterranei del posto, per il classico rivisitato dai bavaresi dell’Ottocento che ebbe modo di vedere a Monaco, per la lettura di Nietzsche che stregò la sua generazione, saggiamente diluito tuttavia nell’anima meridionale, nella cultura cattolica del ritrattista di Pio XII.

Chi sapeva mettere insieme il mare classico e i trasporti arditi degli uomini, i gesti del mito e la tecnè possente, le forme poetiche e, nascosta là dietro, la brutalità moderna, l’esattezza spirituale del classico e la melanconia, poteva stare accanto a un altro novecentesco che tentò di annientare il tempo fuorviante e crudele dei forestari, Ernst Jünger, soprattutto in Auf den Marmorklippen, sulle scogliere di marmo.

In molti si chiesero che cosa avesse trasformato il beniamino delle avanguardie – in particolare dei «degenerati» surrealisti, come li chiamava – nel cultore della tradizione. Il diretto interessato lo spiegava così, parlando in forme narrative saviniane di un vero e proprio evento miracoloso: «Fu al Museo di Villa Borghese, una mattina, davanti a un quadro di Tiziano, che ebbi la rivelazione della grande pittura: vidi nella sala apparire lingue di fuoco, mentre fuori per gli spazi del cielo tutto chiaro sulla città, rimbombò un clangore solenne, come di armi percosse in segno di saluto e con il formidabile urrà degli spiriti giusti echeggiò un suono di trombe annuncianti la resurrezione». C’era bisogno di un intervento celeste ormai per dipingere come un tempo, nulla appariva scontato, si era perduta l’ingenuità, come assicurano i pensatori dall’Illuminismo in poi. Ma la fiamma pentecostale, il Santo Spirito invocato con coro possente da Mahler nella sua Ottava Sinfonia pochi anni prima, serviva soltanto a rimettere in moto l’arte con il mito; successivamente, affermava in prosa, «con lo studio, il lavoro, l’osservazione e la meditazione ho compiuto progressi giganteschi». Altri prodigiosi interventi si erano avuti, quando inaugurò la maniera metafisica, nella piazza Santa Croce di Firenze; le fasi artistiche della sua vita erano tutte all’insegna del miracolo, dell’enigma pieno di grazia.

In quella specie di manifesto titolato Il ritorno al mestiere invitava, fin dal 1919, «i pittori a rendere omaggio alle statue», a rendere rispettoso omaggio all’antico. Dirà in un’altra occasione: «Solo dopo che si avrà copiato per decine e centinaia di volte disegni e studi di alberi fatti da autentici maestri come Tiziano, Rembrandt, Poussin, Claude Lorrain, Fragonard, ecc. si potrà, in seguito, copiare un albero dal vero, e allora lo si farà con maestria e sicurezza». Il che suonava paradossale pittura ‘dal vero’ in chi si vantava di prendere la tavolozza e davanti al cielo ‘fiammingo’ della sua terrazza romana al tramonto raffigurarlo, ma per specchio della tradizione, con un netto antinaturalismo. Il principale motivo era tuttavia che andava evitato, come invece facevano molti pittori suoi contemporanei, di dipingere «pensando magari a Cézanne e Van Gogh». Spogliarsi dei clichés modernisti, ritrovare la via maestra.

Si addestrava modestamente in interni senza fasto, rievocò esercizi quasi da dilettanti, ma al fondo c’era l’immenso talento e l’intelligenza: con un suo amico scultore parlavano a lungo dell’arte del disegno, «sfogliando monografie dedicate all’opera di Michelangelo e di Dürer. E per aggiungere l’esempio alla parola […] disegnavamo di memoria figure e parti di figure umane, cercando di imitare la maniera di questo o di quel maestro. A volte, mentre lavoravamo, si parlava della decadenza della nostra epoca…». A quel tempo, dunque, c’era tra noi chi dipingeva con colori e tecniche del fulgore rubensiano, anche se si cimentava nella réclame delle auto Fiat. Intorno si levava, davvero passatista, il frastuono degli echi di furori espressionisti, anche in salsa astrattista e le estreme semplificazioni di tramontati surrealismi. Il tutto condito con chiacchiere che riandavano ai dibattiti della Repubblica di Weimar o addirittura ai secessionismi europei, discorsi vetusti dopo la fine del mondo, le capitali bombardate, i Lager tedeschi e sovietici, le etnie sterminate. Duelli in nome di Kandinskij fuori tempo massimo, come se in qualche isola extraoccidentale ci si accapigliasse nel 2008 per il cinema neorealista, con appendici di scomuniche politiche e sofferenze patetiche di eretici. Nel frattempo, Malevič era tornato a dipingere figure, un po’ per convinzione un po’ per costrizione del regime, poi Malevič era morto, era morto Kandinskij, dimenticata Monaco, decaduta Parigi, gli americani imponevano il loro easy estetico pure a Mario Sironi, e qui come niente fosse, a giocare alle battaglie di inizio secolo, astrattisti/figurativi. I partecipanti si giustificavano però con la cappa fascista, con un ventennio nella campana di vetro, nascondendo ai più giovani e a se stessi che i gerarchi si elettrizzavano tanto per i futurismi d’ogni risma, e mai fu imposta una linea culturale tradizionalista da quel duce cresciuto all’ombra di Marinetti e di Margherita Sarfatti con i suoi protetti, tutti sperimentatori dell’anteguerra. Resta inoltre la vecchia obiezione della ‘gita a Chiasso’ e, in mancanza di soldi, almeno un qualche libro sfogliato in sonnolenti biblioteche romane: se ne trovavano e sarebbe bastato per accorgersi di quel che accadeva in mezza Europa.

Eugène Delacroix, pittore che pure a de Chirico talvolta capitò di citare, annotò nel suo Diario: «Rubens, a più di cinquant’anni, durante la missione di cui fu incaricato presso il re di Spagna, impiegava il tempo che non consacrava agli affari, a copiare a Madrid i magnifici originali italiani che vi sono ancora adesso. Nella sua giovinezza aveva copiato enormemente. Codesto esercizio del copiare, trascurato dalle scuole moderne, era la sorgente di un immenso sapere.[…] Su questo era fondata l’educazione di tutti i grandi maestri. S’imparava dapprima la maniera di un maestro, come un apprendista impara la maniera di fare un coltello senza cercar di mostrare la sua originalità. In seguito si copiava tutto quello che veniva sotto mano, di artisti contemporanei o anteriori. Si era fabbricante di immagini, come si era vetraio o falegname. I pittori dipingevano gli scudi, le selle, le bandiere. I pittori primitivi erano più artigiani di noi: imparavano il mestiere prima di pensare all’arte. Oggi accade il contrario». De Chirico dipinse quadri, disegnò costumi teatrali, bozzetti per il cinema, pannelli per l’arredamento delle case, illustrò libri di vario genere, dall’Apocalisse a un manuale sui cocktail. Quanto all’esercizio dell’imitazione vs il culto dell’originalità, si spera che insieme al grembiulino uguale per tutti la maestra unica reintroduca il copiato, fondamento di ogni scuola.

Si sosti a lungo davanti alle sue opere: parlando un giorno di un concerto eccessivo, faceva un confronto tra le arti e pretendeva che la durata di una sinfonia si imponesse anche a quella della contemplazione di un quadro. «Io non credo che guardare per un’ora, con occhio di pittore e mente di filosofo, una grande e bella composizione di Tiziano e di Rubens, debba essere meno interessante e più noioso che udire per lo stesso tempo una lunga sinfonia». Un’ora dunque all’incirca. Anche perché qui Rubens è raddoppiato dalla interpretazione di de Chirico. E viceversa.