sabato 17 settembre 2011

Il santo che oscurò il Concilio

~ I PRODIGI FANNO BELLA LA CHIESA D’OGNI TEMPO ~

Si arresero alle peggiori forme del moderno. Con le migliori intenzioni del mondo, naturalmente, al fine di aggiornare la religione di Cristo, di lucidarla con l’illuminismo, di arricchirla con la terrena ‘questione sociale’ (che facesse da contrappeso al Cielo), di renderla attraente per il pubblico della televisione, per i consumatori di cultura a fascicoli e di psicoanalisi, per il popolo che cominciava a firmare cambiali, per le vestali del Progresso, per i fans del rock e i lettori di Sartre, per i recenti inurbati e i crescenti inurbani; al fine di rendere accettabile anche ai cattolici ‘adulti’ il catechismo e i prodigi biblici, ai liberali un Dio intollerante, ai socialisti lo sfarzo della religione di Roma, i disgraziati preti degli anni Sessanta/Settanta si prodigarono nel buttare a mare le più preziose formule liturgiche e la prosa latina che le rivestiva; tradirono così l’arte millenaria e la musica altrettanto millenaria, tolsero l’aureola ai santi che non possedevano il certificato filologico, si lasciarono suggestionare dalla desolazione protestante, si illusero fosse un’arte nuova (con lo spirituale incorporato), si piegarono di fronte ai totalitarismi del dopoguerra – non solo con i regimi che opprimono i suoi fedeli, come la Chiesa aveva sempre fatto, trattando saggiamente con i tiranni, cercando di strappare dalle loro grinfie il più gran numero di vittime –, bensì intrattenendosi stavolta con ideologi senza potere, complici e nunzi di quei mascalzoni; aprirono infine le porte a massoni, garibaldini, a tutte le sètte, chiedendo scusa a ciascuno di loro, autolesionismo impressionante, confondendo pericolosamente cristianesimo e masochismo; svendettero o regalarono la tradizione agli antiquari, se ne vergognarono, si inebriarono con gli argomenti dei nemici; camminarono in punta di piedi, clero timidone e laici con il complesso di inferiorità verso i miscredenti: per donare un maggiore appeal della Chiesa finirono per sopprimerla, per cancellare il sacrificio della messa, per riscrivere i libri sacri in traduzioni penose.

Sepolto il secolo, strappata l’identità cattolica a colpi di ‘pastorali’, estirpata la sontuosità dei riti, le chiese si sono svuotate come neppure la peggiore mente anticlericale avrebbe saputo fare e prevedere. Adesso per un paradosso provvidenziale l’unico che attira le folle, invocato, amato, riconosciuto, venerato, è padre Pio da Pietrelcina, santo che fa miracoli, che dissolve le ermeneutiche intellettuali, che consola i malati, i moribondi, i sopravvissuti. Santo inattuale, anzi ‘reazionario’, che confonde gli scienziati, che teme Satana ma lo affronta, che ammonisce i peccatori e che indica loro il Paradiso, promettendo di aspettarli uno a uno sulla temibile soglia finale. Santo della Chiesa prima del Concilio, che riunifica il popolo di Dio, colti e incolti, illuminati e spenti, sani e malandati, alla maniera dei grandi del Medioevo, di Francesco e Antonio. Frate stigmatizzato, frate del prodigio.

Seguìto, nella classifica del gradimento universale, da un parroco polacco che, a sua volta, confidò in padre Pio, che incoraggiò i cattolici e li spronò come facevano i condottieri di un tempo. Santo che, tra l’altro, consegnò il comunismo europeo al Museo dei grandi crimini ormai lontani.

domenica 11 settembre 2011

L'amore della immortalità

~ ANCHE SENZA ESSERE CRISTIANI NON CI SI ARRENDE
FACILMENTE ALLA DAMA DEL NICHILISMO:
LA RESURREZIONE RACCONTATA DA MIGUEL DE UNAMUNO ~

«Di conseguenza, è naturale che si ami l’immortalità insieme al bene
se è vero che l’amore è amore di possedere il bene per sempre. Da ciò
consegue come necessario che l’amore sia anche amore dell’immortalità
»

Platone,
SIMPOSIO

Oggi che dei teologi sedicenti cattolici mettono in dubbio la resurrezione di Cristo che garantisce la resurrezione della carne di tutti gli umani, potrà sorprendere come all’inizio del secolo moderno per eccellenza, nel primo Novecento ‘laico’, Miguel de Unamuno, lo scrittore e pensatore spagnolo che annunciava l’«agonia del cristianesimo», riflettesse poi sull’antica fede nell’immortalità. Dal saggio Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli, del 1913, nella edizione Rinascimento del libro, Firenze, 1944, riportiamo alcuni passi, tratti tutti dal IV capitolo, «L’essenza del cattolicesimo».

«La fede nell’immortalità dell’anima […] bisogna dire che è una specie di sottinteso, di supposto tacito, nell’Evangelo, ed è la situazione di spirito di molti di coloro che oggi lo leggono – situazione opposta a quella dei cristiani fra i quali scaturì il Vangelo, – che loro impedisce di comprenderlo. […] Scaturì il cristianesimo da una confluenza di due grandi processi spirituali, giudaico ed ellenico, ognuno dei quali era arrivato per parte sua, se non alla definizione esatta, alla esatta ansia di un’altra vita. Non fu tra i giudei né generale né chiara la fede in un’altra vita; ma li portò ad essa la fede in un Dio personale e vivo. […] La fede nel Dio personale, nel Padre degli uomini, porta con sé la fede nell’eternizzazione dell’uomo individuale». Una tale fede non c’è ancora in Omero, che chiude una civiltà, che precede il regno spirituale di Apollo. «”Nessun popolo venne sulla terra così sereno e soleggiato come il greco, nei giorni giovanili della sua esistenza storica…” [notava Pfleiderer] ma nessun popolo cambiò così completamente la sua nozione sul valore della vita. […] Così, ognuno per parte sua, giudei e greci, arrivarono alla vera scoperta della morte […]. La scoperta dell’immortalità, preparata dai processi religiosi giudaico-ellenistici, fu specificamente cristiana». La teologia della resurrezione fu opera di Paolo: «l’importante per lui era che Cristo si fosse fatto uomo, e fosse morto e resuscitato». Innumerevoli passi delle sue epistole confermano questa sintesi del pensiero paolino. «Partendo da questo punto si può affermare che chi non crede nella resurrezione carnale di Cristo potrà essere filocristo, ma non specificamente cristiano. […] Il fine della redenzione fu, nonostante le apparenze per deviazione etica del dogma, propriamente religioso, di salvarci dalla morte piuttosto che dal peccato, o da questo in quanto implica la morte».

«Dopo Paolo si successero gli anni e le generazioni cristiane lavorando intorno a quel dogma centrale e alle sue conseguenze, per assicurare la fede nell’immortalità dell’anima individuale, e venne il Concilio Niceno, e con esso quel formidabile Atanasio, il cui nome è già un emblema [è formato infatti dall’alfa privativo e dalla parola thànatos, morte, senza morte, immortale ndr], incarnazione della fede popolare. Atanasio era un uomo di poca erudizione e di molta fede, e soprattutto di fede popolare, e pieno d’ansia di immortalità. E si oppose all’arianesimo, che come già più tardi il protestantesimo unitariano e il sociniano minacciavano, per quanto senza saperlo né volerlo, le basi di quella fede. Per gli ariani, Cristo era prima di tutto un maestro, e un maestro di morale, l’uomo perfettissimo, pertanto garanzia che tutti possiamo arrivare alla somma perfezione; ma Atanasio sentiva che Cristo non poteva farci dèi se prima non si fosse fatto Dio egli stesso, se la sua divinità per partecipazione non avesse potuto parteciparla. “Non è che Cristo – diceva – essendo uomo si è fatto poi Dio, se non che essendo Dio si è fatto uomo per poi meglio deificarci”. […] Il Cristo atanasiano o niceno, che è il Cristo cattolico, non è il cosmologico né, in realtà, l’etico, è l’eternador, il deificatore, il religioso».

«Fra i protestanti, il Gesù storico soffre sotto lo scalpello della critica, mentre il Cristo cattolico, il Cristo veramente storico, vive nei secoli, mallevadore della fede nell’immortalità. […] A Nicea riportarono dunque la palma, come in seguito la riportarono in Vaticano, gli idioti – prendendo la parola nel suo senso primitivo ed etimologico – gli ingenui, i vescovi rozzi e testardi, rappresentanti del genuino spirito umano, del popolare, di quel che non vuole morire, dica quello che vuole la ragione, e cerca la garanzia più materiale e possibile, per il suo desiderio di immortalità. Quid hoc ad aeternitatem? [che cosa serve tutto questo di fronte all’eternità? potrebbe essere una traduzione ndr] Ecco la domanda capitale». E il Credo finisce con quel resurrectionem mortuorum et vita venturi saeculi […] O come dice il Catechismo, con gli stessi corpi e con le stesse anime che ebbero. La felicità dei beati non sarà del tutto perfetta, fino a che essi non ricupereranno i loro corpi: questa è dottrina cattolica ortodossa. […] E a questo dogma centrale della resurrezione in Cristo e per Cristo corrisponde pure un sacramento centrale, l’asse della pietà popolare cattolica, e cioè il sacramento dell’Eucarestia. In esso si somministra il corpo di Cristo che è il pane di immortalità. È il sacramento genuinamente realista, dinglich, si direbbe in tedesco, e che non è gran violenza tradurre materiale, il sacramento più genuinamente ex opere operato, sostituito tra i protestanti col sacramento idealista della parola. Si tratta, nel fondo, e lo dico con tutto il rispetto possibile, ma senza voler sacrificare l’espressione della frase, di mangiare e di bere Iddio, l’Eternizador, di alimentarsi di Lui. […] Lo specifico religioso cattolico è l’immortalità, e non la giustificazione alla maniera protestante. Questa è piuttosto etica. Ed in Kant, il cui protestantesimo, per quanto dispiaccia agli ortodossi, trasse le sue ultime conseguenze, la religione dipende dalla morale, e non questa da quella, come nel cattolicesimo. […] Il protestantesimo, assorto nel fatto della giustificazione, presa in un senso più etico, benché in apparenza religioso, finisce per neutralizzare e quasi cancellare l’escatologico, abbandona la simbolica nicena, cade nell’anarchia confessionale, nel puro individualismo religioso e in una vaga religiosità estetica, etica o culturale. […] La vocazione terrena e la fiducia passiva in Dio dànno la loro volgarità religiosa al luteranesimo, che fu sul punto di naufragare nell’età dell’illuminamento, dell’Aufklärung…».

«Per parte mia, non concepisco la libertà di un cuore né la tranquillità di una coscienza che non siano sicure della loro perdurabilità dopo la morte». I teologi protestanti si affannano invece a parlare di remissione dei peccati. «La nuova apologetica psicologica fa appello al miracolo morale, e noi, come i giudei, vogliamo dei segnali, qualche cosa che si possa afferrare con tutte le potenze dell’anima e con tutti i sensi del corpo». L’arte forse serve proprio a quello.

mercoledì 7 settembre 2011

Lettera senza postino

~ LO SCIOPERO NELL’EPOCA DEL WEB ~

Se un giorno fu un mezzo di riscatto, oggi lo sciopero risulta particolarmente odioso. I deboli si contavano, provavano a mostrare un po’ di forza, il contropotere di un solo giorno. Adesso è ottocentesco revival, una vacanza senza festa, una vacanza che si pagano i poveri scioperanti e che non godono, a maggior gloria dei dirigenti sul palco. Si cambiano le maschere, lo ‘sfruttato’ è anche il cittadino attento al Pil, il votante, il consumatore, il tifoso del tricolore. La dialettica hegeliana servo/padrone illude per poco, la grande prova dei titani il giorno dopo si riduce a un comunicato con delle percentuali poco credibili, ed è tutto. Ovvero, piccoli egoismi rivendicati all’interno di un cinismo generale, sbadigli di fronte alle bandiere che bloccano il traffico. Un rito stanco che non incide, nessun ministro indietreggia per una manifestazione sindacale, fa più effetto un sondaggio. Scomparsa l’aura sovversiva che fantasticava l’ingegner Georges Sorel, un «consigliere della confusione» (Lenin), lo sciopero in Italia è benedetto dalla Costituzione, azione simbolica dunque, performance costosissima per tutti e sempre uguale, ha perso ormai ogni suggestione, perfino quella della scampagnata solidale, ha perso anche i padroni delle fabbriche preoccupati per le ore sottratte alla produzione, i padroni passionali che assoldavano i crumiri, ha perso il nemico, dissolto nei managers apatici, negli amministratori delegati, mercenari che non si interessano più di tanto alle giornate sprecate. Ma oggi lo sciopero ha di fatto un altro nemico: spezza le gambe agli ultimi della terra. I vecchi che devono recarsi in ospedale, che attendono una radiografia o un intervento, che hanno davvero le ore contate: per loro una giornata buttata via è decisiva. I forzati dei mezzi pubblici di trasporto, gli immigrati d’ogni dove che corrono per le città a vendere il loro lavoro considerano lo sciopero un incomprensibile evento vòlto a immiserirli. E in notti invernali si vedono camerieri e sguatteri intontiti dalla fatica che non credono ai loro occhi: il bus che li porta nei quartieri dove abitano ai margini della metropoli, a chilometri di distanza, stavolta non passa, le forze progressiste hanno pensato bene di tagliare quella corsa, di tenere per protesta l’autista a casa o di farlo sfilare il giorno dopo in corteo. A scuola invece è la consueta baldoria, non causa vittime, ma questa inutilità dell’astensione dal lavoro provoca qualche dubbio sul senso attuale di una simile istituzione. Comunque, guerricciole tra poveri che fino a qualche anno fa – quando il telefono era una risorsa assai cara – coinvolgevano anche i solitari in attesa di una lettera o gli ansiosi in attesa di notizie. Adesso non più, liberi dagli scioperi che ritardavano la posta già tanto in ritardo, le email contraggono il tempo ed eliminano i postini. Il web dà il colpo di grazia allo sciopero, lo rende definitivamente inattuale, quel che passa nella rete aggira le burocrazie sindacali, nelle poste e nella comunicazione, nel commercio e nell’intrattenimento. Fa pensare al lavoro operaio come a un residuo arcaico e ai dirigenti del sindacato come a dei sacerdoti egizi.

domenica 4 settembre 2011

Quando i laici gridano al sacrilegio

~ IL TEMPO DELLE FESTE E DEI PONTI ~

I laici hanno strepitato alla sola ipotesi di spostare la festività del Primo Maggio e di due altre ricorrenze civili, i parroci invece, consapevoli delle difficoltà economiche del momento, hanno lasciato scivolare le celebrazioni dei santi patroni alla domenica seguente. Se ancora qualcuno dubitasse che le feste laiche – che gli hebertisti e i giacobini inventarono per i loro culti spettacolari, che i bolscevichi adattarono in Russia, i socialdemocratici tedeschi ripresero negli anni di Weimar e i nazisti affidarono alla regia di Leni Riefenstahl – sono una traduzione di quelle religiose, un succedaneo della liturgia, adesso, davanti alla protesta trepidante per le «feste civiche» rese mobili, forse se ne farebbe una ragione. La sola ipotesi che il due giugno, anniversario della vittoria a un referendum, possa essere santificato il quattro viene considerata dai vocianti un insopportabile sacrilegio. La scansione tempo sacro e profano, tempo della festa e tempo del lavoro, è alla base di ogni religione. L’interruzione dello scorrere ordinario dei giorni, del sempre uguale, l’irrompere dello straordinario, apre le porte al trascendente, ecco perché anche i ‘dissacratori’ avvertono confusamente che con il calendario non si scherza.

Per il Primo Maggio hanno protestato in tanti ma pochissimi saprebbero dire il perché di una data tanto sacra. Né si capisce bene quale lavoro si celebri, se la fatica inumana della fabbrica, la maledizione del travaglio salariato, o quello artigianale, libero. E neppure si può argomentare che in mezzo mondo il «lavoro» si commemora in date diverse: il «May Day», la pioggia di rose in Walter Crane e negli affiches russi, la tradizione di poco più di un secolo che allude però al «Ver Sacrum», basta per ritenere quella data inviolabile, coperta da un tabù, appunto.

Uno spolverio sinistro la avvolge nel Problema di Aladino (Adelphi), allegro romanzo tanto citato da questo «Almanacco», in cui Ernst Jünger narra beffardo: «Era un venerdì, Primo Maggio. In tutta Europa questo è un giorno di feste e di misteri. A Würzburg il diavolo traversava la città in una suntuosa carrozza. Sul Brocken danzavano le streghe; nella valle del Bode appariva Brunilde. Le anime dei morti si aggiravano spettrali sui fiumi, campane sotterranee rintoccavano. Da noi in Slesia c’è un detto: “Chi alla mezzanotte di quel giorno vede cadere una stella, scavi nel suo giardino: troverà un tesoro”. Adesso erano diventati d’obbligo i cortei, ma il giorno era rimasto, perché ogni regime vive del mito, seppure in forma attenuata. Nella folla doveva agire un ricordo che, dopo che le bandiere erano state arrotolate, la sospingeva all’aperto, dal vero signore della festa».

Nel tempo cattolico le feste dei santi danno un senso al calendario, lo rendono umano e lo glorificano: il dies mortis corrisponde al dies natalis nello splendore dell’Aldilà, all’accoglienza in Paradiso, le ricorrenze collegano Terra e Cielo, colorano le stagioni, offrono spiegazioni della varie facce della natura, prendono a prestito le scadenze della flora, i caratteri del clima, segnano il passaggio in questo mondo, talvolta nelle contrade protette dai santi in questione, di uomini e donne il cui il ricordo si è mantenuto nei secoli, ebbene, nonostante tutto ciò la Chiesa, che conosce l’arte del compromesso perché padroneggia davvero il tempo, sa venire a patti con le esigenze civili. Perfino una festa solennissima e millenaria come l’Epifania fu soppressa negli anni Settanta (e poi riammessa, anni dopo, per far contenti i venditori di giocattoli) senza troppo scandalo. Viene il sospetto che i laici e i loro sindacati covino in cuor loro il Culto Supremo del Ponte (frequentando le biblioteche romane, si è spesso disturbati dalle chiacchiere dei dipendenti che sembrano concentrarsi nelle strategie per costruire vacanze infrasettimanali, per viaggi-lampo in qualche isola esotica, per povere evasioni dal carcere del ‘tempo libero’).

giovedì 1 settembre 2011

Sola televisione

~ I NUOVI DOGMI MOLTO POP DEI PROTESTANTI ~

La parabola è nella fase discendente e svuota il cristianesimo; l’acme fu raggiunto quando Lutero si attestò sulla «sola Scriptura», mandando al rogo le interpretazioni dei sapienti, l’autorità della élite che è più equilibrata e assennata del singolo. Così l’invenzione del sacerdozio universale mise a diretto contatto la Sacra Scrittura e l’individuo solo, consacrato dal protestantesimo alla sua solitudine. La scrittura strappata agli apostoli viventi, i successori dei Dodici, diventava un feticcio, morta come tutte le carte costituzionali affidate al loro formalismo, una «tomba imbiancata», avrebbe detto Gesù. Il dogma della scrittura si imponeva da allora sull’Occidente: diffidenti verso tutto e tutti, senza più fede nella istituzione divina affidata a Pietro, senza più fiducia negli umani, senza più capacità di discernimento tra la comunità apostolica e i falsi profeti, confusi dal nichilismo di una simile mancanza di fondamento, ci si condannava al culto filologico, alla scienza linguistica, al decriptare le parole antiche secondo le procedure moderne del genere poliziesco. D’altra parte, l’esegesi di massa, affidata alle fantasie e alla cultura dell’estremo individualismo, produceva una macchina spaventosa, quella degli sceriffi che fanno giustizia del mondo a colpi di citazioni bibliche. «Un semplice laico armato con le Scritture è più grande del papa», dirà Lutero, per incoraggiare i suoi a rompere con la tradizione millenaria. La norma dunque è nella carta scritta, basta leggere, diranno gli ingenui protestanti. Basta annotarsi un versetto dunque per distruggere le più sublimi leggi del Magistero ecclesiastico che non si accordano con le fisime dell’interprete di turno. Il luogo della verità non è più nell’istituzione Chiesa ma nel «libero esame». Anche l’autorità di molti pastori e predicatori è personale, e discende dalla loro preparazione o da un qualche carisma, non da una investitura gerarchica.

Durò poco. Le scienze ‘laiche’ provocarono nuovi dubbi ai fedeli della «sola Scriptura», il Pietismo già sembrava diventare l’altra faccia dell’illuminismo, umanizzando ulteriormente la teologia, «situando [Dio] all’interno dell’autocoscienza sovrana dell’uomo» (Karl Barth). Nei salotti settecenteschi dei seguaci di Nikolaus Ludwig von Zinzendorf la parola scritta diventava parola interiore, sfuggente. Quindi fu la volta del contesto, della ricerca archeologica, storica, linguistica, seguendo positivismo e storicismo. Una questione accademica, una comparazione tra libri, e piccoli Erostrati moderni si affannano ancora oggi a incendiare i Vangeli, magari per attirare l’attenzione del professor Ratzinger. Fatto è che se adesso si leggono in Paolo, l’eroe del protestantesimo, parole di fuoco sugli omosessuali, basta invocare subito i «pregiudizi patriarcali del tempo» come fanno i valdesi in una recente polemica interna, per ridurre la Scrittura ispirata da Dio a documento di un’epoca lontana, démodé, inutilizzabile anche quando parla con estrema chiarezza, da sostituire con le decisioni prese attraverso il «consenso maturo e rispettoso raggiunto dalla chiese locali». Ovvero, l’ultima parola non spetta più a Dio, le sue leggi scritte sono anzi invecchiate, bensì all’assemblea locale, alla pubblica opinione. La Scrittura è suscettibile di un nuova interpretazione fornita da un magistero senza tradizione però, senza sapienza, senza mandato apostolico; soltanto una chiacchiera come in televisione, che riecheggia il senso comune. Qualcun altro anche dalle parti cattoliche, per quanto assimilabile di fatto al protestantesimo contemporaneo, nega addirittura la resurrezione. Il teologo da autogrill, per esempio, che vende i suoi libri come un comico, si richiama alla televisione: se ci fosse stata una telecamera davanti al sepolcro di Cristo, si chiede, avremmo potuto credere alla scena raffigurata da Piero della Francesca, con il Vincitore della morte che si leva sul sepolcro come un atleta? Insomma, al posto della «sola Scriptura» per i neo-protestanti c’è ormai «sola televisione».

giovedì 25 agosto 2011

Il Messia non si vende

~ L’ALTERNATIVA DELL’ARTE SACRA ~

Nella noticina dello scorso 8 agosto («Solo un ‘regnum gratiae’ ci può salvare») dicevamo dell’infimo ruolo dell’arte nell’epoca del funzionalismo capitalista. L’attività che accostava in modo particolare l’uomo a Dio, la bellezza generata non dal capriccio individuale bensì dall’imitazione della liturgia paradisiaca (si veda la Commedia di Dante), in un mondo all’insegna del mercato diventa comunicazione, orpello del processo comunicativo, enfasi pubblicitaria del mondo delle merci. Il Bauhaus lanciò il programma per l’allucinato svuotamento dell’arte, la moda piccolo borghese del design, la grafica per caratterizzare un prodotto, per sedurre un consumatore, l’esprit de géométrie senza più il conforto dell’esprit de finesse; Guy Debord ne denuncerà il gretto risultato finale. Il trionfo della macchina richiede che tutto, anche la casa e l’anima umana, sia riconducibile alla sua disciplina, onde sfruttare l’energia meccanica che è il suo unico scopo su questa terra. Perciò, si sottolineava in quello scrittarello, l’arte della nostra epoca è condannata a essere brutta (e c’è qualcuno tanto autolesionista da compiacersene). Ma perché, ci domandiamo oggi, anche l’arte sacra, cattolica – da cui nacquero i massimi capolavori nella storia dell’Occidente, dal Medioevo in poi – si deve piegare a una simile condanna? Perché, per esempio, le decorazioni, il logo, l’altare di Madrid dove le folle dei giovani hanno pregato con il papa devono obbedire alla maledizione dell’universo mercificato? Anzi, perché un logo per tale raduno, non bastava la croce, si doveva forse vendere qualcosa? Si doveva comunicare col tono sintetico e nevrotico della réclame? Eppure la buona notizia cristiana non appartiene al linguaggio delle news, è una faccenda che attraversa i secoli, che parla solenne, che annuncia nientedimeno che la sconfitta della morte, non si tratta di un consiglio etico, di un invito new age, di un brand spirituale da lanciare. Non è uno spettacolo, anche se i più devoti cronisti della televisione dei vescovi parlavano l’altro giorno di palco invece che di altare, ara del sacrificio. Certi preti si assoggettano ai peggiori dettami del marketing considerandosi i pr di Cristo, ma il Messia non si vende, è un dono. L’arte sacra dunque non può essere il riflesso di quanto accade nel mondo, soprattutto quando questo ha tagliato le radici con la tradizione e vive angosciosamente solo le oscillazioni economiche, le contorsioni demoniache dei soldi. Meglio sarebbe se si presentasse come l’unica alternativa a quel ‘contemporaneo’ asservito al denaro, e parlasse di un altro tempo: l’eterno.

lunedì 8 agosto 2011

Solo un «regnum gratiae» ci può salvare

~ SI PUÒ USCIRE DALLA SUB-CULTURA ATTUALE? ~

Tutti leggono, dalla mattina alla sera, nella metropolitana e sulle spiagge, e spendono assai nelle librerie, informandosi attraverso le recensioni e le presentazioni nella rete e sui giornali – piccole, continue evasioni senza respiro nel contemporaneo, roba da carcerati a vita – , ma chi sfoglia ancora Dante o Ariosto, Tommaso d’Aquino o Guicciardini? Anche più ristretta schiera quella di coloro che li meditano. Ecco perché George Steiner, pure in una intervista su «la Repubblica» del 25 luglio, tornava a parlare ormai di «una sub-cultura odierna». E alla intervistatrice che, perplessa, forse in quanto adepta dello spirito della testata, chiedeva: «perché si ostina a ripetere che l’idea di cultura è andata in pezzi?», Steiner spiegava con pazienza: «Sono i fatti a provarlo. In paesi come l’Inghilterra, la Francia e l’Italia, la scuola primaria e secondaria è in una crisi gravissima. Quand’ero giovane, le università tedesche costituivano una garanzia per la vita intellettuale europea e statunitense. Poi non è più stato così. Oggi nelle università occidentali, e anche in Italia, ci sono alcuni docenti notevoli, ma in generale è tramontato il prestigio della ricerca e della trasmissione di cultura universitaria. Gli studenti più validi di Cambridge finiscono a lavorare in Borsa o nelle grandi banche, e considerano la politica come qualcosa di ridicolo e corrotto. Per non parlare della decadenza del mestiere d’insegnante».

Gli fa eco Jean Clair. Il «Corriere della Sera» dell’otto agosto riporta un’anticipazione del suo ultimo libro, L’inverno della cultura, dove i giochi del contemporaneo vengono dannati definitivamente; vi si parla di «degenerazioni dell’arte contemporanea»: «la discesa dall’high culture alla low culture è una discesa agli inferi», i suoi protagonisti conoscono solo le tecniche del marketing. Un’altra anticipazione del testo polemico di Clair è offerta in rete da «Il Covile», numero 653. «L’arte contemporanea – vi si legge – è la storia di un naufragio e di uno sprofondamento». Sacrosante reazioni di nobili figure a situazioni insopportabili. I giornali però, inclini a conclusioni a effetto, propendono per l'ipotesi di una prossima fine di questo infernale gioco, quasi si trattasse di una moda sconfitta ormai dalla noia. Si dovrebbe essere meno ottimisti. Davanti ai restauri contemporanei di un ufficio postale anni Trenta, di fronte alle soluzioni standard, omologate, un’amica ci diceva realista che questa specie di arte attuale non può che essere così, funzionale al sistema che non concede deroghe. Ovvero, l’arte del capitalismo estremo non può che essere brutta. L’arte di massa in una società definitivamente nichilista non ha più neppure delle tracce di bellezza. Soltanto l’avvento di un «regnum gratiae» potrebbe modificare l’estetica.

All’inizio del Novecento c’era ancora chi sosteneva che «per un uomo di cultura la peggiore immoralità sarebbe quella di accettare i parametri della sua epoca» (Hugo Ball, Die Flucht aus der Zeit). Per Carl Schmitt la parola «contemporaneo» suonava come «complice dell’epoca meccanicistica», perché colui che crede di dover andare col tempo si è già da sé escluso dalla cerchia degli spiriti indipendenti (si veda l’ediz. italiana di Aurora boreale, un saggio di Schmitt tradotto per le Edizioni scientifiche italiane e ricco di apparati a cura di S. Nienhaus). Intanto si andava diffondendo il dogma che economia, finanza e arte si riconciliassero tra loro. Oggi l’economia senz’anima rivolge ovunque i suoi artigli, facendo intorno a sé il deserto.

mercoledì 27 luglio 2011

L'intervista

~ CONSIGLI IN RITARDO MA SEMPRE VALIDI
PER REAGIRE ADEGUATAMENTE
A UN GAZZETTIERE CHE TI ENTRA IN CASA
E SI PERMETTE DEGLI INSULTI ~

«Confesso una certa curiosità mentale mentre mi avvio all’appuntamento col professor Roberto De Mattei, l’uomo che con le sue idee – professate in varie sedi e occasioni – ha vinto l’Oscar del ridicolo. Che linea tenere, che domande rivolgergli, in una parola che cosa ci si aspetta da un signore che, con tutti i distinguo, ha sostenuto tesi balzane e in ogni caso antiscientifiche, come il creazionismo, l’immutabilità delle specie, la datazione della Terra a soli 15-20 milioni di anni fa? Se insieme al taccuino avessi con me un bel ‘tapirone d’oro’, la questione potrebbe risolversi in pochi attimi. Ma in fondo, De Mattei non è un caso umano, è un affare più complicato: un uomo solo (o quasi) che sostiene certe idee. Non basta questo per farne un eroe della resistenza ottusa?». Avete mai letto su «Repubblica» un’intervista con un simile incipit? I gazzettieri di solito sono molto deferenti verso chi concede loro lo scambio di qualche battuta, e sempre rispettosissimi delle idee dell’intervistato, anche le più matte e violente, anche quando porgono il microfono ai più feroci assassini, ai canari della cronaca, agli sterminatori della famiglia, ma stavolta si tratta di uno studioso cattolico che «sostiene certe idee». Allora, «che linea tenere?», si arrovella il giornalista, fedele alla linea di ideologica memoria. Prova a ricorrere alla volgarità, evoca quegli attrezzi agitati dalla tv Mediaset, l’organizzazione a delinquere del capo del governo, i suoi arcana imperii con i quali lobotomizza gli italiani, evidentemente anche il giornalista è ormai lobotomizzato se cita un tale manganello elettronico nelle pagine culturali che sono la crème cui si nutrono gli intellettuali italiani. In nome di quella cultura, distribuisce quindi «oscar del ridicolo», lo consegna personalmente al paziente professore, che risponde mansueto alle sue domande insolenti.

Rileggete, per favore, quel ‘cappello’ all’intervista apparsa qualche tempo fa su «Repubblica» e che l’inattuale «Almanacco» ha scoperto per caso solo adesso. Dove altro mai si è visto tanto sprezzo per le idee di qualcuno? Il fatto è che questo qualcuno ha pronunciato «tesi antiscientifiche» a insindacabile parere del gazzettiere che parla a nome della Scienza. Anche un collaboratore di quel giornale, celebre per scrivere dei libri copiando dai libri degli altri, sostiene opinioni antiscientifiche, corroborate dalla filosofia esistenzialista che certo non concesse mai granché al pensiero calcolante, ma nessuno oserebbe attaccarlo con insulti grevi, anzi le pagine del quotidiano bilioso si sono aperte spesso alla divulgazione del pensiero heideggeriano, sicché i poveri lettori bigotti dello scientismo si appassionano anche per il filosofo di Meßkirch producendo una grande confusione nelle proprie teste. Allora la colpa gravissima del professore in questione è di essere antiscientifico e cattolico. Come può ricoprire la carica di vice-presidente del Cnr, di un istituto cioè che si occupa di ricerca, di apertura, di metodo antidogmatico? Anatema dunque per chi si permette di citare Salviano, un erudito del V secolo, piuttosto che il giovanotto quasi omonimo, star della fuffa culturale in televisione, anatema per chi ritiene addirittura, insieme ad antichi autori cristiani, che l’impero romano sia venuto giù per la corruzione dei costumi (discutibile tesi condivisa pure da un pagano come Giovenale, il poeta che metteva in scena la fine del mondo causata da omosessuali e donne lascive), anatema per questo eccentrico che non vuole piegarsi alla vulgata del pensiero unico di cui il quotidiano in questione è l’organo ufficiale.

Gli aggettivi «ottuso» e «ridicolo» non si possono però usare impunemente ad personam. Il professore gentile con gli intervistatori dovrebbe far tesoro del comportamento di uno scrittore cattolico che in situazioni del genere rispondeva colpo su colpo. Ecco il testo-modello dell’intervista apparsa sull’«Intrasigeant» del 2 maggio di cento anni fa esatti, intitolata «A casa di Léon Bloy».

«Arrampicatomi rapidamente sulla Collina [di Montmartre], mi fermai incerto al numero 40 della via del Chevalier-de-la-Barre, e confesso che fu con una certa apprensione che suonai al campanello del temibile antro. L’affabilità ben nota di Léon Bloy mi toglie ogni velleità di vantare una accoglienza calorosa; venne lui stesso ad aprire la porta, prese il mio biglietto da visita senza neppure leggerlo e mi chiese che c… venivo a fare a casa sua. – Per intervistarvi, caro Maestro! A queste parole, Léon Bloy si precipitò su un randello che probabilmente tiene sempre appeso alla maniglia della porta e fischiò a un molosso che arrivò ringhiando per mettersi al suo fianco. Poi lesse il mio biglietto, mi esaminò con curiosità accorgendosi della mia aria costernata, cominciò a sorridere, posò il randello, allontanò il cane e con una voce così dolce da procurarmi i brividi alla schiena mi disse: - Signor Toussaint, il vostro nome mi disarma. Sono un devoto, lo sanno tutti, e il richiamo di tutti i santi evocati dal vostro nome mi fa pensare al giorno dei morti. Entrate pure, uscirete vivo. Voi sembrate ignorare che io non mi presto a quelle luriderie che voi chiamate interviste, e che all’appellativo di ‘caro maestro’ preferisco i peggiori oltraggi. Tuttavia, per una volta, e soltanto per riguardo al vostro nome, vi ascolto.

– Si dice che stiate per lasciare Montmartre. Perché questo abbandono? – Perché ho avuto precise informazioni che Parigi sta per saltare in aria; e dal momento che devo ancora irritare i miei contemporanei non voglio servire da combustibile all’incendio che si prepara, e temo proprio che voi siate uno dei primi ceppi da ardere. – Che cosa pensate della Chiesa e dei suoi rapporti con il governo? – Non so che cosa intendiate per Chiesa, non tenterò di illuminarvi sull’argomento; la vita è troppo corta! Quanto al governo, sarò più esplicito. Da quarant’anni la Francia è governata da persone a cui nessuno affiderebbe il suo portamonete. – Vi interessa l’aviazione? Seguite i progressi degli aereoplani e dei dirigibili? – Appassionatamente! Ogni giorno vengo a sapere con la più grande soddisfazione che uno di questi acrobati si è fracassato la testa. – Avete un’opinione sulla questione marocchina? Temete una guerra per i vostri compatrioti? – Gli unici marocchini che conosco sono quelli delle rilegature, ma preferisco di gran lunga la pelle di scrofa per le mie edizioni di lusso. Quanto alla guerra imminente, l’aspetto con impazienza, persuaso che sarà sterminatrice e che il numero degli imbecilli – voi mi capite, signore – diminuirà considerevolmente. – E la giovane letteratura? – Non esiste la giovane letteratura, ci sono soltanto delle persone di talento e delle canaglie… Mentre diceva le ultime parole, mi fissò, aggiungendo: - Non so a quale delle due categorie apparteniate… Fu la sua ultima parola; la pazienza si stava esaurendo e il molosso, sorpreso dalla lunga cordialità del padrone, dava segni di impazienza. Presi la fuga» (da Il pellegrino dell’assoluto, Città nuova editrice, pp.175-176). Lo stesso Bloy annota nel suo diario: «divertente intervista messa su da Brou e da me stesso per liberarmi dall’incubo di un giornalista scatenato che non volevo far entrare in casa». Che i professori cattolici imitino il letterato che predicava la santità alla portata di tutti e comprino molossi o altri cani cattivi.

sabato 16 luglio 2011

Cerimonia funebre

~ PREZIOSI FRAMMENTI LETTERARI
NEL GIORNO DELLE ESEQUIE DI OTTO D’ASBURGO ~

Gabriella Bemporad con signorile sottotono le chiamava «note», senza alcun titolo, e le apponeva in guisa di postfazione a testi bellissimi che traduceva dal tedesco; vi concentrava le ultime stille di un’eleganza ormai introvabile nella consuetudine editoriale. In una di queste, che accompagnava l’hofmannsthaliano romanzo Andrea o I ricongiunti (Andreas oder die Vereinigten), a proposito della geografia culturale che aveva come poli Vienna e Venezia scriveva: «il più singolare luogo geometrico dei congedi e delle nuove partenze». Oggi a Vienna, dopo tredici giorni di lutto, ci si accomiata dall’ultimo imperatore, riconosciuto nella sua maestà solo dagli esuli, nobili ed ebrei.

La nobiltà è una maschera – spiegava la eccelsa germanista – evita la rude socievolezza dell’homo homini lupus. L’ingenuità dei repubblicani dal volto nudo, dell’uomo senza passato che perciò deve rinunciare anche alle meraviglie sperimentate nell’infanzia, conduce al puritanesimo triste, senza ornamenti (o con ornamenti rubati ai re spodestati). I riconciliati con il passato, con la tradizione, con il mondo aureo, possono credere alla sapienza delle fiabe.

Della scrittura del Maestro delle maschere diceva: «la pagina – che pure narra incertezze e angosce esistenziali e le intuizioni confuse […] – appare difesa da una superficie liscia come uno specchio, priva di crepe o spiragli, da un fluire ininterrotto ma mai turbinoso […]. La materia appare pacificata…». La forma – politica, imperiale, e letteraria – rappacifica. La signora fiorentina parlava con garbo di «quel felice componimento delle dissonanze che è il fine della narrazione». Estraneo adesso ai più che trafficano con la scrittura e con il pensiero.

E celebrando la «sobrietà del ricco», la «semplicità del raffinato», l’amica di Cristina Campo sempre in quella stessa Nota citava una frase di Hofmannsthal nella parte incompiuta dell’Andreas, riferita al Cavaliere di Malta: «Mania di perfezione: immaginare splendide feste conduce a non trovare perfetta alcuna festa, salvo le esequie di un monaco certosino».

Avvolta nella bandiera imperiale giallo-nera, la salma dell’ultimo imperatore senza impero, di un fantasma imperiale, è tornata a Vienna. Il corteo funebre si snoderà nel centro storico della città per portare Otto nella cripta imperiale dei Cappuccini, dove dal 1633 sono sepolti più di cento suoi antenati. Al termine del tragitto – raccontano i cronisti – l’araldo busserà con la mazza alla porta della chiesa. Dall’interno, come è sempre avvenuto nei secoli, un cappuccino chiederà: «Chi vuole entrare?». L’araldo risponderà: «Otto d’Asburgo, erede al trono d’Austria e d’Ungheria, dei regni di Boemia, Croazia, Dalmazia, Slavonia, Galizia, delle contee di Gorizia e Gradisca...». «Non lo conosco» dirà il frate. L’araldo ci proverà di nuovo annunciando «l’erede al trono di Austria e Ungheria». E riceverà un altro rifiuto. Alla fine annuncerà semplicemente: «Otto, un povero peccatore». E la porta della chiesa si aprirà all’ultimo Asburgo, che ha vissuto la fine dell’impero. Barocco asburgico, particolarmente funereo.

A pochi passi dalla Cripta, c’è la chiesa di Sant’Agostino, l’imperiale Augustinerkirche, il tempio che conserva i cuori asburgici e dove si celebrarono le nozze di Sissi con Francesco Giuseppe e quelle di Maria Luisa con Napoleone Bonaparte nemico dei re. Lì Antonio Canova, in un’èra rivoluzionaria, senza fondamento, innalzò una sepoltura tragica, tradusse in scabro moderno il barocco lugubre degli Asburgo. La giovane Maria Cristina si avvia sola, patetica, verso il mistero cupo del tenebrosissimo Ade. La si vorrebbe abbracciare e confortarla con la «lux perpetua» che invochiamo nel Requiem. La piramide del mondo pre-cristiano però accenna a morti pagane. Forse Canova vi ha messo in scena il contrappasso per l’egoismo moderno.

In un balenio di spirito aristocratico, di irriproducibile, di unico, Sacramozo, personaggio dell’Andreas che «conosce la potenza dell’azione creatrice» dice: «il rapporto più sacro è quello tra apparenza e sostanza – e come viene incessantemente ferito! si può pensare che Dio l’abbia nascosto tra aculei e spine –. Noi possediamo un arsenale di verità, forte abbastanza da ritrasformare il mondo in un pulviscolo di stelle, ma ogni arcanum è chiuso in un crogiolo di ferro, per colpa della nostra durezza e della nostra stolidità, dei nostri pregiudizi, della nostra incapacità di concepire l’irripetibile».

martedì 5 luglio 2011

L'Impero dei sogni

~ LA MORTE DELL’ARCIDUCA OTTO D’ASBURGO ~

Si legge nella rete: «Nella notte tra il 4 e il 5 luglio il Signore ha chiamato a Sé l’anima buona e fedele dell’ultimo figlio vivente del beato Imperatore Carlo d’Asburgo e di Zita di Borbone-Parma, S.A.I.R. l’Arciduca Otto d’Asburgo-Lorena, ultimo discendente della dinastia imperiale d’Austria. Nelle sue vene scorreva il sangue di tante famiglie reali e imperiali (Asburgo, Lorena, Borbone, Braganza, etc.). Le esequie saranno celebrate a Vienna il 16 Luglio. Riposerà con i suoi valorosi avi nella Cripta del Cappuccini (Kapuzinergruft). Con lui, grandissimo patriota europeo, scompare l’ultima nobile e tangibile vestigia di una delle più gloriose monarchie. In memoria aeterna erit justus: ab auditione mala non timebit. Requiescat in pace».

Franz Josef Otto Robert Maria Anton Karl Max Heinrich Sixtus Xaver Felix Renatus Ludwig Gaetan Pius Ignatius von Habsburg-Lothringen aveva 99anni. Era stato un vero avversario dei nazisti, un pericolo per la loro Anschluss. Nel dopoguerra fu deputato e eurodeputato del Partito popolare. Condannato all’esilio per aver perso la guerra mondiale che la massoneria e i nazionalismi mossero nel 1914 all’impero davvero multietnico (cattolico), dovette chiedere la patente democratica agli austriaci che avevano votato in massa l’annessione alla Germania hitleriana. Ma era un garbatissimo signore e come tutti i gentiluomini d’un tempo sapeva sorridere generosamente davanti ai piccoli imbrogli politici. È morto in Baviera dove visse per mezzo secolo.

Joseph Roth, in fuga dai nazisti, si convinse che l’Arciduca fosse l’unico che potesse salvare l’Austria dalle camicie brune. In quegli anni il romanziere esaltava Pio XII come il provvidenziale difensore degli ebrei e si faceva paladino dell’erede degli Asburgo, ossia del protettore cattolico delle minoranze. Ci siamo ormai dimenticati che alcuni letterati ed artisti nella prima metà del Novecento seppero resistere alle sirene chiassose degli espressionismi d’ogni sorta, alle grida delle avanguardie, o talvolta superarono certi entusiasmi giovanili, per riscoprire il gusto elevato, la forma eterna. Per dei Brecht e dei Céline che mettevano il proprio talento al servizio della plebe, mimando il gergo grossolano che diventava il loro stigma, c’erano gli Hofmannsthal e i Borchardt che inseguivano un sogno antico più nobile d’ogni utopia moderna. Fantasticavano un’araldica del cuore, coniugavano in modo novalisiano Europa e poesia.

«Il plebeismo delle idee moderne è opera dell’Inghilterra», sosteneva Nietzsche, «il plebeismo dell’agire moderno è opera della cosiddetta arte contemporanea», si potrebbe aggiungere, ma un drappello di letterati, artisti e musicisti si schierò con l’aristocrazia anche nel Novecento. Da Baudelaire in poi, lungo è l’elenco dei pugnaci conservatori. Dall’«interiorità protetta dal potere» alla mobilitazione della interiorità per proteggere il potere: era lo schizzo per ricostruire un passaggio fondamentale della cultura europea tracciato dal nostro Marianello Marianelli, chiosatore di Borchardt. E quest’ultimo, prendendo a pretesto il giovane Kaiser germanico che nel 1908 compiva vent’anni, considerava l’imperatore un oggetto della «fantasia utilizzatrice dei popoli», la «figura che non invecchia mai», «il giovane re che esercita tutto il suo dominio sugli oscuri sentimenti, che una volta era proprio delle figure mitiche e poetiche» (in indubitabile assonanza con Stefan George). E ancora Marianelli, commentando il borchardtiano Der Fürst (dell’anno fatale 1933) spiega come «il principe, il monarca non ha più nulla di istituzionale, di storico: è, semmai, una delle figure fisse dell’umanità, come l’‘eroe, il santo, l’amazzone, il poeta, il giocoliere, il veggente, l’aedo’. Si tratta ovviamente delle figure riprese dal 'teatro del mondo', dal carillon di archetipi del suo amico Hofmannsthal…».

L’ebreo Borchardt auspicava un Terzo Reich, un Regno dello spirito che gli fu rubato nel nome da violenti demagoghi, il cattolico Hofmannsthal predicava la Rivoluzione conservatrice. In Der Fürst, Borchardt ragionava: «Annientata, la regalità nutre di sé ogni secolo e perfino le repubbliche sue naturali nemiche: le repubbliche francesi si sono protette dalle conseguenze della loro decadenza solo in grazia di un concetto di monarca nato nel medioevo. L’immagine di un universo fondato sulla giustizia romana, nato entro l’occhio regale di Cesare, ha costretto un millennio di storia europea a conformarsi su quella». Sembra di leggere Carl Schmitt. E aggiungeva un ammonimento: «il mondo intero sta diventando conservativo per autodifesa, per difesa della propria eredità». La regalità dipende dalla sua vitalità, non certo dalle sue fortune e sfortune storiche. La regalità dipendeva dal ‘clima nobile’ ricreato da Hofmannsthal che lo scopriva in quegli anni nei personaggi di Shakespeare come nella geografia teresiana che trova il suo vertice nella Venezia fuori del tempo del romanzo di Andreas. Se Roth aveva narrato l’epopea asburgica moderna e Musil ne aveva contemplato ironicamente il tramonto (ma in quell’ironia, nel sorriso mentre ci si inabissa, era nascosta la cifra aristocratica e cattolica), Hofmannsthal aveva parlato del sistema asburgico quale «imperio non solo temporale ma anche sacrale che si sovrappose alle nazioni». Abituati questi signori a pensare «sub specie aeternitatis», riuscivano a vedere il carattere sacrale della forma imperiale. Tuttavia, in quell’epoca incerta e carica di pericoli, l’impero era alla ricerca di un casato e con esso la piccola folla di letterati e artisti. Roth, con il senso pratico degli esuli inseguiti, lo trovava nel giovane arciduca scomparso l’altro giorno. Hofmannsthal in modo più letterario riprendeva da George tale ricerca e la trasformava nella versione calderoniana del suo ultimo dramma, Der Turm. Borchardt la rievocava, piuttosto, in quel possente canto d’amore dedicato a Pisa, città imperiale.

Ma in cerca di una aristocrazia 'moderna' furono pure i pensatori francofortesi che inventarono antenati alto-borghesi in luogo dei loro genitori bottegai, per ricreare una civiltà delle buone maniere novecentesca, un gusto aulico raggiunto con i più severi ascetismi, un understatement che li portò a nascondersi nei panni prosaici dei sociologi pur di non concedere nulla allo snobismo proustiano: era la nuova nobiltà degli ebrei. Else Lasker-Schüler ne tracciò alcune figure suggestive con le corone di latta benché assai eleganti. Gottfried Benn si spingeva fino ai Dori, Ernst Jünger con più cinismo lasciava da parte la ricerca di un casato e si limitava ai geniali cavalieri che salvano l'Occidente nella geografia tormentata intorno alle scogliere di marmo...


Un culto democratico ormai secolare ha cancellato questo tema. Forse anche a causa della vulgata di Hermann Broch sul mondo decadente delle gaie apocalissi, degli ebrei amici di sovversivi, di freudismo, di modernismi, di cancellazione degli ornamenti, perfino di nostalgie asburgiche che si colorano di folclore, di rimpianti della Vienna degli ufficialetti, viene nascosto il tormento di coloro che lavorarono con le parole, i pensieri, i suoni e le immagini, alla restaurazione. La notizia della morte dell’ultimo erede di quel mondo, del prodigo amico dei letterati, finito con loro nell’esilio interminabile del nostro tempo, ne ha risvegliato per una notte il ricordo.

giovedì 23 giugno 2011

Blowin' in the Wind

~ E I CERVELLI ELETTRONICI DI PIO XII ~

Eolo è invocatissimo in questi giorni. Auree brezze si vantano a sinistra, Radiotre trasmette Blowin’ in the Wind come fosse un inno di quel che soffia sulla penisola. Davvero la risposta alle questioni politiche del terzo millennio è nella canzone a modo suo isaiaca di Dylan?

Folle ideologicamente legate alla maggioranza e folle ideologicamente legate all’opposizione che votano compatte su strampalati quesiti, assai tecnici e incomprensibili a gran parte dell’elettorato, e per lo più con un certo entusiasmo, quasi si trattasse di tifoseria calcistica, con prevalenza nelle avanguardie, pare, di donne e giovani che vogliono districarsi nella politica energetica e nel diritto costituzionale. C’è «una convinzione quasi teologica» (De Rita) che l’acqua non debba essere sporcata da presenze di privati (pubblica era e rimane, checché ne abbiano detto i propagandisti), adesso però gli acquedotti funzioneranno peggio di prima ma i votanti appartengono magari a quelle turbe che si caricano delle casse di acqua minerale, che bevono liquidi conservati in plastica, trasportati sotto il sole nei camion e abbandonati in depositi per lunghi periodi, gente che paga profumatamente per l’acqua in scatola. Risultati bulgari, come si diceva una volta, a favore delle municipalizzate spesso mafiosette, che assetano tanti paesi così come a Roma non riescono a far muovere civilmente gli autobus. Ma non c’era stata la voga liberale? Già passata? La rosa dei venti è impazzita.

Fa paura vedere l’unanimità su certi punti. Non è lo stesso delle maggioranze estese a favore di un partito o di un leader, là è il gioco democratico della fiducia a una persona: credi nel suo sorriso e la deleghi quale tua rappresentante. Nei referendum invece si tratta di ammucchiarsi senza alcuna discriminazione su questioni delicate che pretenderebbero conoscenze specifiche e tanti distinguo.

Rileggendo Breza, un personaggio che i nostri quattro lettori hanno sentito citare molte volte, si trova qualche accenno ai pensieri ‘politici’ di papa Pio XII, che spiegano forse la direzione del vento attuale. Con un tono leggero, lo scrittore polacco riferisce delle riflessioni del coltissimo pontefice, almeno nella forma indiretta e sussurrata per i corridoi del Vaticano dei Cinquanta, quando c’era chi diceva che l’America aveva preso Cristo senza la croce e la Russia la croce senza Cristo. «Se non ci fosse il comunismo, la spina principale, il problema numero uno sarebbe l’America e l’americanizzazione spirituale del mondo. Il papa non ne parla, non la nomina mai chiaramente. Definisce la nostra epoca come l’epoca della “seconda rivoluzione tecnica”. Tale rivoluzione fa sì, questo più o meno il suo pensiero, che ormai ci appaiano vicini gli orizzonti di un’era in cui non solo la natura del mondo non avrà più segreti, ma non ne avrà più neanche quella dell’uomo, preso sia individualmente che nelle sue connessioni sociali. I gabinetti medici e le cliniche ristabiliranno l’equilibrio morale; i problemi sociali man mano si presenteranno verranno risolti in un baleno dai cervelli elettronici; non ci sarà più posto per le passioni, per gli impulsi, per l’irrazionale. […] Più piano! Più piano! Lasciate che l’uomo riprenda fiato! […] Coloro che accusano la Chiesa di tradizionalismo, prosegue Pio XII, non capiscono che oggi al mondo non c’è niente di più umano della tradizione. […] La tradizione, sempre a detta di Pio XII, non solo ha un valore terapeutico per la piaga della vita moderna, e cioè la rapida e incessante trasformazione del mondo sotto la spinta delle illimitate possibilità tecniche, ma dovrebbe anche venir applicata preventivamente dovunque il progresso non sia ancora arrivato…» (Il portone di bronzo, Feltrinelli, pp. 111-112).

Quel futuro lontanissimo è arrivato da un po’. Ai tempi delle previsioni pacelliane ci si chiedeva se avrebbe vinto il comunismo o il capitalismo, in pochi pensavano ai cervelli elettronici, troppo affamati per occuparsi della piaga del moderno, troppo devoti al progresso per ripescare la terapia della tradizione. Intanto la questione sociale è proprio scomparsa. Nessuno la agita più per i nostri connazionali. I diseredati son soltanto gli immigrati. La minoranza operaia di un tempo invece si è così assottigliata che non ha più quella forza di ricatto (il rapporto di forza) che secondo Marx permetteva una soluzione scientifica del problema; gli scioperi sono avvertiti soltanto dai più poveri che ne diventano le uniche vittime. Al massimo, i comici concedono una frase commiserevole: «siete la parte migliore del paese», detta dai comici è una battuta per far ridere, come il pietoso «si è giovani dentro» che vuole consolare scioccamente i vecchi. Il resto del Paese se la spassa con le opinioni. La sinistra e la destra si lasciano conquistare dalla sirena dei desideri, dal rispetto dei cosiddetti diritti umani, dalle mode ‘morali’, ieri libertine oggi puritane, sempre capricciose, libere scelte senza ragione, mai guidate da alcun magistero eccetto quello esercitato dagli opinionisti; giusto oggi un oncologo di fama offre responsi ‘scientifici’ sulla purezza dell’amore omosessuale. Si soffre dunque di progresso, «le illimitate possibilità tecniche» sradicano le nostre abitudini e producono disagio. Gli espiantati non hanno un partito ma opinioni che si coagulano in movimenti effimeri, nella rete, nella vita civile, stavolta addirittura nelle urne.

Tutta la predicazione sociale post-conciliare perciò appare inutile, come le chiese costruite sul modello della fabbrica, che nel frattempo è diventata un residuato. Avendo dimenticato la predicazione della salvezza - la promessa della resurrezione dei morti - e la liturgia che specchia il Cielo, i preti che vogliono restare à la page (o a quella che un tempo sembrava la novità estrema) finiscono nelle chiacchiere ‘protestanti’ sulle questioni morali ma senza alcun prestigio nel dibattito dei laici. Egemonizzati dal gruppo L’Espresso, non sanno proporre neppure in questo campo la soluzione evangelica. Si fidino allora di chi ha anticipato i tempi. La tradizione è una buona ricetta nell’èra dell’informatica. Adesso che il comunismo appartiene al passato è il momento di concentrarci sull’«americanizzazione spirituale del mondo»: la questione americana è la questione ‘protestante’.

mercoledì 15 giugno 2011

Le tre Dame

~ LA MODA, LA MORTE E L’ARTE ~

Massimo scandalo quando il responsabile del Padiglione italiano alla Biennale di Venezia, che da tempo non si scandalizza più di niente, ha denunciato, anche su indicazione di Marc Fumaroli, l’osceno connubio tra arte e moda. I potenti della fashion si son subito mobilitati rilasciando ridicoli patentini di eleganza: quando mai i sarti si permisero di giudicare il buon gusto dei loro clienti? Forse in ciacole molto private, pettegolezzi per alleviare il lavoro, ma la Biennale somiglia ai Saturnali, gli addetti all’abbigliamento si sentono artisti e i critici che dovrebbero essere uomini liberi si mettono al servizio dei servi. Resta il fatto che quella denuncia somiglia alla fiaba del re nudo (non a caso il racconto di Andersen è intitolato I vestiti nuovi dell’imperatore e parla di sarti imbroglioni e di cortigiani complici), la radicale differenza tra moda e arte essendo comprensibile anche ai bambini. La prima infatti, nonostante scintilli e motteggi, ha un fondo sinistro: Madama Moda, Madama Morte, dice Leopardi mettendole in consonanza. La seconda dovrebbe vincere il tempo, sottrarci al finito, risultare una metafora della salvezza eterna. Collocate insieme, somigliano alle incisioni seicentesche in cui uno scheletro pone le sue mani ossee nelle carni di una florida donna nuda.

lunedì 13 giugno 2011

I fiori del bene

~ PRIMA DI DIRE «SORELLA ACQUA»
E GIOCARE A FARE I FRANCESCANI IN POLITICA ~

Dopo che l’agitarsi di preti e laici intorno a «sora acqua» ha fatto da apripista alla vittoria di una fazione politica che con l’acqua francescana ha davvero poco a che vedere, è meglio rammentarsi della figura di san Francesco come la raccontano i suoi discepoli, liberandoci dai cliché ridicoli che riducono l’alter ego di Cristo a un fraticello pacifista e sinistrorso. Insomma, non tirate per il saio Francesco dalla vostra parte politica. Ascoltate i testimoni, gli agiografi incantati dei Fioretti.

«In prima è da considerare che ’l glorioso messere santo Francesco in tutti gli atti della vita sua fu conforme a Cristo benedetto: ché come Cristo nel principio della sua predicazione elesse dodici Apostoli a dispregiare ogni cosa mondana, a seguitare lui in povertà e nell’altre virtù; così santo Francesco elesse dal principio del fondamento dell’Ordine dodici compagni possessori dell’altissima povertà. E come un de’ dodici Apostoli, il quale si chiamò Iuda Scariotto, apostatò dello apostolato, tradendo Cristo, e impiccossi se medesimo per la gola: così uno de’ dodici compagni di santo Francesco, ch’ebbe nome frate Giovanni dalla Cappella, apostatò e finalmente s’impiccò se medesimo per la gola. E questo agli eletti è grande esempio e materia di umiltà e di timore, considerando che nessuno è certo perseverare infino alla fine nella grazia di Dio. E come que’ santi Apostoli furono a tutto il mondo maravigliosi di santità e d’umiltà, e pieni dello Spirito Santo; così que’ santi compagni di santo Francesco furono uomini di tanta santità, che dal tempo degli Apostoli in qua il mondo non ebbe così maravigliosi e santi uomini». Fedelissimo nell’imitazione del Crocifisso, con un Giuda impiccato tra i suoi, non si sente qui l’aria melliflua del francescanesimo di maniera.

Aveva donato tutte le sue ricchezze e quelle dei suoi amici, abbandonando anche la propria croce per seguire quella di Cristo. Fece molta penitenza, ed eccessiva: «frate Bernardo disse: ‘Or dite, padre quello che voi volete ch’io faccia’. Allora disse santo Francesco: ‘Io ti comando per santa ubbidienza che, per punire la mia prosunzione e l’ardire del mio cuore, ora ch’io mi gitterò in terra supino, mi ponga l’uno piede in sulla gola e l’altro in sulla bocca, e così mi passi tre volte e dall’uno lato all’altro, dicendomi vergogna e vitupero, e specialmente mi di’: ‘Giaci, villano figliuolo di Pietro Bernardoni, onde ti viene tanta superbia, che se’ vilissima creatura’».

Un tale uomo non credeva che il senso della sua missione fosse nell’apparire santi e perbene alla pubblica opinione («Frate Lione, avvegnadioché li frati Minori in ogni terra dieno grande esempio di santità e di buona edificazione nientedimeno scrivi e nota diligentemente che non è quivi perfetta letizia»), né tantomeno che il senso della vita fosse nella conoscenza e nella scienza: «O frate Lione, se ’l frate Minore sapesse tutte le lingue e tutte le scienze e tutte le scritture, sì che sapesse profetare e rivelare, non solamente le cose future, ma eziandio li segreti delle coscienze e delli uomini; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia». O anche: «O frate Lione, pecorella di Dio, benché il frate Minore parli con lingua d’Agnolo, e sappia i corsi delle istelle e le virtù delle erbe, e fussongli rivelati tutti li tesori della terra, e conoscesse le virtù degli uccelli e de’ pesci e di tutti gli animali e delle pietre e delle acque; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia». Spiegando quindi dove trovare la chiave della felicità: «‘Quando noi saremo a santa Maria degli Agnoli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo e infangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo la porta dello luogo, e ’l portinaio verrà adirato e dirà: ‘Chi siete voi?’ e noi diremo: ‘Noi siamo due de’ vostri frati’; e colui dirà: ‘Voi non dite vero, anzi siete due ribaldi ch’andate ingannando il mondo e rubando le limosine de’ poveri; andate via’; e non ci aprirà, e faracci stare di fuori alla neve e all’acqua, col freddo e colla fame infino alla notte; allora se noi tanta ingiuria e tanta crudeltà e tanti commiati sosterremo pazientemente sanza turbarcene e sanza mormorare di lui, e penseremo umilmente che quello portinaio veramente ci conosca, che Iddio il fa parlare contra a noi; o frate Lione, iscrivi che qui è perfetta letizia. E se anzi perseverassimo picchiando, ed egli uscirà fuori turbato, e come gaglioffi importuni ci caccerà con villanie e con gotate dicendo: ‘Partitevi quinci, ladroncelli vilissimi, andate allo spedale, ché qui non mangerete voi, né albergherete’; se noi questo sosterremo pazientemente e con allegrezza e con buono amore; o frate Lione, iscrivi che quivi è perfetta letizia. E se noi pur costretti dalla fame e dal freddo e dalla notte più picchieremo e chiameremo e pregheremo per l’amore di Dio con grande pianto che ci apra e mettaci pure dentro, e quelli più scandolezzato dirà: ‘Costoro sono gaglioffi importuni, io li pagherò bene come son degni’; e uscirà fuori con uno bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e gitteracci in terra e involgeracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone: se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore; o frate Lione, iscrivi che qui e in questo è perfetta letizia». Solo tipi del genere possono parlare di «sorella acqua» senza apparire ipocriti e ridicoli. Se uno dice «frate Sole» non lo si confonda con un ecologista, ci si ricordi che più in là dice anche «sorella morte corporale», è un santo cristiano che brama il Cielo non un politico.

A chi si inorgoglisce nel condannare i costumi morali degli altri, Francesco ricordava che è compito del cristiano sentirsi il peggiore, non l’eletto, agli occhi divini: «quelli occhi santissimi non hanno veduto fra li peccatori nessuno più vile, né più insufficiente, né più grande peccatore di me; e però a fare quell’operazione maravigliosa, la quale egli intende di fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra, e perciò ha eletto me per confondere la nobilità e la grandigia e la fortezza e bellezza e sapienza del mondo, acciò che si conosca ch’ogni virtù e ogni bene è da lui, e non dalla creatura, e nessuna persona si possa gloriare nel cospetto suo; ma chi si gloria, si glorii nel Signore, a cui è ogni onore e gloria in eterno». Perciò quando parlava, talvolta, come capitò ai patriarchi biblici, Dio appariva in mezzo a lui e i confratelli, e talvolta i suoi santi celesti.

E trasformò un lupo feroce in una specie di agnellino, le tortore selvatiche in tortore domestiche, un frate indemoniato in un buon cristiano, affrontò anche i «ladroni omicidi» senza vezzeggiarli, anzi rimproverandoli aspramente, convertendone uno in un pio frate: e queste son cose che permettono di parlare onestamente di «sorella acqua». Senza dimenticarsi che per Francesco anche il lupo appariva un fratello piuttosto che un violento minaccioso.

Ma non era un frate «dialogante» con le altre religioni, semplicemente un annunciatore del Vangelo. Si recò con dodici confratelli dal «Sultano di Babilonia» (il nipote del Saladino), nelle terre dei saraceni, «ove si guardavano i passi da certi sì crudeli uomini, che nessuno de’ cristiani, che vi passasse, potea iscampare che non fosse morto: e come piacque a Dio non furono morti, ma presi, battuti e legati furono e menati dinanzi al Soldano. Ed essendo dinanzi a lui santo Francesco, ammaestrato dallo Spirito Santo predicò sì divinamente della fede di Cristo, che eziandio per essa fede egli voleano entrare nel fuoco». Certo, non offriva le chiese per la preghiera musulmana.

Non trescava neppure con l’eresia catara, non vedeva ossessivamente il mondo diviso tra bene e male, ammirava anzi la meraviglia del creato e rispettava la gerarchia ecclesiastica, anche quando gli uomini che la incarnavano apparivano corrotti: di fronte a un prete peccatore si limitò a baciargli le mani che consacravano l’ostia. A differenza dei catari, mangiava carne e uova, rispettava tutte le creature senza confondere gli animali con l’uomo, posto da Dio sopra l’intero universo.

In politica si può ricorrere a una simile figura? Non si tratta forse di un uso strumentale, e un po’ ignobile, di un santo irraggiungibile per fini assai vili? Si penta dunque chi giubila stasera in nome di Francesco per una vittoria di Pirro e terribilmente mondana.

sabato 11 giugno 2011

Il curato di madame Bovary

~ UN PRETE PROGRESSISTA MESSO IN SCENA DA FLAUBERT ~

Per ricordarci che lo scontro tra una modernità barbarica e il cattolicesimo non risale al Novecento e che i tentativi talvolta maldestri e perniciosi degli ecclesiastici per convertire questi nuovi barbari vengono da più lontano dell’ultimo concilio, leggiamo le parole di Flaubert in una lettera alla sua amante Louise Colet. L’autore di Madame Bovary ritrae un prete confessore pieno di zelo sociale ma poco sensibile alle malattie dell’anima. Responsabile indiretto dello smarrimento progressivo della povera protagonista del romanzo, confusa dalla «pornografia del sentimentalismo» (come avrebbe potuto dire la scrittrice cattolica Flannery O’Connor).

«Finalmente comincio a vederci un po’ chiaro nel mio dannato dialogo col curato… Voglio esprimere questa situazione: la mia donnina, in un acceso di religiosità, va in chiesa, trova sulla porta il curato, il quale in un dialogo (senza un soggetto determinato) si mostra talmente stupido, piatto, inetto, taccagno, che lei se ne torna disgustata, indevota; e il mio curato è un bravissimo uomo, anzi eccellente, ma pensa soltanto al fisico (alle sofferenze dei poveri, alla mancanza di pane o di legna), e non indovina i vacillamenti morali, le vaghe aspirazioni mistiche; è castissimo e osserva tutti i suoi doveri. La scena deve occupare sei o sette pagine al massimo e senza una riflessione né un’analisi (tutto in dialogo diretto)» (Lettera dell’aprile 1853, in Correspondance, Conard, pp.166-167).

Anche «senza una riflessione» e senza commenti, le poche righe citate dovrebbero esser d’ammaestramento a quei preti, bravissimi uomini anzi eccellenti, che in qualche chiesa hanno celebrato in questi giorni il sacrificio della messa su uno straccio che penzolava verso i fedeli con la scritta cubitale che ingiungeva di votare «quattro sì ai referendum». In fondo il buon curato tendeva a farsi simile al farmacista Homais, la quintessenza del ridicolo progressista votato a tutti i luoghi comuni. A questo punto, «Madame Bovary siam noi», fedeli che ce ne torniamo dalla chiesa indevoti.
.

domenica 5 giugno 2011

Roma senza papa

~ I PROFETI DI CINECITTÀ «SUPER HANC PETRAM» ~

«Silete theologi» che dibattete sugli squarci più o meno catastrofici introdotti dal Vaticano II, obbedite all’intimazione di Alberico Gentili, disertate il forum animato da Sandro Magister, raccoglietevi per ascoltare le verità dei cinematografari che profetizzano con una certa tracotanza sulla Chiesa di domani. «A San Pietro, a San Pietro!», risuonava ancora onesta la parola d’ordine che concludeva Lo sceicco bianco, «dal papa, dal papa!» era l’invito felliniano che riconciliava nell’abbraccio del Colonnato le coppie e le famiglie. Nella stessa privilegiata location, due film recenti, uno con la semplicioneria americana, Angeli e demoni, e uno italiano, romano, ideato e girato nei quartieri che circondano il Vaticano, Habemus papam, sembrano pronunciare pur in trame assai diverse un medesimo oracolo. L’americano riecheggiando i luoghi comuni dominanti sulla Chiesa e le inesattezze storiche degli anticlericali in un thriller strampalato, dando corpo sul set unico alle fantasticherie paranoiche; il ‘romano’ narrando di una Santa Sede scettica e scanzonata, secondo l’immaginario di Fellini, ancora lui, quando scambiava i cardinali eminentissimi con le comparse argutissime, e ricorrendo anche al pittoresco di Mario Giacomelli. Ma tutti e due i film sono incatenati a quel balcone, turbati dall’ora cruciale della sede vacante, fantasticano intorno al vuoto che si apre con la morte del sovrano, fanno rivivere la paura dei sudditi papalini quando il cardinal camerlengo rompeva l’anello piscatorio e annunciava che il trono di Pietro era senza titolare mentre negli appartamenti apostolici si scatenavano i saccheggi. Roma senza più papa fu l’angoscia di Francesco Petrarca, di Caterina da Siena, di Cola di Rienzo.

Il film sull’eletto che non osa accettare fino in fondo l’investitura divina ricorderà forse il romanzo di Guido Morselli, Roma senza papa del 1966, con un pontefice ombroso e silente, auto-esiliatosi a Zagarolo. Fantascienza vaticanista che provava a immaginare, nel fine secolo post-conciliare, ogni violazione delle forme della Catholica. L’Urbe «protestantizzata», i «reverendi con signora», i reverendi che figliano, i «padri francesi che vogliono l’abolizione delle ‘residue discriminazioni tra buddhismo e cristianesimo’» e i vecchi che non leggono più l’«Osservatore Romano» ritenendolo un giornale troppo scandalosamente neofilo; eppure la messa si dice ancora in latino. Altro che la paura di ricoprire il ruolo di Vicario di Dio, il tentennamento di fronte al peso di sciogliere quaggiù quello che automaticamente dischiuderà le porte del Cielo - quasi virtuosa una simile umiltà benché eccessivamente pavida, umana, nella tradizione aperta da Pietro che rinnegava Gesù per vigliaccheria; nel suo romanzo Morselli annunciava ben più tristi stagioni ecclesiastiche, quando il cattolicesimo sarebbe diventato un soufflé sotto i colpi del caos teologico, nell’anarchia delle sètte. E già si incontravano gli orrori post-conciliari, la musica sacra ridotta a trivialità pop, la temerarietà di benedire «l’Anticristo psicoanalitico», la contaminatio con l’evoluzionismo, la teologia anti-missionaria che si rammarica che i bantù e i bashuana non abbiano «convertito gli europei invece di lasciarsi convertire», auspicando «una bilateralità di apostolato». Con qualche decennio di anticipo, Morselli scrive che «il cristianesimo è pronto a consacrare unioni stabili fra i sessi di qualunque segno». Intanto «la Chiesa sta ripudiando la sua romanità fastosa, e festosa, persino a Roma. Vedremo se ci riuscirà; città e razza qui sono felicemente refrattarie […] La Chiesa è in cerca di una austerità […] Dichiara guerra al visibile. Al senso. Niente Tobriand, niente amore pagano. (Il matrimonio ecclesiastico è una sconfitta della carnalità. Non una sua vittoria di sicuro)».

Il cinema cerca di surgelare il flusso televisivo illudendosi di possedere in tal modo un piccolo privilegio artistico. Ricorre perciò all’onnipotenza dell’io narrante, agli stratosferici investimenti finanziari, all’eccesso temporale (nella lentezza e nella celerità), ai divi globali. Così facendo resta più attaccato all’apparecchio domestico, fedele nell’enfasi, nella amplificazione delle icone del più piccolo schermo. Ecco allora i due film in questione rilanciare quello che l’umanità ha visto per giorni incollata al televisore, durante i funerali del beato Giovanni Paolo Magno, nel 2005, e durante il conclave che ha eletto il timido Benedetto, eroico nella battaglia dell’ortodossia, incerto nei rapporti con le folle. E ci ricamano sopra, sfruttando quelle immagini fisse nella memoria, utilizzando il carisma della scena cattolica. Angeli e demoni come Habemus papam mettono bocca nelle cose religiose e ripetono tiritere da gazzettieri: la Chiesa deve accettare la scienza, la Chiesa deve modernizzarsi, la Chiesa deve aprirsi, come ripete il confuso Michel Piccoli interprete del papa codardo. Però i registi si lasciano incantare proprio dalla tradizione, dai rituali antichi, dalle procedure misteriose, dalle tende rosse che si aprono al mondo, sipario metafisico, dal superbo spettacolo liturgico che mostra urbi et orbi all’umanità colui che rappresenta Dio su questa terra. Insomma, al di là delle intenzioni, al di là degli appelli progressisti affinché la Chiesa bimillenaria non sia più la Chiesa bimillenaria, il cinema prova a sedurre le platee con la potenza delle immagini di piazza San Pietro. D’altronde, Roma senza papa è «una femmina senza marito», leggiamo di nuovo nel romanzo dello scrittore bolognese. «Vène er Duemila – osserva imbronciata una fioraia ambulante, a Trinità dei Monti, – e che ce resta? Er Presidente de la repubblica. Ce serve assai!».

lunedì 30 maggio 2011

Le rose di maggio

~ PARLA NOVALIS ~

Rose che non profumano più – frutto di complicate ibridazioni che ne indeboliscono l’aroma (ma si dimentica anche, imperiti, che la fragranza ha le sue ore canoniche) – si scompongono nei nostri giardini dopo uno show mattutino, si sfrangiano e si dissolvono, spargendo intorno petali in funerei accenni alla caducità, secondo il loro destino assai effimero: è il mese di maggio, una malinconica festa della Primavera. Dimenticato ormai, anche nelle chiese di campagna, il mese mariano, quando quei fiori adornavano, ogni giorno nuovi, le immagini della Deipara, la Rosa Mystica per eccellenza. Avvolto completamente nell’oblio l’altarino domestico, il luogo aulentissimo della casa, gli esercizi devoti, il florilegio anche spirituale dei piccoli sacrifici quotidiani, i ‘fioretti’, in trobadorico omaggio alla Dama. Ecco la più gentile delle iconofilie. Così fu cristianizzato il «cantar maggio», un rosario quotidiano, una ghirlanda intrecciata per una donna celeste, quando l’«espace d’un matin» si cambiava in eternità. Risuonava l’antifona dell’Assunta: «Vidi speciosam sicut columbam ascendentem desuper rivos acquarum cuius inestimabilis odor erat in vestimentis eius. Et sicus dies verni circumdabant eam flores rosarum et lilia convallium» (Ho visto una bellissima venire su come una colomba dalle acque correnti di ruscelli, e i suoi vestiti emanavano un profumo inestimabile. E come in giornate di primavera, la circondavano fiori di rose e gigli di vallata). Piogge di rose trasponevano gli antichi culti nel socialista «May Day», come nelle incisioni di Walter Crane, aggraziando una sinistra ancora virtuosa e rispettabile.

«Nel tardo autunno ci si ricorda della primavera come di un sogno dell’infanzia» – scriveva Novalis nel suo grande sogno poetico Cristianità o Europa. Dove spiegava come la Catholica avesse civilizzato una umanità selvaggia, educando rozzi maschi a comporre serti fioriti e a deporli nelle edicole dedicate a una donna, a una regina. In questo modo «le inclinazioni più selvagge e struggenti dovevano piegarsi alla venerazione», mentre santi uomini «non predicavano altro che l’amore alla santa e bellissima Signora della Cristianità». E «con quale serenità si lasciavano le belle riunioni nelle chiese misteriose, che erano ornate di edificanti immagini, piene di dolci vapori e animate da una musica santamente esaltante». «L’antica fede cattolica [...] era cristianesimo applicato, divenuto vivo. La sua onnipresenza nella vita, il suo amore per l’arte, la sua profonda umanità, l’inviolabilità dei suoi matrimoni, la sua filantropica espansività, il suo amore per la povertà, per obbedienza, per la civiltà, lo fanno riconoscere come pura religione…». Di quel mondo già rimpianto dai romantici restava traccia, ancora nelle infanzie di noi più vecchi, nel maggio mariano, nelle rose di Venere che finivano sul capo di una vergine.

PICCOLA POSTILLA
A distinguere la rosa dagli altri fiori nell’austero paesaggio italico, soccorrono le sapienti parole di Rudolf Borchardt: «L’esclusione del fiore dai giardini dell’Occidente [fino al Quattrocento] era avvenuta per influsso dell’Italia. Italici, latini, romani, italiani, quando tornano alla natura – e lo fanno con tanta passione, come nessun altro popolo – sognano un paradiso perduto in cui possano sentirsi coltivatori; e, nelle loro tragiche sventure storiche di cittadini, si rivolgono agli antichissimi dèi dei loro antichi mondi contadini ordinati e severi che distinguevano nettamente tra stabilità e seduzione, cultura e natura. Presso Orazio, nulla fiorisce, anzi egli bandisce i fiori con la voce della antica religione italica della virtù contadina. Qui è ammessa soltanto la rosa, purché accompagnata al vino e all’olio sacro…» (Il giardiniere appassionato).

mercoledì 25 maggio 2011

Di un barocco pedigree

~ LA SFILATA DEI SATURNINI
PER NOBILITARE LE AVANGUARDIE
~

Il 7 di maggio si cita l’allegra invettiva di Raffaele La Capria contro i concettualizzatori che soffocano l’arte con astrattezze scoraggianti, spesso nient’altro che tautologie, e subito una lettrice amica evoca la «barrueca» a stretto giro di posta: «… In fondo già i barocchi erano grandi concettuali, creavano opere bellissime e dense di parole e pensiero. Chi meglio di loro ha introdotto noi contemporanei dentro l’allegoria? (così diceva il maestro Benjamin nella sua tesi sul teatro tedesco…)». C’è davvero qualcosa in comune tra il concettualismo di Piero Abelardo, il concettismo dell’«agudeza», l’«arte de ingenio» seicentesca, e i nipotini di Magritte che ostentano cogitazioni trite, prescindendo dalla forma? L’inventio diventa monopolizzante, «Sola Inventio» è scritto nello stemma vacuo degli snob. Ha ragione Paul Valéry, «le moderne se contente de peu», appena di assonanze, di ombre cinesi, di allusioni colte, nient’altro che decorazioni della vita per soddisfarsi.
Questi sparsi pensierini rimandano a una più polposa arte e sono dedicati a M. C. che li ha messi argutamente in moto.

Benché si registri qualche eccesso tra i marinisti, non si tratta di eccentrici per amore di eccentricità, per suo unico fine, come i neoavanguardisti di ieri e i ‘contemporanei’ tout court di oggi. Epperò si legge in Ludovico Muratori (Della perfetta poesia), appena tramontata la moda: «Oltre a ciò confesseranno i Franzesi anch’essi, che la lor Poesia non è tanto da magnificarsi, come se il Gusto cattivo allignasse ora in Italia, e non punto in Francia; e quasi piacessero ne’ tempi addietro alla sola Italia, non alla Francia le Argutezze, gl’Equivoci, i Concetti falsi, e il raffinamento nei pensieri. Questo diluvio fu universale in Europa, né da esse furono esenti la Francia, la Spagna, l’Alemagna, essendosi vedute nel medesimo tempo sommerse ancor quelle Provincie dalla piena de’ falsi Concetti. […] so che Lope de Vega, promotore di tal gusto, nacque fra gli Spagnoli, prima che fra gl’Italiani venisse alla luce il Cavalier Marino, Poeta da noi considerato come il primo che mettesse in riputazione le arguzie viziose, e i falsi Concetti». Restaurata la visione ‘classica’, «questo diluvio universale in Europa» appariva «vizioso» e ci si rimpallava l’accusa di aver introdotto per primi un simile cattivo gusto, una parentesi tenebrosa nella storia solare delle belle arti, un episodio da dimenticare. Soltanto i tedeschi, privi per secoli di pittura e di scultura memorabili, potevano andare a rovistare per primi in quell’epoca biasimata e rovesciare i suoi caratteri tetri in segni di gloria. Non stiamo parlando, ovviamente, dell’arte romana di un Bernini quanto delle germaniche e lugubri opere letterarie e pittoriche (la musica barocca fiorì fuori tempo). Comunque, l’arte della Controriforma è abbellimento del vero, mancano invece nell’intellettualizzazione contemporanea sia l’abbellimento che il vero.

Walter Benjamin in quel suo saggio intraducibile sul Trauerspiel non accennò a Racine o a Corneille, i giganti latini che mettevano in soggezione i tedeschi. Malinconicissimo contemplatore, quando pensava agli angeli non incontrava le splendide creature di Melozzo da Forlì o di Lorenzo Lotto bensì il mostruoso essere raffigurato da Klee con il titolo Angelus Novus, messaggero della post-bellezza, essere umano che declina nell’animalesco.

Esoterismi e complicazioni di origine cabbalistica, da dove derivava l’onnipotenza dell’allegoria, sono alla base di quel trattato che si vuole messa in scena delle avanguardie (del surrealismo soprattutto). Poche pagine, quasi un tratto di penna politico, per cancellare in nome di reperti polverosi seicenteschi la storia dell’arte, i trionfi della tradizione occidentale, qui risucchiati da Saturno, illividiti da un incontenibile lutto: la felicità cui aveva sempre alluso l’arte doveva quindi perdersi, sembrare anzi una ingenua e pacchiana pretesa davanti al tribunale degli intellettuali cervellotici. La aspirazione totalizzante della ideologia invadeva prepotentemente il campo estetico trascurando la tecnè, mettendola tra parentesi come sempre fa di fronte ai dettagli realistici che scompongono i suoi schemi.

Per Benjamin il barocco, come più tardi il romanticismo non costituisce «un correttivo del classicismo quanto dell’arte stessa». Ben più eccentrica del solito binomio barocco/romanticismo – che talvolta poteva diventare gotico/barocco/romanticismo, secondo l’articolazione tedesca – una frase che proviene dal tumultuoso periodo di Weimar, di Werner Kohlschimidt: «Gli antichi come simbolo della catastrofe: questo è il fatto nuovo; perché non è più questione di rifiuto, di ostilità ai classici. Qui si tratta di affinità, addirittura di adeguazione esistenziale al mondo classico». Giusto per dire della febbre alta, del delirio con il quale ci si accostava al mondo della tradizione aurea.

Allegoria della morte: l’operare delle avanguardie non sarebbe altro che il rito di creature senza speranza. Alcuni, tra i più fini interpreti dell’oscura trama benjaminiana, negando i riferimenti metafisici – se non nella terminologia tradizionale – sono concordi sull’allegoria della morte e la collegano addirittura alla meditazione heideggeriana di quegli anni sul finito.

Benjamin ripeteva il luogo comune tedesco, dai romantici ai novecenteschi: «la profondità appartiene solo all’uomo triste». Come in un’eco, scriveva Curtius in una lettera del 1921 a Carl Schmitt: «Essere felici è una deficienza morale». Non riguarda il pensiero heideggeriano questa melancholia ma il suo gergo (che Adorno derideva), le pose che si davano gli ‘esistenzialisti’ (quasi si trattasse di un movimento), gli afflitti panofskiani, i warburghiani ansiosi, i foschi tedeschi immersi nelle scenografie di Albert Speer. La tristezza dell’uomo naturale, dell’animale del post coitum, senza la luce della redenzione pur sempre cercata dal povero W. B. Oppure il cristianesimo angosciato di Lutero.

Cercare modelli artistici nella Germania spossata dalla Guerra dei Trent’anni, nella Germania affamata, dissanguata, annichilita, spettrale, è proprio un bel paradosso. Alla ricerca di spettri legnosi. Né si dimentichi che il mondo germanico volle a un certo punto della sua storia, ovvero nel punto più felice, mescolare Barocco e Romanticismo esploso in una sola corrente anti-latina, che ogni tanto sembrava irrompere sulla scena europea eternamente ‘classica’, fino a trasformarsi un secolo più tardi nella lava espressionista. Il malinconico si disperava così nel grottesco. Benedetto Croce, nella sua Postilla alla Storia dell’età barocca in Italia giustamente ricorda questo barocco metastorico che si agitava nelle acque tedesche – non tralasciando di mettere in rilievo un certo «etnicismo» che vi galleggiava, radici e sangue germanici, nella Kultur anti-classica – e gli opponeva una definizione positiva, precisa, della storia dell’arte e dei suoi stili.

Dietro al barocco riscoperto da Benjamin c’era pure la battaglia brechtiana contro l’empatia, contro l’Einfühlung, contro la simbolica. Già lì si riapriva la porte all’allegoria. E si ricordi inoltre che nel 1888 Heinrich Wölfflin aveva rimesso al centro della storia dell’arte moderna la «questione barocca», anche per «la diretta suggestione di quell’insieme di tendenze artistiche per eccellenza moderne dell’inizio del nostro secolo, che per semplificare possiamo designare espressionistiche». La forma «aperta» che si oppone al Rinascimento, all’italico Rinascimento, un’apertura alla trascendenza vs l’autosufficienza, la terrestrità, il paganesimo del Rinascimento romano. Gotico e Barocco scelsero le forme aperte, secondo Wölfflin. Poi, in letteratura, Fritz Strich, in concomitanza con la suggestiva narrazione spengleriana: l’uomo tedesco è gotico e barocco, igitur faustiano.

In un articolo di Roberto Longhi su I pittori futuristi (in «La Voce» del 10 aprile 1913), appare tutt’altro discorso, si mette in evidenza il legame strettissimo delle stagioni della storia dell’arte, né vi sono preoccupazioni religiose, timori del paganesimo, la Catholica avendo considerato sue creature il Rinascimento come l’arte della Controriforma: «Il Barocco non fa che porre in moto le masse del Rinascimento: la liscia facciata di chiese, una tavola di pietra spessa e robusta s’incurva pressa da una forza gigante. Al cerchio succede l’ellisse. Cerchio è staticità abbandono riposo. Eclisse è cerchio compresso, energia all’opera, movimento».

Ai luttuosi barocchi germanici, ritrovati ed esposti nelle bacheche cabbalistiche di solitari pensatori ebrei con l’allure dell’antiquario, si contrappongono gli aurei barocchi latini, il Góngora che pure quando scrive i sonetti funebri «parla assai poco della morte e del morto», tutto è «sontuosità, magnificenze, splendori, sotto la luce del mezzogiorno» (Jorge Guillén).

La volontà benjaminiana di ricorrere alla allegoria come ai motivi religiosi e teologici per trascinarli – sulla scia di von Baader ma anche di Carl Schmitt (della Politische Theologie che tanto amava) – nell’arsenale politico rivoluzionario, nella fattispecie marxista (e forse anche questo fortino fu costituito per ingannare il piatto materialismo, dunque un altro trompe-l’oeil), trova il suo limite nell’impossibilità di staccare tali allegorie dal mondo della tradizione. Come insegnava padre Giovanni Pozzi da Locarno, un maestro nel campo delle comunicazioni miste di parole e immagini, ricordando una sua visita alla collezioni di imprese dell’Accademia della Crusca nel 1949-50 insieme a Gianfranco Contini: «Coltivavo allora qualche velleità di attività figurativa, orientata verso una natura morta un poco ‘metafisica’ che non manca in queste pale, il maestro redarguiva: questo è il p. Pozzi Novecento tiri fuori il p. Pozzi Seicento». Il cappuccino erudito capì l’antifona e poté scrivere sulle imprese: «All’origine di questo fenomeno così singolare stanno più motivi concomitanti: il trasferimento di formule liturgiche (anamnesi ed epiclesi) a realtà mondane; il diffondersi capillare di quella specie di idolatria che caratterizza ogni società dominata dall’idea autoritaria; l’imporsi di un modello unico di perfezione; l’acquisizione di un rituale esemplato sulla fonte più autorevole; la corte celeste e la corte degli dèi in terra. Ma sta soprattutto l’immobilità di quel materiale che si cristallizzò intorno alla simbolizzazione del cosmo come gran significante visibile di fatti invisibili: infatti, se la base dottrinale subì nei secoli molte fluttuazioni, le equivalenze metaforiche fra la ‘res’ e i significati, una volta acquisite, sopravvissero fino in fondo. Non è un caso che l’impresistica sia morta quando si sfaldò quella dottrina. Metafore visive di questo tipo sono ormai tramontate per sempre sul nostro orizzonte» (da Imprese di Crusca in Sull’orlo del visibile parlare, Adelphi).

Adorno riteneva che Benjamin trattasse un testo letterario alla maniera con la quale i commentatori medioevali si misuravano con la Bibbia. In effetti, più che le Sephirot, sembra che sia il misticismo romantico a stendere una coltre nebbiosa sul Dramma barocco tedesco. Sullo sfondo della scena c’era il Kunstwollen, un altro termine oscurissimo dei moderni, un altro modo, come l’Inconscio, forse per dire Dio.

All’opposto del nostro barocco, Benjamin scrive: «L’aldilà è svuotato di tutto ciò in cui fila il minimo alito mondano […] per sgomberare un ultimo cielo e permettergli, come vuoto, di annientare la terra con violenza catastrofica». Apocalisse tedesca, interiore, luterana: un vuoto ci seppellirebbe, minaccia sottile certo per i marchiati dall’horror vacui che però nel cattolicesimo hanno trovato un riempimento speciale, uno spettacolo mondano che esorbita dai soffitti delle chiese controriformistiche e riconcilia il Cielo e la Terra.

Una bellezza geroglifica. Il gesuita tedesco appollaiato al Collegio Romano, Athanasius Kircher, magistrale creatore di una Wunderkammer tra le più attraenti d’Europa (lasciata decomporre dai conquistatori laici della Roma dei papi, andrebbe ricordato l’episodio infame in questi mesi di celebrazione risorgimentale), Kircher dunque distingueva in quel ginepraio di macchine, automi, obelischi, cineserie, installazioni del suo laboratorio magico, più volte visitato da Gian Lorenzo Bernini: la Romània sviluppa le arti formali, la Germania gli aspetti contenutistici. Benjamin sembrava fissare i suoi occhi miopi su quest’ultima, sebbene con grande acutezza. Da quella scuola, del resto, discendeva Aby Warburg e il drappello di studiosi da lui finanziati per interpretare gli enigmi che inquietavano il miliardario ebreo.

Le Origini del dramma barocco tedesco sono un testo apologetico dell’allegoria. Questa vi appare come un residuo misterioso del passato, in assonanza con le rovine (gran voga del revival rovinista in quegli anni, si pensi soltanto a Die Ruine di Simmel), archeologia del sapere. Meno giocoso e luttuoso, piuttosto un disvelamento della verità, il Leo Strauss che indaga nei segreti della scrittura filosofica, ricostruendo il lato ombroso della storia dell’Occidente (Cfr. Scrittura e persecuzione. Nei ludici messaggi cifrati del «contemporaneo» invece la persecuzione è inventata, pare piuttosto un delirio persecutorio). Maschere e inganni che inseguiva anche Freud.

I simboli cifrati dell’allegoria tornavano a scatenare un pubblico di ermeneuti. Dimentichi di quanto anche in casa tedesca aveva detto Goethe, alle soglie del moderno, svalutando l’allegoria come non-arte o arte inferiore. Decadevano allora anche alcuni generi letterari convenzionalmente allegorici: le favole, l’apologo, l’ode politica, i bestiari, gli exempla, ecc. Ormai lontani dall’allegoresi introdotta dai Padri della Chiesa, si perdevano anche le distinzioni ricordate da Auerbach: Allegoria in verbis = opera dell’uomo; Allegoria in factis = opera di Dio.

Trauerspiel: per oggetto la storia e non il mito, l’anti-tragedia classica dunque (anche se la storia, secondo Benjamin – distingueva Cases – è piuttosto «destino» o «allegoria della precarietà d’ogni sforzo umano», e viene in mente l’accattivante canzone brechtiana, il Lied von der Unzulänglichkeit menschlichen Strebens, il suadente motivetto che, rubando le cadenze sapienti del Qohèlet, insiste sulla vanità degli umani sforzi).

Renato Solmi, da una impervia sponda politica, da punti di vista del comunismo d’antan, concludeva il suo saggio esemplare con il quale nel lontanissimo 1959 presentava Walter Benjamin al pubblico italiano, dicendo che le migliori pagine del pensatore ebreo-tedesche che aveva tradotto erano lì come documento non come esempio. Convinto che «le forze che liberano dalla decadenza» non possano venire in soccorso della stessa decadenza. Oggi nel giro infernale del sempreuguale ogni insensatezza appare liberatoria.

Del dramma barocco italiano non si fa più cenno nel nostro dibattere ‘tedeschizzato’, insistendo su quei frammenti germanici sconosciuti e dimenticati anche tra i tedeschi. Eppure a Firenze, già sul finire del Cinquecento, ci si interrogò in modo grandioso sulla interpretazione della tragedia greca, cercando di inserire l’elemento musicale, cosicché gli esperimenti di Giulio Caccini e Jacopo Peri e Ottavio Rinuccini già anticipano di secoli quanto andrà dicendo Nietzsche sulla Nascita della tragedia dallo spirito della musica mentre il dramma Dafne fu la prima incarnazione di tali ricerche. Quindi nel Seicento il matematico pesarese Guidobaldo marchese del Monte pubblica Perspectiva libri sex dedicato alla scenografia prospettica, le invenzioni pittoriche raggiungono il teatro. Lo spettacolo è sontuoso.


Sullo stupore


La sfilata dei saturnini cui ricorrevano le avanguardie del Novecento per nobilitarsi, i Pontormo e i Tasso a vario titolo endorserment di un’arte che sarebbe anticipatrice della non-arte contemporanea, non regge alla prova dei fatti. Nelle usanze moderniste che provocano lirismi a buon mercato, nella festa della faciloneria, delle boutades d’accatto, nell’incuria per la forma, nell’onirico sempre uguale, nell’inconscio balbettante – tutti caratteri del carnevale triste che si snoda nel Novecento più accidioso, nelle stagioni che seguono gli eventi cruciali e drammatici – che maggiormente caratterizzano, quasi in tinta folclorica, la dissoluzione dell'arte, ci si richiama non solo ai drammaturghi funerei della Germania ma soprattutto ai grandi e ben più celebri retori del Siglo de Oro spagnolo. Nella moderna ispanistica avanza tuttavia qualche serio critico a precisare con rigore: «l’opera di Quevedo – scrive per esempio l’indimenticabile Vittorio Bodini – è stata stranamente sopraffatta dal simbolo invadente offertoci dal suo personaggio, e dal suo ingegno troppo energico e contraddittorio» (Prefazione all’edizione italiana dei quevediani Sonetti amorosi e morali, Einaudi, 1965). E il traduttore pugliese, benché a sua volta poeta futurista e sensibile alle avventure surrealiste, a proposito di Quevedo parla a ragione di «estremismo stilistico», di «cupa grandezza di lirico», di «disperata gravità» che lo allontana nobilmente dai giochi vezzosi dei nostri contemporanei. Precisando poi con ammirabile sintesi: «il culteranismo persegue un oscuro linguaggio da iniziati mediante neologismi, cultismi, industriose inversioni di parole e soprattutto facendo di ciascuna poesia una serie ininterrotta di dense metafore che soppiantano le comparazioni. Le accuse e le burle sulla loro oscurità […] hanno poca presa sui culterani giacché un critico ad essi favorevole come Martín Vázquez Siruela definisce quella oscurità necessaria ‘per scostarsi dal volgo e meritare l’approvazione dei pochi’». Vien qui da pensare a José Ortega y Gasset che nella sua Deshumanización del arte nel primo Novecento tenta un culteranismo intorno alle avanguardie storiche, si illude che i cubisti e le loro elucubrazioni chiudano i musei alle masse incolte, nulla prevedendo delle fiere contemporanee dove tutto – espositori, esposti e visitatori – appartengono alle masse del ‘tempo libero’, ai complici e alle vittime della pubblicità, alle culture reclamistiche, a quella che un tempo ormai lontano fu definita «industria culturale» per somma irrisione e adesso sembra soltanto una descrizione sociologica, se non una lode per l’organizzazione ben salda. Secondo Bodini, al contrario, il ricercar di Góngora nei sentieri dell’insolito non lo aliena da «un caldo e palpitante mosaico sensoriale». Le idee dei culterani sono insomma rivestite di preziosa sensualità, casomai sono i concettisti che posseggono «più idee che parole» (Pfand). Ma appunto il concettista Quevedo, quando si fa poeta amoroso diviene culterano, sempre la veste estetica ricoprendo di una sorta di pudore i più complicati intellettualismi. Né si dimentichi che culterani e concettisti, ovvero i più strampalati barocchi, lavorando sulla poesia si richiamano alla scuola di Petrarca, non allo slang pop. Inoltre la lingua ermetica, concettosa, eccessiva, era pur sempre la loro divisa: la lingua è tecnè, là si pratica l’arte, così come nell’aggrovigliata gabbia della metrica (il bello è l’immagine che fuoriesce da simili incatenamenti; in queste barriere da superare costantemente si sciolgono e si condensano sogni, passioni, ribellioni. Oggi il capriccio è senza limiti).

Del resto, scriviamo e diciamo spessissimo «come è moderno», riferendoci ad artisti e letterati che amiamo: ci confortiamo così in una complicità con un personaggio splendente della tradizione che ci sorregge nelle nostre debolezze, nel deserto del Moderno. Il concetto, gli emblemi, gli arzigogoli, le imprese servono a giustificazione dei retorici oggetti estetici dei nostri giorni che poi si vogliono insignificanti. Perché attribuire al barocco la sfaccettatura del puro niente?

In uno di quei libri germogliati sui sentieri benjaminiani a proposito dell’Europa «irregolare», Il manierismo nella letteratura di Gustav R. Hocke – potrebbe accompagnarsi alle ricerche italiane sull’Antirinascimento di Eugenio Battisti, che nei Cinquanta-Sessanta faceva da sottofondo erudito alla neoavanguardia –, si può trovare in metastorico accumulo l’Ars combinatoria di Raimondo Lullo e i versi di Paul Celan, la magia antica e il gongorismo, gli enigmisti e Mallarmé, rinvenendoci anche una contrapposizione politica, per esempio tra atticismo conservatore e asianesimo moderno e rivoluzionario, mimesis classicista e perciò da dannare per sempre e phantasia oltremodo lodevole e da esercitare ad libitum, ebbene in questo bazar del Manierismo l’autore è costretto a ricordare che Plotino, un grande riferimento per i seguaci della manìa in estetica, ossia per i pazzerelloni d’ogni sorta di sperimentalismo, ammoniva: «La realtà terrena contraffatta e stravolta abbisogna d’essere completata in un’immagine bella, affinché appaia tanto bella quanto in assoluto essa è». Questo il punto su cui insistere quando i teorici del cosiddetto contemporaneo avanzano nobili pedigrees.

Alla fine ci si accorge che nella letteratura e nelle arti tradizionali, per quanto esse siano «irregolari» e precipitate nella vertigine «ingegnosa», c’è una tecnica sempre calcolata e che l’intricatissimo labirinto ha bisogno di un artista-ingegnere armato di somma tecnè.


Se il fantastico diventa la norma


«L’artista del pensiero» si dice talvolta e, certo, rispetto ai protocolli burocratici di molti filosofi attuali, insensibili alla verità e ossessionati dalle definizioni, è un’espressione attraente. Ma Curtius: «Da Platone in poi una eterna lotta divide il poeta dai pensatori. Il poeta è superiore poiché per lui i problemi non si risolvono in concetti ma in forme». (George, Hofmannsthal e Calderón). Talvolta, ai tempi di Calderón per esempio, in forme concettose ma sempre gradevoli ai sensi, purificate dalla durezza filosofica.

Visto che il ricorso all’agudeza di Grácian e del suo gruppo è il Leitmotiv degli apologeti d’ogni aberrazione (nel senso dell’ottica) contemporanea, val la pena riportare quanto diceva uno del cenacolo di quel gesuita spagnolo, Matteo Peregrini, a proposito delle acutezze viziose, cioè dei difetti che poi a maggior ragione caratterizzano la pseudo-arte dei giorni nostri: «Fredde, stiracchiate, fanciullesche, vuote, insipide inette, stolte, niquitose, sfacciate, buffonesche». Potrebbero tali aggettivi scintillare sui cancelli della Biennale e sulle porte di molte gallerie. Toglierebbero il fiato agli argomentatori in malafede.

Tutti gli apologeti di un’arte di soli segni, della meta-poesia, dell’oblio dei ‘contenuti’ si rifanno in un modo o nell’altro a Valéry, al suo insistere sull’importanza del processo creativo. Ma il poeta matematico sapeva distinguere sapientemente tra stupore estetico e sbalordimento da effetto circense [v. in proposito su «Almanacco»: «Marc Fumaroli: viaggio critico nel ‘contemporaneo’»; «Pensieri prismatici di Valéry sull’arte»]. Perciò tentava di rendere la miracolosa epifania della bellezza un mistero non una semiotica.

Prima di Valéry si ricorre a Mallarmé, al suo Libro derivato magari dall’Ars combinatoria di Athanasius Kircher, concepito per letture pubbliche in dieci recite (attingendo evidentemente all’arte totale di Runge [v. «Almanacco» «Il pittore che inventò l’opera d’arte totale»], tutta questa scrittura però – e non è un fatto trascurabile – serviva a riflettere la bellezza, anzi si faceva scrittura totale per meglio riflettere la bellezza del mondo. Un intento che la strappa dalla compagnia di chi vuole sommergere il pubblico con la bruttezza ostentata e gridata, tipica dell’espressionismo e di certi naturalismi.

Ancora sullo stupore. Scriveva Roger Caillois (Nel cuore del fantastico, SE, 1964): «Stupire a buon mercato e simulare il mistero»: potrebbe essere una sintesi di molto Novecento. L’«ibridazione sistematica» di Bosch, ecco un esempio del «fantastico per partito preso». C’è, a maggior ragione si potrebbe dire, il prosaico per partito preso, i temi e gli scontati svolgimenti. Caillois invece si divertiva in quel suo studio sul fantastico a spiegare il misterioso enfatizzato e a gettare un sospetto su pitture apparentemente ‘normali’. In tal modo per esempio spiega l’origine del superlodato Arcimboldo nei miniaturisti che lavorano alle iniziali, sostanziandole di fiori e frutti. Lo stratagemma – sostiene Caillois – è misterioso solo per i pigri. Se il fantastico diviene la norma ecco Bosch; se la desolante ‘provocazione’ diviene la norma ecco il nostro contemporaneo. Altro che lo scandalo inammissibile per la ragione. Tutto è previsto, già visto, come i dibattiti televisivi.

Per pietà, allora, non si ricorra alle fantasiosissime metafore di Góngora per profetizzare il surrealismo, né ci si riduca alle banalizzazioni della storia di chi vuole iscrivere alla setta di Breton il medioevale Bosch: la fede di Góngora e di Bosch li porta a configurare il mondo con l’incanto totalitario, nel puro regno della poesia, nel mondo dei re e delle regine direbbe Novalis. Saturnino appare invece il partito dei surrealisti (Jean Clair l’ha illustrato nel Processo al surrealismo, dove invero ha messo in luce anche i risvolti fascisti, e già Sedlmayr spiegò il fondo malefico di chi predicava l’omicidio come opera d’arte). E poi i Monsù Desiderio sono una spezia nella storia dell’arte, una bottega che fabbrica souvenir sinistri, un cliché pittoresco per invogliare anziane turiste del Nord Europa, una sottospecie piranesiana prima di Piranesi, non un modello per la pittura.

«Il meraviglioso da paccottiglia»: può essere un cartiglio che domina l’imagery dell’arte cosiddetta fantastica, da Barnum al surrealismo, ma sarebbe già un titolo onorifico vederlo appeso sulle opere del nostro «contemporaneo» dove soltanto il denaro senza altra dicitura ne è la chiave interpretativa universale.

Talvolta certi installatori si vorrebbero anagogici dimenticando però l’essenziale: che si può spiccare il volo dal sensibile al celeste soltanto quando la scrittura, la rappresentazione da cui partire, è vera e sacra. Dante in persona ce lo attesta nel Convivio: «Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria sì, come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l’uscita del popolo d’Israel d'Egitto, Giudea è fatta santa e libera…». Neppure verosimili sono le installazioni, noi non saremo esegeti di falsi evangeli.

Pittura discorsiva, letteraria, che richiede l’ausilio della parola, di didascalie, anche invisibili: ecco l’inflazione verbale che contrassegna certo manierismo e le avanguardie moderne. Comunque che la parola dipinta e la pittura parlante siano minora è la storia delle arti a dircelo. Il Polifilo di Francesco Colonna, con le sue vignette e rebus, nobilita il genere e i suoi culti appassionati, non lo si mette in discussione neppure per amore di polemica, però non si riduca la storia dell’arte, anche di quel periodo tra il Rinascimento e il Barocco in cui tal genere raggiunse vette eccelse, e tanto meno lo si utilizzi per promuovere le vane immagini senza neppure Witz nello scomposto «contemporaneo» d’oggi.

Metaforicità coatta, tassonomia di astruserie, salotti di fantasie maniacali, l’effetto noioso che provocano non è dissimile da quello che si ritrova nelle più piatte prose. Dopo un po’, questa pernice (l’originale per l’originale) disgusta anche il palato più corrivo e affama, perché di pernice virtuale, senza carne, si tratta. Non nutre la fantasia, titilla l’intelletto, ed è gioco puerile.

Il perpetuo tramutarsi per cui la serva nel Don Chisciotte si fa nobildonna mentre il mondo che le ruota attorno ugualmente si rovescia – è un’antica trovata per muovere il riso e suscitare considerazioni morali, di scuola controriformista, sullo stolto agire dell’umanità. Un’arte – e una teoria sottesa – che tutto voglia ridurre a riso, a parodia, è estremamente snervante e in breve suscita irritazione e dolore.

L’allegoria leggermente delirante di certe incisioni tedesche, anche di parte cattolica, porta a raffigurare la metafora producendo effetti paradossali: una ragazza con il vitino di vespa, espressione verbale quotidiana, diventa un monstrum quando l’incisore rappresenta proprio un corpo di insetto per la ragazza della metafora. Ma allora, si può dire che nell’allegoria basti possedere una chiave interpretativa perché l’incanto si rompa? E se le allegorie restano misteriose, allusioni confuse, dov’è il loro insegnamento che i marxisti della prima metà del Novecento inseguivano con fervore? Qui l’allegorico si confonde con il didattico.

I «metafisici» inglesi del Seicento «sentivano i pensieri come il profumo di una rosa» (T. S. Eliot); tanfo emana il concettuale del nostro tempo che non di pensieri si nutre, men che mai di olezzanti pensieri, bensì di slogan del Moderno andati a male. Ossia, il «barocco fecale» di cui parla Gottfried Benn a proposito dell’espressionismo in cui pure militò.

Si comincia nel Seicento con il tentativo di delectare non attraverso la grazia quanto con il sorprendere, sbalordire, con il raro e il misterioso. Per quella strada non si va lontano. Si gira sempre intorno. La poesia viene mescolata con l’oratoria. Quadri anamorfici. Montaigne, il nostro amato Montaigne, fu saggio anche in tali conflitti estetici e condannò quel mondo «ambiguo, variopinto, facilone» dei concettisti. Eppure chi aveva lubrificato il pensiero umano meglio di lui, chi scritto con maggiore originalità? Senza ricorrere pertanto ai macchinari verbali, alle installazioni ampollose, alla immaginazione sofistica, agli anagrammi, crittogrammi e così via. Montaigne garantiva all’Occidente, assetato già allora di esprit de géométrie un benefico e liberatorio esprit de finesse.

Le «langues imperfaites» di Mallarmé, il «disarmonico morale» di Borchardt e le vestigia allegoriche di Benjamin sembrano coincidere, reliquie per resistere al Moderno. Ma troviamo invidiabile il tono disinvolto con cui Vladimir Nabokov affronta la questione: «L’arte, in un certo senso, è sempre simbolica; ma noi dobbiamo dire ‘fermati, ladro’, al critico che deliberatamente trasforma il simbolo sottile di un artista nella vieta allegoria di un pedante – le mille e una notte nel convegno di una setta segreta» (Lezioni di letteratura).