UN ROMANZO DEL PASTORE JAMES HOGG ~
domenica 27 marzo 2011
Il peccato dei puritani
UN ROMANZO DEL PASTORE JAMES HOGG ~
lunedì 21 marzo 2011
La croce d'Europa
CHE DIVIDE ANCHE LA NOSTRA EPOCA~
Volesse il cielo che i cosiddetti laici riuscissero in una vita senza simboli, l’impresa incuriosirebbe anche noi. Eccoli invece agitare bandierine tricolori, ricorrere a stelle, aquilotti, fronde varie, alloro a profusione; per non parlare della simbolica esoterica massonica che all’esordio settecentesco tentò programmaticamente di sostituire i segni cristiani. I loro mandala sono retaggi di miti ormai inespressivi, ma l’Europa delle mozzarelle e dei diritti è ancora attaccata alle distinzioni ottocentesche e con lo spirito del farmacista Homais (di flaubertiana memoria) ha proibito i crocifissi nelle scuola italiane. Quindi la Grande Camera europea dei ricorsi, sia pure un po’ esitante, ha rivisto la proibizione e ha sentenziato la liceità di esporre pubblicamente il Cristo ammazzato. Lo storico Sergio Luzzatto, intervistato sulla questione, si lamenta: «Da non cristiano posso dire di essere impressionato dai commenti delle gerarchie religiose che festeggiano una sentenza dove si esclude che il crocifisso possa essere il simbolo dell’indottrinamento. Secondo me si tratta di una vera e propria profanazione. Colpisce la povertà di spirito di una chiesa ridotta a brandire questo argomento, quando il crocifisso è esattamente il simbolo della dottrina». È proprio vero che tutti si sentono ormai in dovere di richiamare la Chiesa alla sua vera natura, gli ‘storici laici’ come i Calasso vedici. Sui giornali che pretendono nascondere il cristianesimo nel privato è tutto un fiorire di riflessioni 'teologiche' per togliere di mezzo quel povero pezzo di legno. Sarà dottrina o forse anche storia la faccenda dell’ebreo messo in croce nell’epoca del governatore Ponzio Pilato?
Come spesso succede in questo genere di discussioni, per amore del gusto forte e del paradosso la storia dei fedeli dell’ebreo crocifisso viene accostata a quella dei criminali nazisti – sui media di mezzo mondo il papa attuale è oggetto di questi turpi confronti solo per le sue origini tedesche – e anche il professor Luzzatto agita un’arma impropria, anzi in questo caso blasfema, quella della svastica: «l’idea che un simbolo possa essere passivo è originale dal punto di vista teorico ma anche estremamente insidiosa dal punto di vista pratico. Non c’è bisogno di essere un giurista per sapere che una sentenza fa giurisprudenza e dunque questa apre il campo a qualsiasi altro simbolo. Portando all’estremo il ragionamento, in Austria qualche anno fa avrebbero potuto autorizzare l’esposizione di una svastica in classe». Sciocca similitudine, come dire: non insegnate a scuola lo sterminio degli ebrei, ché se si permette un simile «indottrinamento», per usare le sue parole, qualcun altro potrebbe impartire lezioni di mistica nazista. Heine comunque la pensava in tutt’altro modo e scriveva in una pagina ‘profetica’: togliete pure la croce, subito la Germania tirerà fuori i suoi simboli runici e la loro violenza. Allora si scatenerà il finimondo (v. «Il tuono tedesco»)
Sulla croce che divide da millenni chi è dalla parte della vittima dai suoi persecutori questo «Almanacco» è tornato più volte con interventi di vario tipo ogni qual volta un giudice ha cercato di ricacciarla nelle catacombe del privato. Dopo questa timida sentenza li ripropone qui sotto come una piccolissima antologia.
GLI INTERVENTI DELL’«ALMANACCO» SULLA CROCE:
http://almanaccoromano.blogspot.com/search/label/minima%20%2F%20Se%20l%27Occidente%20cancellasse%20la%20croce
giovedì 17 marzo 2011
L'Italia felix
Una fanfara dei bersaglieri, qualche luminaria, i balconi delle scuole e degli appartamenti dei neo-patrioti impavesati con il drappo tricolore imposto dall’invasore francese: è la festicciola in economia, vago revival delle miserie ottocentesche, che stanotte e domani ricorda la piccola storia dello Stato italiano. Appena centocinquant’anni, un’inezia.
Poche generazioni fa, l’Italia veniva ‘piemontizzata’; press’a poco a ridosso di quegli avvenimenti Fëdor Michajlovič Dostoevskij scriveva nel suo Diario di uno scrittore:
«oh sì, [Cavour] ha raggiunto quel che voleva, ha riunito l’Italia e che ne è risultato: per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea modiale alla fine si era logorata, stremata ed esaurita (era proprio così?), ma che cosa è venuto al suo posto, perché possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio il conte di Cavour? È sorto un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, cedendola al più logoro principio borghese – la trentesima ripetizione di questo principio al tempo della prima rivoluzione francese – un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine» (da Diario di uno scrittore, a cura di Ettore Lo Gatto, Sansoni, 1963, pp. 925-926).
Dostoevskij criticò l’Italia del conte di Cavour, «un regno di second’ordine» pieno di debiti, ma rese omaggio alla sua intelligenza politica. Adesso il premier sabaudo sarebbe insolentito come un volgare intrallazzatore, un mezzano che ricorre alle belle forme di una cugina, la celebre Contessa, servendosene per corrompere l’imperatore dei francesi. «Tutta Europa ci ride dietro con questa faccenda di letto», sarebbe il commento attuale. In effetti Metternich non aveva forse ironizzato pubblicamente sulla donna dello scandalo, definendola «una statua di carne»? Si era in piena commedia dell’arte. E non erano mancate le sonore risate degli alleati per quelle strane piume di gallo cedrone sui cappelli dei bersaglieri in Crimea. Non è escluso neppure che qualche magistrato pignolo incriminerebbe Cavour per prossenetismo.
Musil si divertì un mondo a costruire il romanzo di Ulrich, uomo pigro con le massime qualità, che impiega anni insieme al nobile comitato dei festeggiamenti per mettere a punto l’Azione parallela, una straordinaria celebrazione del giubileo imperiale che scocca proprio mentre giunge la data fatale della finis Austriae e la guerra mondiale sta cancellando gli Asburgo dal Novecento. Questo povero giubileo nostro è meno paradossale, lo Stato sta ancora in piedi e saldo nonostante tutto, però l’anniversario tondo atteso da lungo tempo, in particolare da chi lo voleva ritorcere contro ogni pur timido federalismo, viene a coincidere con una brutta crisi economica, forse con la fine della lunga stagione dell’entertainment estetico finanziato dai soldi pubblici, per cui mostre e party sono ridotti al minimo e per fortuna lesinati anche i tricolori. Meglio così, un vessillo asservito a quello di un altro Stato è cosa davvero buffa: i rivoluzionari francesi accostarono il rosso-blu del Comune di Parigi al bianco della monarchia borbonica, ma i nostri tre colori non avevano altro richiamo simbolico che il legame con la casa madre francese, e francamente il verde al posto del blu mortificava il risultato finale, producendo un richiamo pubblicitario per i maccheroni con pomodoro e basilico più che una bandiera nazionale. A garantirle un carattere rispettabile ci pensa il codice penale che commina multe salate a chi vilipendia il sacro cencio. Però dire che è brutto e che il paese della bellezza meritava ben altri drappi non deve suonare come una bestemmia né significa dimenticare che per quello strofinaccio morirono centinaia di migliaia di buoni italiani e buoni cristiani, stretti attorno ai loro cappellani militari, fedeli al papa e alla religione eppure ubbidienti alle autorità che li mandavano al fronte e in trincea; altri buoni italiani e buoni cristiani si fecero ammazzare in Africa e in Russia, nelle formazioni partigiane e nelle bande repubblichine, sempre innalzando il tricolore, appena cambiando lo stemma da collocare al centro. Ormai da un'eternità era tirato fuori solo per le partite, oggi tornano i suoi colori per gioco patriottico. È la festa più Kitsch di quante se ne son viste in una lunga vita. Tappiamoci in casa.
martedì 15 marzo 2011
Lo straniero ci guarda
E IL PARTITO PRESO DELLA TRISTEZZA ~
Oggi sull’autobus una coppia mesta di adulti, un uomo e una donna borghesi, si andava raccontando le disgrazie d’Italia a voce piuttosto alta e con una faccia di circostanza. L’un l’altra si rimpallavano i mali del mondo nello spioncino della politica interna, quasi gravassero tutti sulle loro spalle. Non mostravano pietà per i giapponesi ma rabbia per le nostre scelte nucleari, non dolore per il terremoto bensì calcolo strategico sulla riuscita del referendum italiano, sì e no da strappare con le immagini della paura atomica, quindi parlavano dei libici come avrebbe fatto una dama voltairiana dei selvaggi, quel che stava loro a cuore era la nostra alleanza già sepolta con il colonnello pagliaccesco. Apparivano terrorizzati dal ridicolo, «che cosa diranno di noi all’estero» era il ritornello da vecchie zie di provincia. Il male universale si riassumeva nel governo in carica, e il lutto che portavano si stampava in volto. «Facite ‘a faccia feroce!», un ordine che sembravano imporsi come compito morale. Volti atteggiati a sdegno, partito preso della tristezza, una nuova forza politica, anzi, ancora in cerca di un simbolo elettorale: il Partito della Tristezza. Nulla distraeva la conversazione senza speranza. Dai finestrini scorreva una prova generale della primavera romana, pèschi e mandorli improvvisamente fioriti, nuvole dei migliori paesaggisti, luce post-illuminista di François Marius Granet, maestro di squarci marzolini in questa città: nessun compiacimento, nessun sorriso, nessun ringraziamento al Cielo per il dono dello spettacolo circostante, soltanto un ringhio come basso continuo. Neppure i tricolori che sventolavano buffi dalle finestre di coloro che a sinistra hanno ritrovato la patria, l’aria di festa invero un po’ inventata, rallegravano il giorno appena cominciato dei due castigamatti.
Grande lo stupore quando, entrati poco dopo in un vagone della metropolitana, ci si trovava davanti a tre signore che conversavano animatamente sui medesimi temi della coppia austera. Stavolta il tono era più basso, l’aria più cameratesca e più francamente polemica, ma identica la gravità, il tragico che parla con il linguaggio sciatto di «Repubblica» e che provocherebbe pure qualche riso se non si fosse animati da una vera compassione per tanto dolore esibito sui mezzi pubblici. Donne e uomini che invecchiano senza fede alcuna, a parte una battaglia ad personam contro il politico-miliardario di cui si riempiono la testa. Convincendosi vicendevolmente che il loro paese è un pessimo posto, dove le mafie impazzano, il disordine è sommo, la politica laida. Gli ultimi decenni sono trascorsi all’insegna del male, esistenze sprecate, gioventù bruciata, maturità bruciata. In che vuoto si ritroveranno questi disgraziati savonaroliani senza Paradiso quando il capo del governo lascerà il suo trono?
Si consolavano appena le tre donne disperate con il Leitmotiv che loro sono la cultura in lotta contro la maggioranza ignorante e villana. La democrazia corretta con gli esami scolastici, il socialismo delle maestre con la penna rossa per sottolineare gli errori di gusto. Allevate sicuramente con la canzone di Dylan, With God On our Side, non hanno mai pensato che basterebbe sostituire il loro idolo Cultura alla divinità per rispecchiarsi in quel che raccontava il bardo ebreo.
Facendoci sussultare, una delle tre, la più inviperita, riprendeva ad agitare il tema delle «figuracce all’estero». Nonostante fossero le dame patronesse del sapere, ignoravano che gli stranieri hanno sempre irriso alle italiche faccende, anzitutto perché irriducibili alla misura di tutti gli altri paesi europei. Non ricordavano la sorpresa di Filippo Tommaso Marinetti a Parigi, dopo una prima gioventù trascorsa ad Alessandria d’Egitto a sentir nel liceo dei padri gesuiti vantare la patria lontana, quando si accorse che in ogni caffè di artisti e letterati si rideva di noi, dell’Italietta, dei parenti poveri (molti dei nostri erano emigrati laggiù a servire negli alberghi e nei ristoranti), mescolando invidie, ripicche, contrasti tra cugini di diverso patrimonio. Né le tre donne avrebbero voluto sapere di quei giovanotti ex combattenti della Prima guerra mondiale che, pur sedendo tra i vincitori, si vedevano messi da parte, ancora a Parigi come in tante altre capitali europee, sempre parenti poveri, e anche per questo motivo i giovani arrabbiatissimi aderivano al fascismo o addirittura fondavano i fasci all’estero, qualcuno con pseudonimo scriveva sull’«Action française», sciovinisti per troppe frustrazioni, fascisti anche per eccessiva sensibilità a quanto si diceva all'estero. Alle viaggiatrici in metro non era sicuramente mai capitato sotto gli occhi un qualche epistolario o altri scritti di lettori di italiano nelle università europee tra le due guerre, quanti sfottò, umiliazioni, amarezze, e non sempre per il governo in carica che tanto piaceva ai Churchill e Roosevelt, piuttosto per antichissimi pregiudizi, per sempiterna estraneità. Così andò anche nel dopoguerra, con i centro-destra e i centro-sinistra, ci si sentì domandare in uno sciocco sorriso: «ma da voi comanda ancora il papa?». Però adesso quel dileggio plurisecolare dei forestieri diventa giudizio di Dio, sommo tribunale della nostra politica, metro di paragone del grado di incivilimento della penisola, dell’accostamento italiano agli standard globali, all’appiattimento di questo trimillenario paese i cui ultimi centocinquant’anni potrebbero essere considerati una momentanea parentesi di decadenza.
Che succedeva allora stamattina su tram e autobus, un borbottio che precede la sommossa popolare dei neo-savonaroliani? No, il Partito dei Tristi ci cresce accanto ormai da anni, parolaio ma bonario, colpito da avversa sorte, soprattutto negli ultimi mesi, costruisce una visione del mondo sempre più dolorosa. L’opposizione diffonde depressione politica. Non promette più sogni fantasiosissimi, come in decenni ormai lontani, mostra soltanto il lato brutto della vita. Gli ex desideranti, giunti in età matura, dopo una esistenza trascorsa nel calore delle sezioni e dei raduni, degli ideali e del lavoro collettivo, soffrono come cani una volta risucchiati nel vuoto del post-moderno o comunque lo si voglia chiamare, e se la prendono con il capo del governo. Hanno trovato un bersaglio, un oggetto di conversazione ossessiva. Nel frattempo, privi di eroi politici e poetici, si devono accontentare dei comici. Ma più si riempiono di battutacce e più si incupiscono.
L’attesa di un loro Godot in negativo dura ormai da vent’anni, da allora si fissano giorno e notte sul tycoon prestato alla politica, ben diversi da Jünger che affermava di non aver mai concesso il suo tempo ai tiranni che si trovò di fronte, dedicandosi a ben più nobili imprese, non consentendo che gli rubassero i giorni assegnati dal fato per idolatrie sia pure al contrario. A maggior ragione per un nemico assoluto che somiglia a uno chansonnier d’altri tempi. Ma il fatto più patetico è che da tempo ormai immemorabile qualcuno, i furbi della «Repubblica» in primis, promette loro innumerevoli volte che la fine è prossima e subito dopo la si procrastina alla data successiva, un po’ come le profezie escatologiche dei Testimoni di Geova.
Una parte notevole di italiani si lascia abbindolare dai suoi giornali, il quotidiano-partito ha risolto anche i propri guai finanziari con un tale genere di annunci, e per decine e decine di volte crede di trovarsi al momento decisivo dell’uscita di scena di questo personaggio che ha scombussolato gli schemi della tradizione politica. Un giorno fidando nei giudici, un giorno negli alleati del Cavaliere, un giorno nella Provvidenza, talvolta addirittura nell’opera di Madama Morte, naturale o procurata da qualche volontario. E sempre quegli impostori a garantire coi titoli giganti, con le parole appropriate, con le vibrazioni moralistiche, che è una questione di ore, che il mondo, ossia di volta in volta l’«Economist» o un sito tedesco non si fidano più, pensa un po’, di un italiano, che i giudici interverranno, il capo dello Stato anche, e ormai è fatta, l’esilio o la galera attendono il vecchio corruttore. Ogni volta, la fine viene rinviata, e intanto il tempo passa, i figli crescono, loro invecchiano, invecchiano male, malinconici per stupidi motivi, depressi per un ameno personaggio, per le sue gaffes, per l’onore dell’Italia calpestato, per l’onore delle donne offeso, l’avvenire delle figlie minacciato dai modelli scollacciati della tv. Motivazioni di cui vergognarsi da morire, semmai rinsavissero per un istante. Misericordia allora per i nostri connazionali che viaggiano con noi sui bus, afflitti in una mattinata di primavera in anticipo.
lunedì 14 marzo 2011
L'Italia coi baffi
~ BRUNO BARILLI CI RIDE SU ~
Centocinquanta anni fa, molti morti, molte ruberie, regni cancellati, gloriose scuole artistiche implose, antiche eleganze uniche al mondo dimenticate. Bruno Barilli lo rievoca a modo suo, mettendolo in burla, era il 1929, in contrasto con l’enfasi attuale che rinverdisce piazze missine trapunte di tricolori e distribuisce coccarde per agitare una sinistra senz’anima.
«Con l’unità e il suffragio universale l’arte da noi fece un capitombolo per le scale, e reclamò dallo Stato un paio di stampelle. L’arlecchino italiano buttò via la sua pelle a scacchi per indossare un “tout de même” burocratico, da funzionario nazionale.
Sorgevano in quel disordine nuovo Arrigo Boito, il Ballo Excelsior, la pittura sociale e il monumento a Vittorio Emanuele. Il teatro che era tutto spensieratezza e passione e mirava al cuore della gente, invece di restar fedele al gusto popolare della vecchia Italia, divenne ufficioso, autorizzato, e girò sui tacchi rivolgendosi con sussiego alla sedicente pubblica opinione. Nacque la coreografia del nuovo regno, prese piede l’allegoria massonica, si inscenarono le apoteosi per il canale di Suez, e debuttarono anche le antenne del telegrafo Marconi (costumi di Caramba).
Anche la danza che da più d’un secolo s’abbandonava ai deliziosi capricci di ragionar coi piedi, fu costretta, per seguire il movimento generale, a pensar con la testa, come la foca sapiente. Difatti c’era poco da scherzare da quando il Paese, seduto nella prima fila di poltrone, strappando la maschera, mostrò alla prima ballerina assoluta, due baffi da doganiere» (da Il paese del melodramma e altri scritti musicali, Vallecchi, 1963, pp. 147-148)
C’era davvero poco da scherzare con un’Italia in mano a severi e tristissimi mazziniani. E l’arte assai ammaccata.
sabato 12 marzo 2011
Come conservare la scuola
CHE NON INSEGNAVA IN UN LICEO DI STATO ~
L’italico corpo insegnante, un corpaccione che, salvo le solite nobili eccezioni, diffonde presuntuosi luoghi comuni e fa la morale leggendo in classe i giornali – da quanti anni non risuona nelle lezioni la parola «virtù»? –, talvolta protesta rumorosamente e grossolanamente, come si addice a disoccupati affamati, contro le tante riforme che si tentano, terrorizzato da chiunque metta in discussione il suo sapere piccolo borghese, i lumi gomorristi, i comici dantisti, mai interrogandosi sulle contraddizioni di una scuola aperta a tutti, che richiede docenti in ogni dove e una umanità desiderosa di imparare e con il talento di riuscirvi. A questi insegnanti che oggi pomeriggio marciano, firmano e si indignano nelle pubbliche piazze, dedichiamo una frase di Leo Strauss, uno spunto per pensare durante la loro laica processione che avanza con tracotanti cartigli.
Con molta flessibilità e buon senso, il filosofo ebreo-tedesco scriveva: «Il desiderio umano di rendere l’educazione accessibile a tutti porta a una trascuratezza sempre maggiore della qualità dell’educazione. Ciò non fa gran danno, o almeno non vi sono nuovi motivi di allarme, se avviene in discipline di origine recente; ma la situazione è del tutto diversa se ne è influenzata la stessa disciplina responsabile dell’eredità classica. I veri liberali oggi non hanno dovere più pressante che contrastare il liberalismo pervertito, che pretende "che vivere sicuri, felici e protetti, ma per il resto senza regole" sia la mèta semplice ma suprema dell'uomo, e che dimentica qualità, eccellenza o virtù». Era il dopoguerra, Strauss insegnava in una università statunitense, privata, sotto il controllo di tycoons e banchieri, non in un puro liceo classico italiano, gratuito e democratico, ma gli era chiaro ugualmente il fatto incontrovertibile che la civiltà è posta in pericolo dai «futuristi superficiali» e ignoranti dell’eredità di cui sono venuti in possesso, non dai conservatori, anche i più gretti che, proprio per il loro senso del risparmio nei confronti della tradizione, «non la metteranno mai in pericolo». Insomma, gli italianisti che dimenticano Vincenzo Monti per un cantautore sanremese, i fisici che omettono Galilei e lo splendore della sua forma attardandosi ad affrontare «i problemi del nucleare», i grecisti che trascurano la grammatica, affrettano tutti la fine dell’Occidente. I docenti di informatica, comunque la insegnino, non fanno male a nessuno. Almeno i licei (non solo quello classico) siano dunque sottratti alle riforme e vengano posti sotto tutela, con maggiore cura degli inerti beni culturali.
(La citazione è tratta dal saggio «Liberalismo e filosofia classica» raccolto in Liberalism Ancient and Modern, tradotto in italiano da Giuffrè.)
venerdì 4 marzo 2011
Piccole iene
NELL’EPOCA DELLA SUA INVADENZA ~
«– Domani all’alba ho un impegno al Quirinale – .
Di che natura? – Non sai? Ho un amico
Che piglia per marito un amico.
Cerimonia per pochi intimi – .
Viviamo ancora un poco: vedremo
Fare in pubblico queste cose.
E messe agli atti anche».
Il poeta nelle previsioni sdegnate si ingannò: trascorsero almeno mille e novecento anni circa da questa scenetta schizzata da Giovenale nella II Satira (qui nella traduzione di Ceronetti, per l’Einaudi, che risale al 1971) e non si misero agli atti matrimoni simbolici di tal fatta. Forse l’avvento del cristianesimo, di lì a poco, rovesciò la climax delle stravaganze promosse da un desiderio senza più freni. O si prese a guardare al corpo e all’eros in modo meno futile, lasciando da parte il tono parodistico della pratica cui la satira allude e trovando nel freno una nuova beatitudine. In ogni caso il traduttore avverte: «il classico è farmaco: inchioda alla vanità i giudizi sul presente». La assonanza con le nostre discussioni le svuota infatti del loro carico ‘innovativo’, della sensazione inebriante d’essere all’estremo della storia, e le riconduce alla instancabile ripetibilità dell’agire umano, copie più o meno riuscite, un d’après spesso dimentico dell’originale, un po’ vano appunto. Ma anche i moralisti classici possono ingannare, dal momento che il gioco della satira consiste nel contrapporre la corruzione moderna all’aureo mondo d’antan, alla laudatio temporis acti. I moralisti d’ogni secolo si sono aggrappati a questi versi latini per giustificare le proprie argomentazioni atrabiliari, il rimpianto rabbioso, avessero però la forma stilistica di Giovenale: a lui riuscì di trasformare il fiele in miele, secondo la formula del suo traduttore moderno.
Impazza nei nostri tempi una diversa satira. Né fiele né miele, sciropposa bevanda invece che riporta sull’etichetta una massima falso-antica benché in latino, risalente al letterato francese seicentesco Jean de Santeul e risuonante la bonarietà da oratorio: «castigat ridendo mores». Può la letteratura castigare qualcuno (a parte la fama dei letterati mediocri che si autopuniscono)? C’è un potente che temette davvero i poeti? Non sono più pericolosi gli azzeccagarbugli dell’opinione pubblica che manipolano l’uditorio con le peggiori banalità senza metrica? Il fatto è che nessuno dei contemporanei vuole conquistare la palma poetica quando scarica gli insulti con la scusa della satira. La volontà di dire tutto, di sfidare le buone maniere, si è tradotta in un diritto acquisito, avallato addirittura dalle Corti di cassazione, come la mutua e la pensione, che invoca al solito i «valori costituzionali», la cultura e la libertà, per proteggere ogni sberleffo come fosse un’opera d’arte.
La ideale «complicità con le altre persone che ridono», di cui parlava Bergson nel suo celebre «saggio sul significato del comico», sembra evocare ormai l’identità politica o quel che resta di essa: complici nella risata. E i complici formano un branco, come si usa dir oggi, un branco ridente: mai – sosteneva ancora Bergson – ci può essere identificazione con la vittima del riso. In tempi di buone intenzioni, di aggressività celate, non resta dunque che il riso per assediare e isolare lo speciale capro espiatorio. Piccole iene. Le parole talvolta sono pietre ma naturalmente la lapidazione dei frizzi e dei lazzi fa meno male delle pietre vere, è una lapidazione simbolica. La risata risulta comunque dura, tiene lontano una compassione anche fugace. In questi casi, il ‘castigo’ ghignante è forse indolore? Niente a che vedere con il sorriso generoso del saggio.
Presentando il suo Giovenale, Ceronetti metteva in guardia da simili degenerazioni: «Un moralista sapiente sa fermarsi in tempo, perché oltre la linea invisibile della saggezza c’è la cupidigia della distruzione del peccatore». Probabilmente un satirico giudizioso come il poeta latino sa bene che la sua opera letteraria non può redimere Roma, né raddrizzare caratteri e popoli, tutt’al più consolare i malinconici compagni elettivi dello scrittore altrettanto infelice. Il grande satirico è misericordioso, le sue amare visioni non vanno confuse con la «satire des petites gens» (Boissier) che solletica gli animi per produrre sorrisetti stenti. Il traduttore di Giovenale svelava nelle ultime righe della sua introduzione di quarant’anni fa il segreto del poeta e dei migliori moralisti: il combattimento con il male è mosso da un irresistibile fascino che esso esercita su di loro, al punto da dedicare la vita e la scrittura alle bruttezze che ci offendono. Del resto anche un Daumier si costringeva a non raffigurare mai il bello, a inseguire il ridicolo, a viaggiare perennemente nei «vagoni di terza classe».
martedì 1 marzo 2011
Gente di mondo
~ HOFMANNSTHAL E SAVINIO CELEBRANO UN’ALTRA ITALIA ~
Non lasciamoci suppliziare dagli scritti sciovinistici in questi mesi del giubileo risorgimentale, l’Italia merita di meglio. Non rimpiangiamo la Riforma protestante mancata, che ci avrebbe omologato agli altri paesi, come ripetono i maniaci del mea culpa. Un aristocratico viennese di lontane origini ebraiche, che vantava una «goccia di sangue lombardo», Hugo von Hofmannsthal, massimo scrittore di lingua tedesca nel Novecento, può farci capire un’altra Italia, quella dimenticata dai critici contemporanei, tutti presi dall’entusiasmo per la dimensione unica, globale, vergognosi delle caratteristiche più eccentriche del Belpaese, cattolico, universalista, teatrale, spregiudicato e malizioso. Si rinnegò a lungo il barocco perché intriso di Controriforma (la recente riscoperta venne d’oltreconfine), ma temendo qualsiasi assonanza con l’arte del fascismo, le si regalarono sciaguratamente anche i classicismi d’ogni epoca, evitandoli come la peste; si lasciò in ombra il fatto che i geni del Rinascimento coincidevano con i papisti odiati da Lutero e che i manieristi tornati di moda erano cresciuti nella coltura post-tridentina, ragion per cui il ‘laico’ Roberto Longhi se la cavò con la grande trovata del Caravaggio ribelle che diventa personaggio-chiave della storia dell’arte italiana, uscendo in questo modo dal «buco nero del Manierismo e del Barocco, riflesso della medesima damnatio desanctisiana e poi crociana, della Riforma cattolica» (Gian Lorenzo Mellini).
Hofmannsthal che, esattamente cento anni fa, in coppia con Richard Strauss, deliziava il pubblico del teatro dell’opera di Dresda con Der Rosenkavalier (ecco un compleanno secolare che andrebbe celebrato con dovuta riconoscenza), festa allegrissima di intrighi galanti, era l’autore ideale per rovesciare l’idea dell’Italia tramandata dai Piagnoni. E in un brevissimo testo del 1927 dedicato ai Promessi Sposi e al suo autore, provò a riassumere la nostra cultura in poche righe, facendo aggio appunto su quel romanzo manzoniano che «rappresenta l’Italia dinanzi al mondo, quella vera Italia che si perpetua costantemente sotto qualsiasi stato espressivo, in virtù della saldezza straordinariamente elastica di una antichissima razza felicemente mista» («I Promessi Sposi» di Alessandro Manzoni in Saggi italiani, a cura di Lea Ritter Santini, Oscar Mondadori). A scuola si è ormai tanto banali da ripetere che la protagonista sembra una santarellina, che il tono risulta moralista, niente a che vedere insomma con i romanzi moderni dei francesi e degli anglosassoni, Hofmannsthal, eccelso romanziere oltre che eccelso poeta, era di diverso parere.
«Il nobile e difficile concetto di italianità», dice il viennese, può essere ricostruito partendo da un romanzo che è considerato ‘romantico’ ma che non ha nulla del trasognato di cui facevano sfoggio i contemporanei d’oltralpe, «non sconfina mai nel sogno e nel capriccio», non si tormenta nella passione solitaria dell’individuo, la narrazione italiana essendo infatti corale, familistica, con madri, zii, cugini di primo e secondo grado, vicini di casa, parroci, frati, servitori, intrallazzatori, legulei: un presepio. In tale affollata quotidianità c’è «una conoscenza del mondo in cui nessuna nazione è pari a quella italiana». Nella patria del realismo, anche nel periodo della Romantik, «ogni figura agisce in ogni istante guidata dal proprio interesse in gioco – nulla di segno più opposto al sentimentale, al romantico, in ogni impulso c’è una coscienza dei limiti (intesi non come barriere sociali, ma stabiliti da Dio), addirittura una gioia nei limiti (e nel riconoscerlo sta il fascino della lettura) – nel contempo, però, in ogni istante si dà la possibilità di travalicare tutti i confini e di precipitare impetuosamente verso l’infinito, addirittura verso Dio». È un romanzo «laico» come Tom Jones, «giansenista» come ci insegnarono al liceo con il gusto della pedanteria, «ma nello stesso tempo – sostiene Hofmannsthal ricorrendo a parole assai impegnative – è impregnato di religiosità, di umana cristianità cattolica post-tridentina come nessun altro libro della letteratura mondiale». Un cristianesimo appunto cattolico, molto umano, saggio, tollerante che si fa largo tra le allucinazioni romantiche, tra le sperimentazioni più impudenti che già finivano nel silenzio e nel nichilismo. Di contro, «una umanità di stampo antico, vecchia e giovane insieme, impregnata fino al midollo dello spirito della cristianità cattolica; in questa sintesi verosimilmente imperfetta ci illumina il bagliore di una rivelazione, forse la più alta dell’italianità. Con questa persuasione nel cuore si potrebbe parlare di questo libro come d’un libro quasi indistruttibile, finché almeno reggano le fibre stesse di quest’antico popolo». La attuale disattenzione verso l’opera manzoniana dovrebbe dunque preoccuparci non poco: forse siamo tanto vecchi da essere còlti da una specie di Alzheimer collettivo. E ripieghiamo nella lettura delle lezioncine impartite dai giornalisti stranieri in prose senza garbo e senza stile.
Hofmannsthal insiste sull’antiromanticismo del romanzo e degli italiani, è bene ricordarsene mentre importiamo mode d’ogni dove, strappando le nostre radici. «Nulla è così lontano dal romantico quanto lo stile di questo libro annoverato tra i capolavori dell’epoca romantica. Persino la famosa ‘sobrietà’ antiromantica di Stendhal appare quasi affettata rispetto all’immediata, naturale sobrietà di questa narrazione». Domina qui la «naturalezza», e «mai un narratore è stato così meravigliosamente vicino e lontano, nella stessa misura, a tutti i personaggi», ideale allora per raccontare la vita, dove «ogni singola creatura ha un contorno assai morbido, mai netto». Romanzo di «un popolo la cui grandezza si fonda in un terribile realismo e la nobiltà nella passione», riesce sempre a evitare «il pregiudizio ostinato e il disprezzo».
A Milano Hofmannsthal dedicò un suo capolavoro, Reitergeschichte (Storia di Cavalleggeri), ovvero delle straordinarie immagini del Risorgimento italiano visto da Vienna, un racconto che dovrebbe essere obbligatorio leggere quale antidoto alle tetre riflessioni mazziniane che ci impongono da ogni parte per l’anniversario di Stato. Si tratta di «una cavalcata della morte» sullo sfondo di una Italia bellissima. L’autore, che era fiero delle sue ascendenze lombarde, ritrova in queste pagine il suo Sud, la parte meridionale, passionale, istintiva che rompe il perfetto ordine teutonico, la maestà delle bianche divise dei biondi soldati a cavallo. È la Milano della Prima guerra di indipendenza riflessa negli occhi dei cavalleggeri austriaci: non sono le virtù guerriere dei patrioti che suscitano ammirazione e rispetto bensì la città ambrosiana che risuona delle campane, i suoi giovani abitanti che si muovono come dèi nell’Olimpo, l’impareggiabile arte delle chiese che seduce anche i cuori dei soldati, la natura che si mostra in forme equilibrate e nitidissime.
A Milano, in questi giorni, Alberto Savinio torna ad allietare la città di cui auscultò il cuore con una esposizione della sua multiforme opera. Grazie a lui la metropoli lombarda, che suscita in genere scontati giudizi estetici, ebbe un libro amorosissimo di lodi. E in quel libro Savinio si diverte, come in una eco misteriosa delle parole manzoniane di Hofmannsthal, a centrare i sognatori nelle nebbie romantiche, gli adepti della melancholia da strapazzo, i sempiterni vestiti di nero per vezzo esistenzialista come certi patetici intellettuali germanici: «…gli Anglosassoni mancano spesso di realismo poetico, ignorano i valori poetici presenti, e li trasferiscono perciò in un mondo lontano, oscuro e incontrollabile come la Morte. […] Che altro rivela questa fiducia nel poetico futuro della morte, se non una mancanza di poetico presente. […] Chi è vacuo di valore, crede nella morte come valore supremo, e dalla Morte aspetta ciò che la vita non gli ha dato. Per supremo sentimento di volgarità, si desidera essere ‘diversi’ da come si è. Quindi nasce l’estetismo: questo mettersi in bella, questo parlare festivo, questo correggere e abbellire la propria realtà. E quale più radicale mutamento della Morte? […] Non per nulla la Morte è maestra di estetismo […] André Suarès nota che la letteratura italiana non ha mai preso sul serio il dolore e la morte. Nostra superiorità mentale sugli Anglosassoni, nostro classicismo». (Ascolto il tuo cuore, città).
venerdì 25 febbraio 2011
L'eresia puritana
IN UN DIZIONARIO DI MORALE CATTOLICA ~
Parlano ossessivamente di corruzione i puritani d’ogni epoca, intendendo con questa parola i guasti del procedere spregiudicato, i vizi di debolezza davanti al denaro, al bello, allo sfarzo, mai riferendosi alla corruzione temporale, ai corpi che in pochi anni si deformano, allo spirito che si affievolisce, alle vite che si spengono. Nel bene e nel male, accettando anche questa corruzione come un aspetto umano, una caratteristica di Adamo ed Eva e della loro discendenza appena fuori dal giardino paradisiaco, il cattolicesimo prova a riscattare deformazioni e appesantimenti, arriva a santificare la carne, a crederla oltre la morte, nonostante la morte e i suoi terribili sigilli. Ecco allora la vera, santa, battaglia contro la corruzione, l’unica vera corruzione che ci manomette per anni e poi ci uccide. E l’unica che colpisce tutti, senza gruppi di privilegiati che se ne possano tirare fuori: i cristiani conoscono soltanto la speranza di salvarsi, non l’orgoglio di essere migliori.
Lo sviare dalle finalità della vita cristiana, lo scambiare pagliuzze con travi già nella dottrina, può far classificare il puritanesimo tra le eresie, forse quella più avversa alla religione romana. Spiega un teologo contemporaneo, un domenicano francese, in un Dizionario di morale cattolica: «Non bisogna esitare a denunciare il puritanesimo come una deformazione, una vera e propria eresia della morale cristiana. Come per ogni eresia, le intenzioni all’inizio sono eccellenti. Nel corso dei secoli XVI e XVII un movimento inglese, pio e fervente, si propose di far rivivere la purezza della Bibbia. Non essendo però fondato su di un autentico umanesimo, questo dare ascolto alla “sola Scriptura” ha portato molti eccessi. Si comincia col criticare duramente il lusso e diverse forme di frivolezze, poi si diffida dei divertimenti (il teatro, in particolare), infine si accusano l’arte, il piacere il corpo. La convinzione di essere predestinati e di far parte di una sorta di élite cristiana rinforza il rigorismo morale: in mezzo a un mondo che corre verso la perdizione, i puritani si sentono protetti dalla loro stessa integrità. […] La parola “puritanesimo”, che inizialmente indicava una frangia estrema del calvinismo inglese e presbiteriana, è divenuta di uso comune. Vi si avverte come una nostalgia di purezza. Il puritano infatti sogna una purezza radicale, assoluta, ideale: egli esagera le conseguenze del peccato originale, dubita della bontà originaria della natura umana e diffida delle sue aspirazioni, dei suoi bisogni, dei suoi piaceri. Pensa che l’arte sia una cosa vana, spesso corruttrice; rifiuta la morale del giusto mezzo, inasprisce il rigore della legge e finisce per rendere oltremodo duro, per non dire insopportabile il giogo offerto da Cristo. Scrive Gide [che era di cultura protestante, ndr]: “Un certo puritanesimo che mi hanno insegnato come fosse la morale di Cristo” ha allontanato intere generazioni di cristiani dalla pratica sacramentale, o li ha radicati nell’ipocrisia per tutto il secolo scorso e per parte del nostro. Si può dunque definire il puritanesimo come la forma morale dell’integralismo e fondamentalismo dottrinale. […]» (Jean-Louis Bruguès, Dizionario di morale cattolica, Edizioni Studio Domenicano, 1994, pp. 306-307)
Dice il buon teologo che questi eretici «accusano l’arte, il piacere, il corpo», tutti strumenti di corruzione ai loro occhi. L’arte della cosiddetta Controriforma, infatti, si faceva seduttiva: dal momento che l’Europa pullulava di divisioni, di errori, di travisamenti della verità, quando dunque la Cristianità aveva smesso di essere un’ecclesia a dimensione continentale, dalla Islanda a Pantelleria, e la dottrina romana si scontrava con nuove visioni del mondo, il messaggio evangelico non poteva non presentarsi che come una seduzione. Il pittore Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio, il pittore gesuita Andrea Dal Pozzo rapivano i sensi dello spettatore e lo trascinavano in alto, nei piaceri celesti, alla corte voluttuosa dei santi, nei trionfi sublimi della eternità. Soffitti adescatori, avrebbero esclamato con spregio i moralisti nemici dei cinque sensi.
mercoledì 23 febbraio 2011
Schiavi e sibariti
~ RUSKIN vs L’ARCHITETTURA CATTOLICA ~
Parlando dell’architettura del Rinascimento, John Ruskin scriveva nella sua opera più celebre, The Stones of Venice: «è la natura morale di essa che è corrotta». Un giudizio netto: pure gli edifici del Palladio, le goethiane «case con alte colonne», sono sotto il segno della corruzione per questo sensibilissimo vittoriano che amava l’Italia – sul mito del Belpaese tra i vittoriani si è appena inaugurata una mostra alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma – ma che aveva ereditato dalla madre una rigida cultura puritana. Il peccato originale che scopriva nella penisola era come al solito il cattolicesimo, o meglio, secondo la vulgata di romantici e post-romantici, il cristianesimo paganeggiante. «Pagana di origine, presuntuosa e irriverente nella sua prima riesumazione delle forme antiche, paralizzata nel suo invecchiare, è un’architettura inventata, a quanto sembra, per fare dei plagiarii dei suoi architetti, degli schiavi dei suoi artigiani, e dei sibariti dei suoi abitatori; un’architettura in cui […] si fa concessione ad ogni lusso, e in ogni insolenza si fortifica. La prima cosa che si debba fare è bandirla e scuoterne per sempre la polvere dai nostri piedi». Una vera e propria crociata, una «guerra degli stili», come fu detta. Fare precipitare le costruzioni di Palladio e dei palladiani perché neo-pagani usi a mettere in bella forma il lusso e l’insolenza dei loro committenti sibariti: piuttosto che un equivoco, l’incomprensione di una cultura singolarissima, sembra un delirio. Quell’arte che adesso ci appare come la più sovraumana, all’alba del Novecento aveva ancora bisogno di un avvocato difensore nel processo secolare intentatole dal partito dei moralisti.
E lo trovò, in terra britannica, nella persona di Geoffrey Scott, giovane allievo inglese di Berenson, che nel 1914 pubblicò una perorazione a favore di Palladio in un librino intitolato Architecture of Humanism nel quale commentava così le parole di Ruskin: «L’odium theologicum è venuto a stimolare le controversie tecniche dell’arte. […] I poeti e i professori della costruzione hanno dichiarata questa architettura sterile per l’immaginazione, assurda per l’intelletto: ora la si scopre ripugnante alla coscienza e pericolosa per l’anima» (esiste una traduzione dell’Architettura dell’umanesimo a opera di Elena Croce, edita da Dedalo di Bari, da cui prendiamo questa e le altre citazioni).
Nell’avversione per chiese e palazzi rinascimentali non si tratta quindi soltanto di una faccenda di gusto, nella fattispecie del gusto romantico, «v’è anche la tendenza a giudicarla dal punto di vista etico». Nell’isola britannica prende corpo un possente movimento d’opinione che in nome della morale puritana attacca l’architettura e l’arte del Rinascimento italiano, il suo significato cattolico. «Il vecchio puritanesimo del secolo XVII – scrive Scott –, fatto un calcolo complessivo dell’influenza dell’arte sulla vita, l’aveva condannata ed esclusa dalla sua repubblica con altrettanta fermezza e meno cortesia di quella usata da Platone contro i poeti. Il puritanesimo del secolo XIX tentò invece, frenando l’arte e innalzandone la dignità, di governare le sue manifestazioni, di guidare i passi errabondi dell’impulso creativo, e anche di interpretare la sua storia». Ne venne fuori un culto della cristianità precedente la Riforma e il rifiuto più netto dell’arte e della civiltà contro cui era insorto Lutero: la Roma dell’umanista Leone X, le mirabilia del Rinascimento, la provvidenziale compresenza di tanti geni in una stagione. Raffaello, idealizzato e trasfigurato da Winckelmann e poi dai romantici, diventa lo spartiacque. Dopo di lui il déluge, ovvero la Controriforma. Scott è stupito dal fatto che, agli occhi dei neo-puritani, «l’architettura romana rappresenti la Chiesa di Roma», ma è davvero tanto ingenua una tale sovrapposizione?
«Empi», «perversi», «insinceri»: si tratta degli artisti manieristi come dei loro committenti, ecclesiastici e principi romani. Per l’«arte gesuitica» poi lo sdegno è speciale. Inoltre, un motivo di ‘classe’ intensifica l’odio: l’architettura del Rinascimento ha radici nell’aristocrazia, naturale quindi che dopo l’Ottantanove anche l’arte debba subire un processo di democratizzazione. Come poteva, dice Scott, sopportarsi un’architettura che «aveva esaltato principi e servito papi, sosteneva la subordinazione del particolare al disegno, dell’artigiano all’architetto, della coscienza all’autorità, del capriccio alla civiltà, della volontà individuale al controllo organizzato, tutte cose che riuscivano odiose alla filosofia della rivoluzione», ed ecco che i borghesi protestanti reagiscono con il fiele etico, con gli eterni sospetti nei confronti della bellezza, con la paura del denaro ostentato senza troppe ipocrisie. L’esperimento neo-gotico, il collettivo che anticipa la forma settaria delle avanguardie, si presta meglio alle utopie del capitalismo. Generalizzando la presunta comprensione dell’arte medioevale da parte del contadino – secondo una facile raffigurazione in voga nel tempo – si voleva adesso che tutta l’arte fosse alla portata dei contadini e degli operai dei nuovi complessi industriali, si pretendeva di offrire al popolo «i privilegi della cultura senza richiedere la pazienza che la cultura richiede».
Come avrebbero reagito i diretti interessati, i Michelangelo e i Palladio, buoni cristiani, di fronte agli attacchi etici dei puritani moderni? Sicuri della dottrina cattolica, non avrebbero dato peso a tali accuse, ritenendole probabilmente nient’altro che ossessioni ereticali. E magari se fosse loro capitata l’occasione di osservare le opere di questa congrega neo-gotica, per esempio certi quadri di Ruskin esposti nella mostra di questi giorni alla Gnam, avrebbero sorriso della sua capacità di trasformare le splendenti creature di Botticelli in figure afflitte. La pia confraternita, sapiente nell’arte degli ornamenti, non riusciva a rendere credibili i personaggi che dipingeva: c’era, al contrario dei volti eloquenti ritratti dai cinquecenteschi, un qualcosa di disumano, di meccanico, di immobile; truccati per avere un’espressione, risultavano sempre incerti nel sesso, talvolta grevi.
I mazziniani faranno da sponda alle accuse di corruzione lanciate da Ruskin e dai suoi sodali verso la civiltà italiana. Disposti anche essi a rinunciare alla grande architettura, alla grande arte, scaturite dalla civiltà papista, che cosa restava di notevole nella penisola? Forse quel poco che la rendeva simile agli altri paesi europei già modernizzati, per i quali gli apostoli del Risorgimento si struggevano. Un bell’affare: come aveva notato Dostoevski nel suo Diario di uno scrittore, erano riusciti a svendere un giardino paradisiaco, patria di tutti gli europei, per un piccolo Stato, calco di quello francese.
lunedì 21 febbraio 2011
La penisola dei festini
DEI MORALISTI PROTESTANTI ~
La delectatio morosa accompagna i giornali e tutti gli altri media di Europa mentre sguazzano sulle vicende pruriginose che i magistrati italiani mettono in mostra e in piazza. E la stampa nostrana, in particolare quella che agita con particolare foga le bandierine tricolori, approfitta della curiosità che l’Italia sempre suscita all’estero quando si parla di peccato, per enfatizzare questo interesse e invocare, onde «non farci ridere dietro», la fine della nostra ‘eccezione’. È in corso infatti una furiosa battaglia per cancellare definitivamente l’antico aspetto del Belpaese, per appiattirlo alla neutralità dell’Europa delle banche, per estirpare l’italica memoria con la vergogna. Nel paese cattolico per eccellenza, nella patria quindi dei confessionali, si vuol ridurre tutto a sanzione legale, dimenticando la sapiente arte della comprensione e del perdono, il sorriso umanista dei migliori direttori di coscienza di fronte alle anime agitate dagli scrupoli. «Non siamo angeli, abbiamo un corpo»: così Teresa d’Avila ammoniva le sue consorelle; i puritani si illudono invece che si possa sorvolare sull’aspetto fisico, sulla pesantezza dell’essere, senza neppure l’ausilio dei sacramenti.
Questo «Almanacco» persevera perciò nel ricordare come la questione risalga a molti secoli addietro, alla battaglia culturale dei protestanti contro i «corrotti papisti». Le guerre di religione son finite da un pezzo ma i pregiudizi dietro ai quali i Lanzichenecchi saccheggiavano Roma sopravvivono. In un libro di Federico Zeri intitolato significativamente La percezione visiva dell’Italia e degli italiani (Einaudi, 1989) – dove peraltro partendo dall’Ytalia affrescata da Cimabue, si capisce e si vede nelle numerosissime immagini che accompagnano il testo come una nazione e un popolo esistessero ben prima dei miseri centocinquant’anni celebrati in pompa magna – leggiamo della maniera con cui i sospettosi moralisti rappresentavano la penisola:
«Questi del Cinquecento avanzato sono del resto i tempi in cui l’immagine degli italiani sortisce in pittura, e specie oltralpe, quei tratti di licenziosità, condotta ambigua, tradimento, secondo cui essi sono stati a lungo e sono ancora noti un po’ ovunque. Il periodo del dramma elisabettiano, dei suoi loschi, sanguinosi imbrogli, così spesso localizzati a Venezia o Verona, a Roma o a Napoli, coincide con la diffusione in Europa della commedia dell’arte: anche questa contribuisce a rifinire la tipologia eterodossa dell’Italia e dei suoi abitanti. E ancora, viaggiatori e pittori venuti dal Nord, affascinati da certi aspetti, singolari ai loro occhi, della vita italiana, cominciano a estrarre dalla trama complessa del reale certi dati, sui quali prende a cristallizzarsi un cliché irreale e persino assurdo, ma non per ciò privo di una lunghissima vitalità. Fu specialmente Venezia a venir sottoposta a questo processo di mitizzazione, quale scenario di perenne godimento sensuale, di balli e di festini, di evasioni dalla norma di condotta; e in ciò, l’Europa del Nord trovava una conferma all’immagine a tinte forti che dell’Italia, rimasta cattolica e poi controriformata, era stata già da decenni fornita dal protestantesimo» (pp. 25-26).
Si sta parlando di città delle meraviglie, nel massimo splendore del Rinascimento, ma i polemici puritani le dipingono con i colori dell’Inferno. Peggio sarà quando l’Europa protestante e capitalistica si allontanerà da Roma per la propria strada. Allora sarà la volta dei grandi scenari da incubo che «ben figurerebbero in un’edizione illustrata di un qualche Gothic Romance inglese…», dice ancora Zeri, l’Italia «quale teatro di orrori agghiaccianti» nella rappresentazione pittorica e letteraria. Il ‘Paese dei festini’ diverrà il centro della Romantik che ripropone il ‘viaggio in Italia’ sub specie peccaminosa. Ogni tanto bisogna andare a rileggersi quelle pagine che impalpabilmente incidono ancora sull’opinione pubblica europea del XX ed evidentemente del XXI secolo.
sabato 19 febbraio 2011
La tirannia del puritanesimo
Se un guitto sale sul palco per recitare la parte di un maestro, i giornali lo acclamano come un autentico docente e convincono il pubblico che la cultura dei comici sia l’unica ormai all’orizzonte. Anche se la lectio ad usum plebis ricorda pateticamente l’addestramento dei balilla nel ventennio fascista, con ossessivo odio dello «straniero» e miserabile esaltazione della patria che fa diventare vanto «italiano» gli imperatori romani. Con baldanza squadristica si riduce il «mistero italiano» disegnato dalla Provvidenza a un episodio nazionalistico dell’Ottocento, a una vicenda balcanica. E il medesimo lessico sciatto e ripetitivo che serviva a ingannare le platee su Dante viene trasposto per elogiare il paroliere di un inno assai infelice; nel frattempo il contadino che stroppia i versi danteschi ha preso un contegno da arrogante professorino. Perfino un gioco innocente come il vecchio festival delle canzonette, che anche Giorgio de Chirico raccontava nelle sue Memorie di seguire divertito, diventa la passerella dei tristi figuri del moralismo, ossia di quanto c’è di più alieno nella italica identità. La Commedia dell’Arte dimentica le sue maschere e introduce pallidi e sdegnati puritani. Ma uno dei migliori elogi che il falso maestro avrebbe potuto rivolgere al suo paese è proprio la nostra incompatibilità con il puritanesimo. Va detta e ripetuta questa caratteristica, mentre una feroce campagna cultural-politica cerca di cancellare millenni di storia e, per partigianeria irriducibile, assimilarci forzatamente ad altri popoli, ad altri mondi.
Savonarola, che semmai anticipò di molto i fenomeni quaresimali del Cinquecento protestante, dovette lottare anima e corpo per farsi accettare con la sua pronuncia emiliana dall’orecchio elegante dei fiorentini, imperando da quelle parti un antico senso estetico che non faceva sconti ai predicatori biblici. Quindi anche per innato spirito fazioso delle nostre genti conquistò popolo, filosofi ed artisti, portandoli a quel falò delle vanità dove bruciarono i tesori dell’Umanesimo. Fin da allora infatti l’estremismo moraleggiante, l’eresia profetizzante, si poneva contro i più straordinari frutti della italica civiltà, quella aurea stagione che poi prese il nome di Rinascimento, la migliore arte della storia che ben convisse con il cristianesimo romano.
Il puritanesimo vero, invece, scaturito dal calvinismo in terra britannica, nacque in spregio a Roma, proprio per gli scrupoli sugli «usi romani» rimasti nel nuovo sistema liturgico anglicano. Purificare la Chiesa e la società da ogni macchia ‘papista’, dall’«orribile meretrice» romana, fu l’intento del puritanesimo. Gli abiti liturgici in primis, «i cenci dell’anticristo romano», dovevano essere rifiutati. Partendo da questa avversione verso Roma, la «affettività antiromana» di cui si accorse Carl Schmitt, il puritanesimo avrebbe influito sul modo di pensare, sui costumi, sulla politica, sul teatro, sul comportamento, sul vestire. Abiti neri, teste rasate o comunque coi capelli mozzati: non bastava il sacerdozio universale, si tentava anche un monachesimo universale, e siccome tutti possono diventare santi ma non tutti gli umani sono portati a una vita ascetica, si dovette imporre, con la peggiore tirannia, le regole più severe, svuotare il mondo delle sue meraviglie, abolire lo sfarzo, la bellezza, il piacere. Giochi, danze, divertimenti furono esclusi dalla vita cristiana. Si arrivò a chiudere tutti i teatri. Una civiltà mortifera. Bibbia e lavoro, una vita borghese per accumulare denaro. Sempre con l’incubo di essere tra i reprobi, con il terrore del Giudizio Universale che tormentava l’infanzia di John Bunyan, sottoposti a un perenne processo, a una inquisizione metafisica senza tregua. Del resto alla Chiesa protestante, assembleare, era attribuita un’ampia giurisdizione sul comportamento morale dei privati, l’invidia e la rivalità devono avere eccitato terribilmente gli animi.
Si imponeva anche una uguaglianza radicale ma dividendo l’umanità in due rigidissime classi: da una parte i puritani, i migliori, gli eletti; dall’altra gli infedeli, i corrotti, i dannati. Fuori dal mondo puritano, fuori dal proprio mondo non c’era che perversione, e ai perversi andava riservato soltanto odio. I migliori padri di famiglia, i più amorevoli, si trasformarono nei peggiori aguzzini degli avversari. Un modello per i totalitarismi dell'avvenire.
Il comportamenti della militanza moralistica si ripetono nei secoli: idolatria della legge (biblica) scritta, farisaica, della lettera; rigetto dell’interpretazione, della sapienza scaturita dai secoli, che solo i «corrotti papisti» potevano osare di mettere accanto alla Verità scritturale; improvvisazione mistica della gente del popolo, degli autoproclamatisi profeti che si ritrovano su un pulpito senza alcuna preparazione, alcuna cultura, laddove il sacerdote cattolico è formato anzitutto nel diritto canonico; un fragoroso agitare i princìpi per poi comportarsi con grande spregiudicatezza pur di far fuori l’avversario («Parigi val bene una messa» è d’altronde una conclusione protestante, e i puritani furiosamente anti-episcopali accettavano la carica vescovile da Elisabetta onde evitare che finisse in mani cattoliche); mancanza di sorriso.
Così nella battaglia puritana la musica d’organo e le immagini furono eliminate dalla liturgia; secoli dopo Friedrich Schiller, il protestante Schiller, fa dire a un suo personaggio nella Maria Stuarda queste battute troppo dimenticate dal mondo latino:«Avevo vent’anni, regina, ed ero stato educato nella rigida osservanza del dovere, ed avevo assorbito col latte della nutrice un odio senza limiti per il papato, quando un desiderio impetuoso mi attrasse verso il Continente. Lasciai le umili stanze dove predicano i puritani, abbandonai la patria, e percorsi a volo d’uccello la Francia. Desideravo ardentemente giungere in Italia, di cui avevo sentito tanto parlare. Era l’epoca del Grande Giubileo, le vie erano affollate di pellegrini, le immagini sacre erano cinte di fiori, e si aveva l’impressione che tutta l’umanità avesse iniziato un mistico pellegrinaggio in direzione del Cielo. Io stesso rimasi coinvolto nella folla dei fedeli che mi trascinò fino a Roma. Cosa non provai allora, regina, quando vidi innalzarsi davanti ai miei occhi nel loro fulgore le colonne e gli archi di trionfo, quando la sublime maestà del Colosseo abbagliò il mio sguardo, e il meraviglioso spirito dell’arte mi svelò i suoi incanti e i suoi prodigi! Non conoscevo il potere ammaliatore dell’arte. La Chiesa riformata che mi aveva educato detesta l’allettamento dei sensi e rifiuta le immagini, tributando onore alla nuda parola priva dell’involucro del corpo. Cosa non sentii in seguito, una volta penetrato dentro le chiese, quando dal cielo scese ad avvolgermi l’onda divina della musica, quando una schiera tumultuosa di immagini si staccò veemente e prodiga dai muri e dal soffitto e di fronte ai miei sensi sopraffatti dall’estasi io vidi fremere ed agitarsi ciò che di più sublime e nobile esiste sulla terra! Quando ammirai i simboli e le immagini del Divino, il saluto dell’angelo, la nascita di Nostro Signore, la Madre di Dio, la Trinità scesa in terra, la Trasfigurazione che ardeva del suo stesso fulgore, e il Papa nella sua magnificenza cantare la messa solenne e benedire le folle! Paragonato a questo, cos’è lo splendore dell’oro e delle pietre preziose di cui si addobbano i sovrani della terra? Solo lui è cinto dall’aureola divina. Il Cielo, regno della verità, è la sua dimora, perché quei simboli e quelle visioni non appartengono a questo mondo».
La dolce vita romana, che scatenava turbamenti nei pensieri dei puritani, non era soltanto peccato, si ebbe anzi una dolce vita nella Controriforma, una dolce vita cattolica, un cristianesimo equilibrato che sottolineava come il prodigio dell’incarnazione fosse avvenuto nel mondo terreno, nel mondo dei sensi. Il teatro musicale dell’oratorio, l’architettura barocca, la scultura e la pittura somme di quel periodo sono qui a testimoniarlo. Certo, anche nella penisola cattolica ci furono brevi ondate di braghettonismo, di personali tormenti, di tendenze ascetiche, ma basterebbe riflettere su quella Galleria farnesiana dei Carracci – aperta al pubblico in questi giorni –, sulla donna discinta scolpita ai piedi di Paolo III in San Pietro (e che stupì Montaigne nel suo viaggio in Italia), sui corpi trionfanti che riempiono i Palazzi Apostolici (non c’è museo al mondo con più nudi, dice il direttore dei Musei Vaticani) per capire che nella nostra tradizione si affermò un cristianesimo ben diverso dal fanatismo spettrale degli spiritualisti. Nel mondo cattolico, la Maddalena – che per un errore di interpretazione fu confusa con la prostituta di cui parla il Vangelo – diventava una santa a cui ricorrere per i peccati della carne, una santa che scultori e pittori rappresentavano nella sua fisicità seducente, appena velata da lunghi capelli, e che il clero poneva sugli altari. Nella città santa invasa dalle cortigiane, come si chiamavano a quel tempo, veniva dannato il peccato, non le peccatrici.
martedì 15 febbraio 2011
La contraffazione universale
PUNTATA: LA MECCANIZZAZIONE DELL’ARTE ~
Come neutralizzare gli «effetti conturbanti dell’arte»? Seguendo per tre puntate Edgar Wind nella sua raccolta di saggi Arte e anarchia (Adelphi) abbiamo visto anzitutto i pericoli che l’arte comportava quando era al centro della civiltà occidentale, quindi i più recenti fenomeni che l’hanno resa innocua: l’art pour l’art e il culto del frammento, il feticismo della forma e il feticismo del dettaglio, la cultura fatta a pezzi, il paesaggio di macerie, l’Apocalisse senza figure. In questo ultimo sguardo al garbato discorso dello studioso tedesco sfioreremo la «meccanizzazione dell’arte». Boccioni la invocava con l’entusiasmo dei futuristi per ogni dono della modernità e ne ordinava il culto agli adepti della sua setta: «L’uomo si evolva verso la macchina!». Le Corbusier, quando già se ne vedevano bene gli effetti, si eccitava in modo ridicolo: «L’uomo (quello che crea la macchina) agisce come un dio, ossia nella perfezione». Wind non si occupa delle nuove fedi, il suo libro non è un’invettiva contro la modernità, registra semplicemente come talvolta la macchina appiattisca l’arte. Scorge addirittura «un’inquietante affinità tra l’“arte pura” e le esigenze della meccanizzazione», dal momento che le ‘forme pure’ «sono più facili da meccanizzare».
Le macchine hanno semplificato talmente l’arte che gli artisti si son dovuti inventare degli ostacoli, infliggersi delle difficoltà penitenziali, autocostringersi in limiti artificiali per sostituire quelli tradizionali annullati dalla tecnologia (ma pure, va detto, per la libertà assoluta, senza più il pungolo di geniali committenti). Naturalmente è storia antica, già Federico da Montefeltro, per esempio, non riusciva a leggere un libro a stampa, gli sembrava una dissacrazione, mentre i primi libri stampati cercavano disperatamente di assomigliare ai manoscritti e talvolta vi si aggiungeva una colorazione a mano per rendere le iniziali più vicine alle miniature: di fronte a questi nuovi prodotti che si offrivano come surrogati, il duca di Urbino subdorava un intento truffaldino. Nell’ultimo secolo comunque gli interventi delle macchine si moltiplicarono all’infinito, la tecnologia offrì tutti i servizi agli artisti e rese l’arte una faccenda banale. La prima a gettare nel caos le tecniche della rappresentazione fu la fotografia: sconvolse la pittura eppure per tutto l’Ottocento si presentò come una pittura meccanica, una pittura degradata. Fu poi la volta del cinema, teatro degradato, successivamente della televisione, cinema degradato, e così via nel circolo vizioso della generale degradazione, mentre proliferava l’imitazione dell’antico, lo pseudo-antico, la contraffazione universale. Alcuni cineasti del secolo scorso dipingevano a mano la pellicola, la coloravano in maniera antinaturalistica, per negarne la meccanicità, gli ingegneri degli apparecchi stereo pretendevano riprodurre con l’‘alta fedeltà’ la sala da concerto e John Cage combatteva la macchina introducendo il caso nello sviluppo dei suoni… È la storia della cultura dei Cinquanta e Sessanta, prima cioè di finire nella accettazione del bluff come unico orizzonte del Contemporaneo. In quegli anni ancora si restava turbati dall’ingresso delle macchine sulla scena culturale e si provava a misurarsi con esse. Wind, che scrive in quell’epoca, sottopone le sue riserve in proposito.
Parlando della musica riprodotta, nota che l’incisione su disco sviluppa «uno stile suo proprio». E spiega: «certe rilevanti idiosincrasie del fraseggio, per esempio, che possono sbalordire e fare impressione nella sala da concerto, irritano invece se si ascoltano spesso. Di conseguenza, la registrazione tende a eliminarle, mirando a ottenere una rifinitura tecnica tale da permettere l’ascolto continuo e ripetuto». Soltanto una sottolineatura dei mutamenti nascosti, della percezione addomesticata e quindi della edulcorazione dell’arte. La uniformità meccanica addestra l’orecchio come l’occhio. Il compositore ha cominciato a puntare «a uno stile di esecuzione musicale adatto al montage e alla esecuzione stereofonica; così come il linguaggio meccanizzato del cinematografo ha avuto un’influenza decisiva su certi stili di letteratura teatrale e di recitazione, subordinando la gamma dell’espressione umana alle possibilità dello schermo». Discorsi di altri tempi, cui non siamo più abituati, nonostante il sistema si sia ben rafforzato e faccia incrociare generi e discipline a maggiore gloria del mercato (romanzi scritti con un occhio già al soggetto cinematografico, film ideati per essere suddivisi nelle serate televisive: sono trovate assai note), ma non ci si scandalizza più, proprio perché, direbbe Wind, la cultura non provoca ormai alcun scandalo.
Wind getta uno sguardo anche alle arti minori, gli rubiamo una bella osservazione: «I coltelli, le forchette e i cucchiai aerodinamici non possono non disturbare l’atto del mangiare, dal momento che ce ne rendono inutilmente consapevoli». Ce ne accorgiamo ancora o proviamo un confuso fastidio senza capire il perché?
Ma è nella pittura (in quel tempo si chiamava ancora così) che appare più evidente il marchio della riproducibilità: «che il nostro modo di vedere l’arte abbia subito un mutamento provocato dalla riproduzione, è ovvio. I nostri occhi sono oggi molto più pronti a cogliere qugli aspetti della pittura e della scultura che con maggiore efficacia la macchina fotografica riesce a mettere in evidenza». Jean Clair aggiungerà, decenni dopo, che la riproduzione fotografica esclude proprio quanto c’è di ‘artistico’ in un quadro, mentre ogni gesto idiota della body art, una volta riprodotto nella foto, viene enfatizzato, diventa icona, come nella reclamistica della pop art. Questa era la vera «perdita dell’aura» che inorgogliva le avanguardie. Mai mettendo in luce, però, che si stava sviluppando – come scrive Wind – «un’immaginazione pittorica e scultorica decisamente tesa verso la fotografia», una sua appendice fumosa, con il risultato di raggiungere una «indiretta compiutezza» solo attraverso la riproduzione meccanica. L’odierno Google Art Project, per cui i direttori dei massimi musei parlano innocentemente di possibilità di «vedere» online i quadri che essi conservano, come se si trattasse davvero di una «visione» davanti allo schermo che informa coi pixel, è il coronamento di un tale svuotamento culturale. L’arte non ha più una casa, un tempio, si diffonde nel profano e, dopo il passaggio nel museo cartaceo di Malraux, entra nel museo virtuale, diventa compiutamente profana (e del tutto inutile). Ciononostante, negli ultimi decenni, coloro che si fregiano del nome di artisti, hanno lavorato quasi esclusivamente per esporre i loro prodotti in un qualche museo, opere nate morte per essere subito seppellite.
Anche l’antico viene visto ormai attraverso il filtro delle nostre macchine. Ecco l’ingegner Viollet-le-Duc che credeva di far risorgere con la tecnologia l’arte medioevale delle cattedrali dando invece vita al «gotico ottocentesco». Le metodologie attuali intorno al restauro, casuistiche e variabili a seconda delle stagioni filosofiche, non impediscono al nostro presente di imporre il suo segno sulla ripulitura dell’arte, falsificandola quindi un poco. «L’idea che un dipinto del Quattrocento, per fare un esempio, possa essere riportato con sicurezza scientifica al suo pristino stato, come se cinquecento anni di esistenza non avessero lasciato su di esso traccia alcuna, è naturalmente un assurdo, sia dal punto di vista chimico, sia dal punto di vista storico». Proprio come la traduzione ha impressa la sua data o su un disco si sente il fruscio dell’epoca, anche la ripulitura sarà caratterizzata dalla sua «ombra storica». E dal momento che, come si accorse Jünger negli anni Trenta, il paesaggio moderno è continuamente in restauro, appunto grazie alla tecnologia in perenne aggiornamento, la falsificazione del passato si intensifica.
«Bisogna scoraggiare le belle arti» andava dicendo Degas, preoccupato della brutta piega che le questioni culturali stavano prendendo. Adesso i missionari della cultura la propongono come rimedio ai mali del mondo, senza rendersi più neanche conto di come spesso essa sia lo specchio suggestivo di quel male.
(4. - fine)
sabato 12 febbraio 2011
I mariti di Donna Prassede
«Chiunque non faccia apprendere un lavoro manuale a suo figlio,
si comporta come se ne volesse fare un brigante»
........................................................................................................E. R. JEHUDAH
Spesso è capitato di ascoltare delle persone che rivendicano stipendi più alti per un diploma di laurea strappato in gioventù, come fosse una sofferenza patita da compensare coi soldi. Se si obietta loro: «ma in fondo fu un privilegio e un piacere», restano perplessi. In ogni caso incorniciano la pseudo pergamena quasi si trattasse di una medaglia al valore, ne menano vanto, se autori di un qualche libretto menzionano la laurea nel risvolto di copertina, apprezzano addirittura il titolo di dottore nonostante sia ormai concesso a porci e cani. Si presentano come martiri della cultura, schiacciati dal suo peso, vocati a quel sacrificio. Mai che appaiano contenti, che si sappiano divertire con libri, arte, musica, che riescano a parlarne con giubilo.
martedì 8 febbraio 2011
Le dame ipocrite
CHE ALZA DAVANTI ALL’OPINIONE PUBBLICA
LE SOTTANE DELLA VITA ~
«Via la mano brutale, infame sbirro!
Te stesso frusta, non quella puttana!
Tu bruci dalla voglia di far con lei
Ciò per cui la punisci!»
SHAKESPEARE, Re Lear, IV,6
Indignato per la condotta giudiziaria e il trattamento giornalistico di un clamoroso processo viennese primo Novecento, e non riuscendo a dare espressione letteraria alla sua collera, Kraus cercava in Shakespeare la parola decisiva sulla «morale che ha reso possibile e gonfiato quel processo». Poi, nel giornale che pubblicava da solo, «Die Fackel», cominciò a sferrare colpi accorti ai giudici e ai giornalisti, smontò con eleganza la macchina truce dell’opinione pubblica.
«Stanno accadendo cose di fronte a cui il linguaggio dello sdegno ammutolisce», diceva in un incipit. Anche noi, un po’ turbati dall’ipocrisia epidemica, ricorriamo alle sue parole, già tanto utili quando a Roma inaugurarono in un solo giorno addirittura due musei del contemporaneo (v.«Almanacco romano», 2 giugno 2010, «Un’esperienza estetica alla toilette»). Le citazioni son tratte da Morale e criminalità (trad. di B. Cetti Marinoni, Bur, 1976).
«Chi è uso per mestiere a mettere in guardia dai pericoli che lo sviluppo di una stampa d’opinione venale procura alla generale civiltà e al bene delle nazioni; chi si batte per la sopravvivenza di tutte le forze conservatrici di fronte all’irruzione di un’orda priva di tradizioni; chi preferisce perfino lo stato di polizia – e non solo in senso estetico – all’affermarsi del dispotismo del giornalume; chi riconosce con franchezza d’aver abbracciato in tutti i campi del pubblico dibattito, se non altro per risentimento, il partito dei cattivi contro i peggiori, e anzi d’aver abbandonato qualche volta la buona causa per disgusto dei suoi paladini, può sperare che si giudichi insospettabile, e pura espressione di un convincimento, anche una confessione che a parecchi può giungere inattesa».
«Quando gli uomini hanno facoltà di emettere giudizi su altri uomini dovrebbero tener sempre presenti i limiti della loro conoscenza».
«Proprio gli spiriti conservatori, tacciati di ‘mentalità clericale’, anziché spingere la giustizia dello stato a sorvegliare le segrete vie della psiche non dovrebbero avere altra aspirazione se non di badare che accanto al potere terreno, che punisce, conservi un po’ di spazio anche il rappresentante di quello ultraterreno, che ammonisce».
«Partito dall’idea di infliggere una sanzione allo scandalo provocato dalla pubblica immoralità, il legislatore è incappato nel sofisma che l’immoralità provoca pubblico scandalo. E quando il pubblico scandalo s’è avuto sul serio come risultato del perseguimento penale dell’immoralità privata, il giudizio, tutto preso dalla ricerca dei dati di fatto, aveva ormai perso la capacità di distinguere tra causa ed effetto».
«Con la ‘morale’ il codice non c’entra, c’entra solo il pettegolezzo di provincia».
«Il legislatore in veste di cronista ficcanaso che alza davanti all’opinione pubblica le sottane della vita, la giustizia ridotta alla parte di un domestico indiscreto che origlia alle porte delle camere da letto e spia attraverso il buco della serratura!».
«Nel regno eterno degli impulsi sessuali, che sono più antichi del bisogno di ipocrisia, il legislatore si muoverà sempre con impaccio».
«Morale […] è la difesa delle mezzane dalla concorrenza sleale degli editori di giornali, che esercitano il mestiere tra rischi molto minori».
«"Al commissariato di polizia di Mariahif è stata inoltrata contro una giovane e bella attrice, al momento priva di scritture, una denuncia anonima secondo cui essa esercitava di nascosto la prostituzione. In seguito a ciò il commissariato ha svolto delle indagini, ha fatto sorvegliare l’attrice e ha convocato un gran numero di persone che l’avevano frequentata. Ma benché tutti questi testimoni scagionassero l’accusata, il commissario di polizia ha condannato ugualmente l’attrice a quarantott’ore di arresto per ‘oltraggio abituale al pudore’. I padroni di casa dell’attrice avevano dichiarato che non era accaduto assolutamente nulla di contrario alla morale: era vero che spesso parecchi signori s’erano trovati in visita da lei nello stesso momento, ma ciò era sempre avvenuto in loro presenza […]”. [Questo l’articolo di un giornale dell’epoca e questo il commento di Kraus:] Viene da chiedersi in che secolo viviamo quando si sente che una donna ha dovuto rassicurare le autorità dichiarando che i suoi visitatori non erano soli con lei nella stanza, che insieme a lei hanno solo conversato e non han fatto altro che potesse indisporre il signor commissario. Cosa ci stiano a fare al mondo i poliziotti, dunque, lo si capisce non soltanto quando restano ignoti i ladri e gli assassini; ma che ci stiano lo si può solo spiegare col fatto che di tanto in tanto succede sempre qualcosa di “atto ad offendere gravemente il senso del pudore”».
Si parla della Vienna di cent’anni fa.
venerdì 4 febbraio 2011
Il bello in frantumi
~ TERZA PUNTATA: IL CULTO DEL FRAMMENTO ~
Torniamo per la terza volta su un libro di Edgar Wind, Arte e anarchia (Adelphi), a leggere tra le righe una immagine della cultura più minacciosa di quanto normalmente si sia portati a credere. Non si tratta in questo caso delle vecchie lamentazioni sulla società ‘cattiva’ che viola la cultura benefica, neppure della mercificazione capitalistica di questa virtuosa attività spirituale, insomma dell’allarme spesso lanciato dagli intellettuali sulla cultura in pericolo, bensì – sulla scia di Platone – dei pericoli che la cultura porta con sé, non essendo affatto innocua e inerme. E se è vero che attualmente il «sacro timore» non l’avvolge più, ciò deriva dal fatto che arte, letteratura e musica svolgono ormai una funzione ornamentale, annacquata rispetto al mondo antico dove occupavano il posto centrale. Spodestata dalla scienza, la cultura umanistica sembra ricorrere al carattere ‘sacro’ soltanto per conservare due vecchi privilegi: la libertà di dire l’indicibile (ma non essendo più in gioco la verità, quel che non si può dire è essenzialmente l’osceno, etimologicamente il melmoso); i guadagni fuori da ogni ragionevolezza del mercato. In questa puntata vedremo altri modi con i quali son stati limati gli artigli della cultura tradizionale.
Antesignano del comico dei nostri giorni che fa la arguta parodia dello spacciatore d’arte televisivo, William Hogarth alle soglie del moderno aveva già messo in burletta le fumose chiacchiere di curators e critici che alimentano i voluminosi cataloghi. Su un quotidiano del tempo, l’artista satirico raccontava del modo di truffare il pubblico credulone: «Signore, vedo che lei non è un connoisseur, questo quadro, glielo posso assicurare, è un Alesso Baldminetto seconda maniera, cioè la migliore; arditamente dipinto, e assolutamente sublime…». Naturalmente il nome storpiato di un artista italiano gioca sull’assonanza con il vero, storicamente vero, Alesso Baldovinetti, si orecchia l’erudizione, mentre le maniere si susseguono per confondere il compratore (forse c’è sempre l’inganno nella maniera), anche prima degli imbonitori televisivi il personaggio di Hogarth dice le stesse battute dei nostri battitori elettronici e dei nostri paladini del Contemporaneo, ricorre ai medesimi ridicoli pretesti estetici. «Poi, dopo aver sputato in un angolo buio del quadro – prosegue la lunga citazione di Hogarth riportata da Wind – [il ciarlatano] lo strofina con un fazzoletto sporco, salta nell’angolo opposto della stanza e da lontano esclama estasiato: “E guardi un po’ questo particolare, se non è sorprendente! Un collezionista potrebbe tenerlo in casa per un anno, prima di incominciare a scoprire la metà delle bellezze che vi si nascondono!”». I papi erano mecenati esigenti, sapevano quel che volevano dai massimi artisti del Rinascimento, l’acquirente piccolo-borghese si nutre di sentito dire e si lascia intimidire facilmente dai paroloni. Il Pappagone della Transavanguardia ha fatto la sua fortuna con un linguaggio colorito quanto approssimativo, come l’indimenticabile ‘servitore’ del commendator Peppino De Filippo. Per evitare gli inganni, ecco allora una lungo serie di studiosi che mettono a segno dei metodi onde accertare l’arte autentica e distinguerla dai falsi, proprio mentre tutta l’arte rischia di diventare falsa. Giovanni Morelli, con mosse lombrosiane, trovò il bandolo della matassa nel dettaglio, altri ricorreranno alla tecnologia, l’occhio sapiente essendo ormai poco diffuso. Anzi, dal momento che l’arte diventa una merce nella quale investire, piuttosto che un oggetto di diletto, c’è bisogno di garanzie per rassicurare il compratore incolto. I dettagli preziosi che assicurano la autenticità e l’attribuzione stabiliscono pure «quanto vale». Ma, al di là dell’aspetto sociologico, che Wind non sfiora neppure, questo concentrarsi sul dettaglio da parte di Morelli diventa la «traccia dell’“originale perduto”». Ossia, il suo culto del frammento, «assurto a vera firma dell’artista, è una notissima eresia romantica». Wind ha trovato un’altra faccia di questo lungo addomesticamento della cultura: la sua frantumazione.
Il metodo morelliano conduceva a privilegiare il disegno sull’opera pittorica realizzata, dopo di lui sempre più si andrà alla ricerca della sinopia, dello schizzo iniziale, del bozzetto. In tal modo, ma non per ‘colpa’ di Morelli, «l’immediatezza, feticcio romantico, – scriveva Praz – di cui sono sottospecie l’impressionismo e la scrittura automatica, una volta assunta a supremo criterio di giudizio, ha fatto sì che non solo vengano condannate intere epoche artistiche come il neoclassicismo, ma che dei grandi artisti neoclassici, si salvino solo gli schizzi, gli abbozzi, gli spunti come quelli che conservano qualche scintilla di quel fuoco divino che poi la rielaborazione smorzerebbe».(Gusto neoclassico). Canova patì infatti le conseguenze di tale romanticismo, i suoi bozzetti furono preferiti alle statue. Il «culto romantico dello spasimo» isolava il particolare e portava le arti verso un permanente «stato di crisi». E siccome anche «la poesia è il linguaggio di uno stato di crisi» (Mallarmé) e le crisi sono brevi, «il poema lungo – sosteneva il critico britannico A. C. Bradley – è un’offesa all’arte». Stefan George nella sua traduzione della Commedia dantesca procedeva, all’opposto di Borchardt, spezzando l’opera in una serie di brevi poemetti, in modo, riteneva, di cogliere il poetico e lasciare da parte «l’immenso edificio del mondo-Stato-Chiesa» (impressionante assonanza con le crociane distinzioni tra intuizione lirica e l’impoetica struttura). La pittura romantica di genere storico, con le sue grandi tele equivalenti al poema lungo e soprattutto al melodramma, sembra una eccezione ma, come il melodramma, risulta comunque un’arte ormai scarsamente raffinata, più adatta al gusto popolare. ‘Non finito’ e abbozzo si impongono nell’arte degli ultimi due secoli anche per rileggere i maestri del passato. Inutilmente Vasari testimonia che Michelangelo raccomandò in punto di morte di bruciare schizzi e cartoni «per non apparire se non perfetto», la perfezione essendo ormai una virtù sconosciuta agli ultimi moderni. E il frammentario si accompagna al capriccio – il cubismo è un immenso capriccio, dice Wind – echi della trionfante Insensatezza.
Il reverendo William Gilpin, l’ideatore della formula del «pittoresco», riteneva che per ridare vitalità a un monumento d’architettura palladiana, occorreva servirsi della «mazza piuttosto che del cesello: dobbiamo buttare giù metà della costruzione, rovinare l’altra metà e infine sparpagliare e ammucchiare intorno le membra mutilate». Mutilare la figura umana e poi di seguito mutilare tutto il visibile sembra essere la parola d’ordine degli ultimi due secoli, l’iconoclastia attuale ne ha fatto un cliché. Perfino la fotografia, anzi soprattutto la fotografia, per cancellare il suo peccato originale di essere mimetica, deve frantumarsi, cancellare la sua rappresentazione, automutilarsi.
Quel gusto della spontaneità che distruggeva le superfici pittoriche per cercarvi dietro i pentimenti dell’artista, il primo abbozzo, l’istante dell’ispirazione, andava poi a fare a pezzi le statue affinché ne restassero evocativi frammenti, particolari che si prestavano pure alla allegoria di medioevale tradizione, e infine devastava il giardino all’italiana dove regnava il Logos per imporre quello all’inglese, natura ideata in modo selvaggio e ruderi artefatti. Wordsworth sintetizza: «una sete degradante di stimoli violenti». Gusto del frammento e gusto del barbarismo del resto vanno d’accordo. Non è un caso che la Kabbalah ebraica uscirà dai suoi millenari segreti per diventare breviario estetico della cultura contemporanea: una guida per muoversi in un mondo in frantumi.
«Vollard scherzosamente asseriva di aver visto Rodin che faceva a pezzi delle statue per ricavarne frammenti», racconta Wind, mentre Rilke, assistente spirituale dello scultore in gioventù, sognava una Eleonora Duse che recitasse senza braccia. Aveva cominciato C. D. Friedrich a cancellare il volto, i filosofi francesi alla moda finirono con il predicare nell’ultima parte del Novecento la soppressione totale dell’essere umano, come una figurina sulla sabbia. In mezzo, gli urli espressionisti, la riscoperta dei frammenti dell’incompiuto Woyzeck, i drammaturghi tedeschi che concepivano un teatro di espressioni di una o due sillabe gridate, Schönberg che musicava questi istanti di dolore. Un immenso repertorio di frammenti la cultura di oggi, quasi si fosse al day after della grande catastrofe. L’Apocalisse sa ancora raccontare in una forma composta, in una storia lunga e articolata, in immagini saldamente collegate; l’arte del nostro tempo si vuole già oltre la fine del mondo, post-escatologica, post ogni cosa.
Arte da camera, musica da camera, letteratura da camera, intimissima, privata: la cultura dei frammenti si emargina da sola, mai più gli affreschi, le statue, i monumenti, le opere complete, conchiuse. Si definisce «leggera» certa musica (in contrapposizione a quella «forte», come la chiama Quirino Principe che sdegna le debolezze estetiche), ebbene ormai c’è anche un’arte leggera, una cultura leggera, che dominano l’Occidente.
(3. – continua)